L’amazzone diatomea

Simpoiesi, giustizia multispecie, cyborgfare: una figurazione

Pubblichiamo un brano tratto da Per farla finita con la famiglia. Dall’aborto alle parentele postumane, recentemente pubblicato da Meltemi, che ringraziamo per la disponibilità, nella collana Culture Radicali.

Al posto della testa ho una nuvola blu

Che con il mio corpo non comunica più

E se penso troppo poi mi giudica stupida

Tutto torna in faccia come un boomerang, boom

E al posto degli occhi ho un planetario

Ma dentro nei polmoni brucia l’Amazzonia

Nina Zilli

Schiacciacuore

Proviamo a fare della giustizia multispecie con le mani immerse nella terra, i piedi nell’acqua e gli occhi al cielo. Immaginatevi in questa strana e scomoda posizione, immaginatevi con l’acqua di uno dei torrenti del Rio delle Amazzoni alle caviglie, piegate a metà con le mani nel terriccio umido che lambisce la riva del fiume e la testa girata all’insù, intente a guardare oltre le fronde della sua ricca vegetazione. In questa strana e scomoda posizione cominciate a inspirare ed espirare con la bocca, fate della condensa, se siete fortunate la vostra condensa volerà e salirà al cielo insieme a quella di Kapok, Epifite ed Ebani. Difficile però che vediate dove va a finire, gli alberi della foresta non ve lo permettono. E così, connesse in equilibrio precario col ciclo della vita, continuiamo a respirare a pieni polmoni e siamo grate a questo «polmone verde» che nonostante tutto continua a rigenerarci. Tuttavia c’è un motivo se non siamo comodamente sedute sulla riva a guardare le ninfee giganti. Abbiamo collegato il nostro corpo a terra, acqua e aria per materializzare il reticolo di forme di vita che connette l’Amazzonia al resto del pianeta. Nelle edulcorate o apocalittiche narrazioni occidentali, l’Amazzonia è alternativamente riserva inestimabile di biodiversità e patrimonio dell’umanità da salvaguardare. Ci piace raccontare che non bastano 300 anni a contare tutti suoi alberi, che alcuni tra loro superano gli 80 metri e sono i più alti del pianeta, che ci sono i piraña e le piante carnivore e che ops ops qualche volta brucia, ma che sarà mai. È il «polmone verde», la sua superficie corrisponde al 42% del pianeta e produce ossigeno per almeno 4 umanità, no? E poi ci consoliamo dicendoci che ancora produce ossigeno a sufficienza e che per contrastare la deforestazione basterà piantare altri alberi. Di certo gioirei se Bolsonaro si dimettesse e si procedesse alla riforestazione delle zone colpite dagli ultimi incendi, magari in stretto raccordo con la gente del luogo, ma temo non sia così facile poiché la deforestazione innesca siccità e dunque aridità dei suoli. 

Quando si dice Amazzonia non si dice solo «polmone verde», o meglio si dovrebbe dire «polmone verde/azzurro/bianco/sabbia». Non è l’Amazzonia in sé a produrre l’ossigeno che garantisce la vita sulla Terra. l’Amazzonia consuma tutto l’ossigeno che produce: letteralmente lo espira e inspira. È piuttosto il ruolo che l’Amazzonia gioca nel ciclo dell’ossigeno a garantire uno ogni due respiri umani. L’Amazzonia non è un sistema autopoietico, è un coloratissimo esempio di sistema simpoietico. I sistemi simpoietici, secondo la definizione proposta dalla biologa Beth Dempster, differiscono radicalmente da quelli autopoietici in quanto non hanno confini prestabiliti, sono organizzativamente aperti e collettivamente prodotti.

Gli scheletri di diatomee del deserto si spiegano solo in un modo: lì dove ora ci sono i deserti africani milioni di anni fa vi era il mare.

L’Amazzonia è un polmone azzurro: non solo per il Rio delle Amazzoni, che è il fiume più imponente sulla terraferma, non al mondo. Il fiume più imponente al mondo si libra nell’aria ogni giorno, è un fiume volante dieci volte più grande del Rio ed è prodotto dalla foresta amazzonica nel suo insieme. Le radici degli alberi risucchiano l’acqua dal terreno, l’acqua scorre nel corpo delle piante e dalle loro foglie evapora: evapotraspirazione. Per i soli alberi si è calcolato che ciascuno di loro può emettere mille litri di vapore acqueo, in totale si calcola che la foresta pluviale emetta al giorno almeno 20 miliardi di metri cubi (tonnellate) d’acqua.

L’Amazzonia è un polmone color sabbia: il terreno della foresta amazzonica è così fertile perché ogni anno viene rigenerato dalle tonnellate di sabbia che si spostano dai deserti africani. La sabbia della Dancalia, tra le zone più aride del pianeta, nutre con gli scheletri delle diatomee la foresta pluviale più ricca di possibilità di vita. Le diatomee, inizio e fine e dunque forse motore del ciclo, queste minuscolissime amazzoni che trasportano fosforo, azoto e potassio, arrivano morte stecchite sul suolo della foresta fluviale ma sanno che di questa loro morte la loro specie vivrà. Le diatomee vivono e muoiono con la Foresta Amazzonica e con la Dancalia, ma i loro scheletri devono percorrere ancora molti chilometri prima di ricongiungersi ai corpi delle loro sorelle vive. In questo ciclo, vive o morte che siano, le diatomee garantiscono la rigenerazione della vita sul pianeta, arrivando a produrre dal 20% all’85% dell’ossigeno.

L’Amazzonia è un polmone bianco: la ricca vegetazione amazzonica, rimpolpata dalle diatomee, drena acqua dal terreno, la lascia traspirare e così l’acqua diventa il fiume che galleggia nell’atmosfera terrestre sorvolando gli alberi, veloce, possente, se fosse sulla terraferma sarebbe più grande di qualsiasi fiume esistente. Il fiume volante si dirige verso la Cordigliera delle Ande, che lo costringe a svoltare verso Sud arrivando fino al Perù, dove si riversa sotto forma di pioggia sul terreno. Abbiamo osservato dallo Spazio il suo scorrere maestoso e il suo riversarsi imperterrito su terre che senza il suo passaggio sarebbero semidesertiche. Su queste terre il fiume volante si fa laghi, torrenti, la sua acqua dolce scorre ancora per km e km, accumula sedimenti e infine sfocia nell’Altlantico, si mescola all’acqua salata. Così l’acqua torna all’acqua e nutre le diatomee nell’Oceano, e il compost si rigenera. Gli scheletri di diatomee del deserto si spiegano solo in un modo: lì dