Quando il gioco si fa serio

Si può giocare alle Brigate Rosse come ai vampiri o a Game of Thrones? Appunti sui giochi di ruolo dal vivo, i LARP: per una via anticompetitiva all’esperienza ludica

Nei giorni scorsi si è scatenata una polemica (specie sui quotidiani) che ha avuto il merito di far debordare in superficie un mondo altrimenti sotterraneo: quello del LARP, Live Action Role Play o gioco di ruolo dal vivo. A Bobbio Pellice (TO) si è svolto Ultimo Covo, un evento di gioco di ruolo dal vivo a sfondo storico, ambientato durante le ultime fasi del rapimento del generale americano James Lee Dozier da parte delle Brigate Rosse (1982). Nella vulgata dei giornali, «due eserciti di adulti fanciulloni» si sarebbero incontrati allo scopo di condividere «un momento di svago, di cazzeggio giovanile», sfidandosi come «concorrenti» allo scopo di «commemor[are] le gesta dei terroristi». Una specie di sabba anarco-rivoluzionario, la memoria delle vittime sull’altare del più bieco edonismo, ecc.

La polemica ha un merito che ne è anche la causa: l’intersezione fra due mondi estranei, che faticano a comprendersi. Merito perché, appunto, ha permesso al mondo «di sopra» (quello della stampa e della divulgazione generalista) di incontrare il mondo «di sotto» (quello dei LARP). Causa perché il cuore della polemica è proprio l’incomprensione fra i due mondi, o per meglio dire la diversità nei rispettivi linguaggi.

Altri hanno già risposto alle critiche nel merito dell’evento. Ultimo Covo non era una pagliacciata: chi vi ha partecipato ne è uscito con il mal di pancia, e con una maggiore consapevolezza (dura in quanto vissuta sulla propria pelle ma non troppo in quanto mediata dalla finzione) della complessità di quel periodo storico. Questo, d’altronde, era l’obiettivo dell’evento. In questa sede vale la pena portare la riflessione un passo più in là, e analizzare il minimo comune denominatore delle polemiche per fare il punto su stato e maturità di un medium che troppo spesso noi «addetti ai lavori» ci ritroviamo a dover difendere, e intorno al quale forse andrebbe sviluppata maggiore consapevolezza.

Il trailer di Ultimo Covo

Cos’è un LARP? Pressappoco questo, o più brevemente (prendo in prestito le parole di Stefano Santangelo), un’esperienza in cui «nessuno vince o perde, non ci sono punteggi: si interpreta un personaggio (reale o fittizio) in una ambientazione (altrettanto reale o fittizia) condivisa con gli altri personaggi, e lo scopo è quello di creare una narrazione interattiva, alla cui creazione collaborino tutti i personaggi.» Se un LARP è un’esperienza, il LARP è un medium, perdipiù chimerico: arte performativa, ma anche narrazione corale; gioco interattivo, ma anche psicodramma. Un po’ teatro, un po’ esperienza ludica, un po’ improvvisazione. Un minestrone che rende difficile una riflessione sul fenomeno in sé e costringe sempre a parlare della singola esperienza contingente.

Una teoria unitaria del LARP, nonostante i tentativi fatti negli anni, non esiste. Tant’è che per smentire le critiche a Ultimo Covo il modo più semplice (l’unico) è stato quello di far parlare i partecipanti. Viceversa, sarebbe stato arduo controbattere a partire da un presunto statuto di serietà del mezzo. Se le critiche fossero piovute su uno spettacolo teatrale (o un romanzo), la risposta sarebbe stata semplice: «Ma che cazzo volete, gente, è teatro (o letteratura)». Insostenibile solo in caso di macroscopiche colpe (contenuti storicamente inesatti o propagandistici), ma di base utilizzabile contro chi contesti  l’esistenza in sé di un evento basato sugli anni di piombo. In questo caso, trattandosi di LARP, non è stato possibile: troppo strano il fenomeno, troppo misconosciuto, troppo frammentario.

Eterogeneo in ogni senso: nei fatti, si va dal LARP più prettamente fantasy a quello sui rifugiati; nella teoria, il cielo è un panorama puntiforme di manifesti, categorizzazioni e papers accademici. La riflessione teorica annaspa, balza tra gli strumenti delle scienze più varie: così per parlare di LARP bisognerebbe partire dalle riflessioni fatte in materia di game design, oppure da quelle applicabili al gioco di ruolo da tavolo (effimere pure loro), oppure ancora dalla narratologia, e via così. Elucubrazioni mentali? Forse. Ma forse suggeriscono una certa difficoltà nel mettere a fuoco l’oggetto della riflessione; e forse è proprio la mancanza di coscienza su cosa sia il LARP a rendere difficile affermarne la dignità, e quindi a ostacolare l’incontro fra mondi.

Esiste, certo, un consenso più o meno unanime su certi punti-chiave. Ma è un consenso che non passa attraverso un logos, un discorso: è una conoscenza intuitiva, esperienziale, esoterica, condivisa tra i giocatori e difficilmente comunicabile. E anche (o forse «e quindi») incompleta. Ma no! Il LARP non è solo intrattenimento, svago, burla, ma no, ma certo che no! Andando a fondo emergono tutti i limiti di una consapevolezza così indistinta: la serietà del LARP è ontologica (il LARP è sempre una «cosa seria»)? Deontologica (il LARP deve essere una «cosa seria»)? O solo possibile (il LARP può essere anche una «cosa seria»)? Dando per buono che l’ontologia della serietà è contraddetta dalla realtà, l’inespresso conflitto è quello fra le ultime due domande.

Blodsband Reloaded, un LARP svedese di ambientazione post-apocalittica

Proprio questo conflitto sembra aver prodotto una certa schizofrenia nelle reazioni di noi «addetti ai lavori»: il LARP non è solo intrattenimento, ma può esserlo; Ultimo Covo non era solo intrattenimento, perché il LARP è una cosa seria. In questo senso l’indignazione che serpeggia fra i giocatori di ruolo forse è un po’ ingenua: se anche per chi lo vive dall’interno il LARP può essere una cosa «poco seria», non c’è da stupirsi che per chi sta fuori sia sicuramente una pagliacciata. Soprattutto vista l’ambiguità del referente linguistico usato per presentarci all’esterno: gioco.

Negli abitanti del «mondo alto» la lettura di Ultimo Covo è stata pesantemente condizionata da questo termine, in una sequela di equivoci che magari giustificano l’aggressività ma che comunque restano equivoci. Nel gioco ci sarebbe, innanzitutto, la presupposizione di una dinamica competitiva: «una recita che […] contrappone due “eserciti”», dove «vince chi si impone sugli altri», con «concorrenti che si sono sfidati». Poi c’è la sfera funzionale, in virtù della quale diventa assurdità (hybris?) il fatto che «invece di recitare trame fantasy» i partecipanti abbiano «indossato i panni dei brigatisti rossi», giacché il il gioco ha (deve avere?) una funzione di semplice intrattenimento. «Il problema è che gli  Anni di Piombo non possono essere liquidati con un gioco», ovvero: non possono essere fonte di divertimento. Ecco allora il secondo equivoco: l’equivalenza fra gioco e divertimento, che ritorna ossessivamente: «chi gioca si diverte», è un «divertentissimo gioco». Infine, la (presunta) dimensione economica: «un momento di svago […] peraltro a pagamento», «business».

Ora: è innegabile che ci sia chi prova a fare del LARP una professione. Lì dove opera secondo un metodo economico, il LARP diventa in effetti evidente figlio della modernità, e segnatamente di quella experience economy che secondo Pine & Gilmore collocherebbe il futuro del capitalismo nell’offerta di esperienze. Saremmo già oltre un’economia dei servizi: il vero valore su cui capitalizzare sarebbe il ricordo di un’esperienza e/o il suo valore trasformativo dell’individuo. Detto questo, il LARP come mezzo di profitto è pura teoria, e smentita dalla realtà: non solo Ultimo Covo non era organizzato secondo logiche di profitto, ma nella maggior parte dei casi gli eventi LARP coprono appena i costi vivi (e chi prova a farne mezzo di reddito notoriamente arranca). Il peccato è negli occhi di chi guarda, e non sa concepire esperienze al di fuori di una logica capitalista: nella maggior parte delle sue manifestazioni, il LARP condivide con il gioco di ruolo da tavolo uno spirito profondamente anticapitalista.

Il LARP permette di vivere la complessità in forme altrimenti inaccessibili all’esperienza ordinaria.

L’associazione con il divertimento è il fraintendimento principale. Noi «giocatori» sappiamo bene che la sfera emotiva associata al LARP è molto più variegata e complessa: paura, ansia, tristezza… D’altronde la verosimiglianza di un’esperienza si regge proprio sulla sua capacità di offrire (e quindi replicare) uno spettro emotivo completo. Emozioni che sono, certo, prima di tutto del personaggio, ma che spesso «sanguinano» dal personaggio al giocatore (è il cosiddetto bleed). La ricerca di un’emotività strutturata, la sperimentazione di altre realtà, fa sì che il (argh!) «vivere molte vite» su cui si fonda il valore della letteratura ritorni col triplo dell’intensità in un LARP; in un buon LARP.  

In tre parole, il LARP permette di vivere la complessità in forme altrimenti inaccessibili all’esperienza ordinaria. È nella sua natura: produce narrazioni imprevedibili, poliautoriali, vissute attraverso un punto di vista che nessun altro medium narrativo offre; così vicine al soggetto da richiamare ambizioni immediatiste. Il LARP emula il possibile, ogni possibile, e dunque (potenzialmente) anche quella stessa realtà da cui si separa momentaneamente. A modo suo contraddittorio, giacché nella finzione il realismo (inteso come ricerca della verosimiglianza) è il primo valore perseguito e quindi è quasi intrinseco un rifiuto della finzionalità (se poi c’è dibattito sul valore del realismo in un LARP è solo per il trade-off fra realismo e altri valori, tipo la gestibilità o la sostenibilità economica). Il LARP imita la vita (ogni vita, storica realistica fantastica o distopica), la declina in forme diverse puntando a offrire esperienze vivide, convincenti, intense. Nelle forme più alte, quindi, anche «educative». Visto che parliamo di adulti, e costo di apparire cheesy, si potrebbe persino parlare di accrescimento.

L’idea che una dimensione alta si accompagni all’occupazione del tempo libero non è certo assurda, anzi: in questo il LARP condivide le stesse ambizioni di altri medium (cinema, letteratura, teatro); ai quali il «mondo alto» attribuisce con facilità una sfera funzionale più ampia del semplice divertimento, non sempre ben definita (a cosa serve la letteratura?) ma comunque capace di andare oltre l’intrattenimento, di trattare contenuti che al gioco sarebbero invece proibiti. E non ci si azzardi a parlare d’arte: «non c’è nulla di artistico nel far diventare un gioco pagine abominevoli della nostra storia», non ci si azzardi a opporre «inaccettabili rivendicazioni di un diritto d’autore come se si trattasse di un’opera d’arte». In definitiva «[…] recitiamo, riflettiamo. Nessun tabù. Ma per i giochi, lasciamo perdere gli anni di piombo e le sue vittime». Se dunque può esistere «un teatro che si apre alla realtà, la accoglie e le delega il fardello della storia, creando allo stesso tempo un elemento di racconto e un dispositivo affinché esso non diventi “messa in scena”» – e anzi forse debba esistere un teatro simile nel segno di una deontologia della serietà – lo stesso non sembra potersi dire per il LARP, condannato a essere necessariamente manifestazione carnevalesca.

Il rapporto fra LARP e conflittualità è forse più complesso, ma merita comunque di essere sviscerato – fosse solo perché dall’analisi ne emerge la superiorità del LARP sul suo fratello minore, il gioco di ruolo da tavolo. Ne La stanza profonda, Vanni Santoni mette in luce la matrice profondamente anti-competitiva del gioco di ruolo: narrazione orizzontale, partecipata, democratica. In effetti la logica intrinseca al «party» è quella della cooperazione: un conflitto esiste (qualunque storia ne ha bisogno) ma è diegetico, e vede il party fronteggiare le forze eteree scatenate dal Dungeon Master. Ma se il party è composto da quattro (cinque, sei, sette) avventurieri, un LARP vede la partecipazione di venti, trenta, quaranta giocatori. Il conflitto ritorna, sempre nella diegesi, ma interno ai partecipanti – si è detto che ogni narrazione ne ha bisogno. Questo comunque non basta a trasformare il gioco in ludus: la competizione interna alla diegesi  è ben diversa da quella sportiva. Non è cioè una competizione che investe la sfera dei motivi: non si gioca per vincere. La cesura fra personaggio e giocatore fa sì che gli obiettivi del primo non siano necessariamente quelli del secondo, anzi: la soddisfazione ricercata dal giocatore spesso può corrispondere alla sconfitta del personaggio (play to lose). Non per masochismo, ma perché quella sconfitta si inscrive in una narrazione più articolata e spesso contribuisce ad arricchirne valore e complessità – a beneficio non solo di quel giocatore (che ricerchi una simile complessità) ma anche di tutti gli altri.

Un gioco di conflitti in cui nessuno vince né perde, anzi: in cui la scelta di sottomettersi alla sconfitta è funzionale al raggiungimento di un «ottimo paretiano-narrativo». La matrice, nonostante le apparenze, è profondamente anticompetitiva; lo spettro del possibile – che non è solo quello dei contenuti, su cui Santoni costruisce la superiorità del GDR, ma anche quello dell’esperienza – fagocita quello del gioco di ruolo canonico.

Riassumendo: presunta dimensione economica, presunta inscindibile relazione fra gioco e divertimento, fra gioco e competizione, impossibilità di una qualificazione più alta del fenomeno. Queste le cause della polemica. Tutte quante, a loro volta, radicate in un problema essenzialmente linguistico.

Tra le tante critiche è spiccata quella di Nino Boeti, consigliere regionale del PD; in un breve botta e risposta con un partecipante a Ultimo Covo, emerge sia il tentativo di spiegare il senso profondo dell’esperienza che il bisogno di allontanarsi dal referente linguistico ordinario e avvicinarsi al confronto con altri medium.


E anche se le spiegazioni sembrano essere state recepite, c’è il sospetto che l’equivoco di fondo resti. «Non c’è stata, in questo gioco, l’intenzione di offendere nessuno», come a dire: diamo per assodata la vostra buona fede, l’elemento soggettivo dell’esperienza; oggettivamente, però, resta un gioco.

E questo ovviamente è un problema, perché le spiegazioni (indignate o meno), i comunicati stampa e le varie posizioni assunte internamente al mondo dei giocatori partono non solo da un giudizio positivo circa la singola esperienza contingente, ma anche da un assunto radicalmente diverso sulla natura oggettiva del fenomeno e sul significato del «giocare» (segnatamente del giocare di ruolo). Per chi vive nel mondo infero del LARP è un punto scontato, difficile da articolare, e gravato di una certa contraddizione («gioco di ruolo non significa burla», anche se andando a fondo si scopre che comunque potrebbe). Per chi vive altrove sono concetti vergini, che impongono una totale ridefinizione degli orizzonti linguistici. E se magari non ogni membro del «mondo alto» condivide il miope estremismo dei critici di Ultimo Covo, di certo molti condividono la stessa interpretazione dei termini di riferimento.

Insomma: anche a critiche esaurite, il problema persiste. Non aiutano gli scivoloni in corso d’opera: se offriamo al «mondo alto» un’estetica e un linguaggio che gli appartengono (la foto sorridente), pescati dalla diegesi della finzione e poi vomitati senza contesto nel mondo vero, a maggior ragione ci si può aspettare di essere fraintesi.

Il problema, dicevamo, persiste. Come risolverlo? Il modo più semplice sarebbe imparare l’inglese. «Role playing games» equivale a «giochi di ruolo» impropriamente, laddove il «play» inglese ha un valore semantico diverso dal nostro «giocare», e viaggia piuttosto fra giocare, interpretare e recitare. Nella bibbia degli apologeti del gioco (l’Homo ludens di Huizinga) è ben spiegato come il play inglese abbia un significato molto ampio e la sua etimologia richiami la sfera del movimento, con varie implicazioni rituali e sacrali; diversamente il latino iocari da cui si origina il nostro «gioco» significa semplicemente «dire qualcosa che faccia ridere», e questo forse spiega perché da noi persista l’incapacità di attribuire al gioco (in senso ampio) quella serietà che altrove il gioco si è già guadagnato. Prigionieri di una gabbia semantica millenaria, dentro cui l’unica alternativa è quella del ludus; il quale comunque richiama una dimensione competitiva (quella dell’ἀγών greco), buona al più per gli sport ma non per attività di stampo rituale (e sulla ritualità del gioco di ruolo torna sempre in mente Santoni). In mancanza di termini adeguati, e limitatamente al problema linguistico, le alternative sarebbero due: risemantizzare il «gioco (di ruolo)» o diventare un paese anglofono. Nessuna delle due cose, purtroppo, si profila all’orizzonte.

Peraltro, anche immaginando che un giorno si possa superare lo scoglio linguistico e passare da una valutazione negativa del termine a una neutra, la strada verso la costituzione di uno «statuto di serietà» (cioè una valutazione positiva del termine) sarebbe lunga. Lo si capisce guardando agli altri medium (teatro e letteratura in particolare) e a come questi si siano guadagnati la propria street rep: attraverso un percorso secolare di esempi virtuosi, grazie ai quali gli è stato riconosciuto ampio beneficio del dubbio.

È chiaro infatti che nessun medium è ontologicamente «serio» o «alto» di per sé: sono semmai forme e contenuti delle sue singole manifestazioni a definirne la qualità complessiva. Nel sentire comune, teatro e letteratura (ma anche il cinema) sarebbero capaci di trattare argomenti delicati proprio perché ne hanno già dato prova. Detto questo, non ogni medium ha la stessa maturità o capacità (percepita) di trattare temi controversi. Ribelli della Montagna, LARP ambientato durante la seconda guerra mondiale e di ambientazione essenzialmente partigiana, ha destato solo plausi. D’altronde il giudizio storico era più facile e la distanza maggiore. Ultimo Covo trattava un periodo più vicino e controverso, proibito al LARP e che tuttavia cinema, teatro e letteratura avrebbero ogni diritto di affrontare. Sulla contemporaneità anche gli altri media si iniziano a incrinare: Gomorra il libro non ha toccato nervi scoperti, Gomorra la serie qualcuno. «Gomorra il LARP» pare francamente troppo. Così, quando l’argomento controverso pertiene al reale, la maturità del mezzo sembra essere definita dal minor bisogno di distanza storica dal proprio oggetto.

Continuando su questa strada (azzardo un’ipotesi) il grado di maturità di un medium potrebbe essere suggerito da come questo viene rappresentato linguisticamente. «Letteratura» è un termine che evoca un medium e al contempo ne suggerisce l’intrinseca meritevolezza: un brutto libro non è letteratura (passatemi un filo di assolutismo), anche se è evidente che esiste uno spazio di confusione semantica tale per cui «letteratura» sarebbe anche (se non prima ancora) il libro in sé. Nonostante la crosta grattata da Walter Siti con Bruciare tutto (che nasce anche da considerazioni dell’autore sull’immaturità della letteratura di fronte al tema della pedofilia) la letteratura può dirsi comunque e da questo punto di vista il medium più maturo in assoluto.

Partecipanti a un LARP ambientato nella Seconda Guerra Mondiale

Si può ambire a un domani in cui «gioco di ruolo» o addirittura «gioco» assumano la stessa ambivalenza semantica di «letteratura»? Forse. Ma quest’ultima ci è arrivata dando prova di sé (e delle proprie potenzialità) in millenni di storia. Il LARP (come il gioco di ruolo) è ben lontano da una prova simile, e incontra difficoltà incredibilmente maggiori a causa di una molteplicità di fattori, primo fra tutti la minor accessibilità dei suoi prodotti. Il libro è replicabile, fissato in un testo scritto, e la sua esperienza (per quanto diversa da soggetto a soggetto) ha comunque una minima insindacabile omogeneità, fosse solo perché è a disposizione di (letteralmente) miliardi di persone. Il LARP è effimero, puramente esperienziale, e rispetto al libro si rivolge a pochi coraggiosi: centinaia quando va bene, qualche decina nella maggior parte dei casi. Il che (per fare il paio con la mancanza di una «teoria LARP») impedisce anche lo sviluppo di una vera «critica LARP».

La difficoltà è doppia se poi si consideri che gli elementi su cui definire il la maturità del medium LARP si moltiplicano non solo in base a tipologia, ambizioni e contenuti di ciascun singolo evento; ma anche in ragione della singola esperienza di ciascun singolo giocatore di ciascun evento. La poliedricità del LARP ritorna nel significato e nel valore che può essere attribuito a un LARP, che in ultima analisi è un significato del tutto individuale. E non è escluso che fra i vari approcci soggettivi ci sia anche quell’«edonismo depressivo» che farebbe del LARP l’ennesimo prodotto culturale oggetto di un consumo compulsivo.

Per non scadere nel relativismo apocalittico, va fatta una precisazione forse ovvia. Un LARP nasce comunque sempre a partire da un input organizzativo; da un insieme disparato di autori, scenografi e volontari disposti a mettere in piedi le strutture logistiche (luogo dell’evento, risorse, scenografie) e narrative (personaggi, ambientazione, condizioni e riferimenti diegetici di partenza) che faranno da cornice all’evento . La poliautorialità della narrazione finale, che emerge a evento concluso, si innesta comunque entro un quadro di riferimento di partenza (non solo fisico ma anche concettuale). La maggiore o minore rigidità di questa cornice è in rapporto inverso alla disomogeneità delle singole esperienze: spazi di gioco limitati, personaggi da interpretare alla lettera e una macronarrazione di riferimento su cui non è possibile incidere (ma che si può solo attraversare) sono il punto più estremo e solitamente meno apprezzato della retta.  L’istanza autoriale si fa istanza narrativa e traghetta i partecipanti in un film interattivo già scritto. Al termine del tutto, è probabile che le singole esperienze di ciascun partecipante saranno piuttosto vicine le une alle altre.

Eventi dai contorni più netti sono anche più facilmente replicabili. I cosiddetti «LARP da camera», eventi poco estesi nel tempo e nello spazio, con limitate scenografie e spesso studiati per poter essere rigiocati anche dagli stessi partecipanti, potrebbero essere considerati il manifesto di una concezione replicabile del LARP. Più che di sviluppo narrativo rigido qui si parla di rigidità della dimensione dell’azione: un LARP da camera offre alcuni blocchi concettuali di partenza e un numero X di permutazioni; in certi casi, le permutazioni sono così tante che lo spettro di narrazioni possibili si fa molto ampio. Con gli eventi «a sviluppo narrativo predefinito» (o railroaded) condividono comunque la maggiore omogeneità delle singole esperienze e la presenza di una forte istanza autoriale; in aggiunta, permettono di «fissare» il LARP (o quantomeno la sua base di partenza) in un testo scritto. Ragionando per analogie, un LARP di questo tipo si avvicina al classico «modulo avventura» di D&D: dotato di consistenza materiale, clonabile. Vero e proprio prodotto, appartenente tanto alla experience economy quanto alla più classica commodity economy.

Il saggio Leaving Mundania di Lizzie Stark, dedicato al mondo dei LARP

In generale, ciò che un LARP perde in flessibilità lo guadagna in nitidezza. E forse le «alte ambizioni», come può essere il trattare un tema storicamente controverso, richiederebbero sempre la presenza di una forte istanza autoriale – per scansare il rischio che la disomogeneità delle singole esperienze trasformi la complessità in farsa.

Ecco che allora si fa molto delicato il rapporto fra: ambizioni di un evento; intensità dell’istanza autoriale; contributo alla maturazione del medium. Un ideale cammino di crescita del LARP sembra aver bisogno di eventi più rigidi, o comunque caratterizzati dalla presenza di una certa agency autoriale. Non si può dire che i tentativi manchino, alcuni (soprattutto LARP da camera) con ambizioni analoghe a quelle della letteratura (Væsen Road, attualmente in corso di traduzione, è un larp da camera svedese che affronta il tema della pedofilia). In effetti la poliedricità delle «tecniche» usate a fini diegetici (tecniche cui, continuando nel parallelismo con la letteratura, potremmo idealmente far corrispondere le forme della scrittura) permette – al netto del minor realismo – di affrontare temi molto delicati senza scadere in estetiche grottesche o inadeguate.

Così, la natura contraddittoria del LARP ritorna: per coagularsi in una forma coerente, consapevole e riconosciuta, il LARP dovrebbe rinunciare a parte della propria stessa anima. Rinunciare cioè a quella sua natura elastica e poliedrica che nelle forme più spinte (è l’altro estremo della retta citata) vede l’assenza di una vera agency organizzativa, secondo principi di massima libertà creativa dei giocatori ma anche al costo della possibilità di inseguire ambizioni «alte».

Il punto di equilibrio sulla retta è il Santo Graal, inseguito non solo dal LARP ma da tutte quelle altre (sotto)culture dove la purezza si confonde con la paralisi, e l’imbastardimento con l’evoluzione. Una ricerca semieterna di fronte alla quale alcune culture hanno perso (tipo il rap italiano) e altre sembrano aver vinto (tipo i videogiochi, dove esempi come The Last of Us provano che il giusto equilibrio fra flessibilità dell’azione e rigidità narrativa porti all’eccellenza). Il LARP non sarà forse fratello del teatro, né nipote della letteratura, né (si spera) cugino del rap italiano. Ma se è parente, anche solo per ragioni semantiche, dei videogiochi, il futuro potrebbe poi non essere così gramo.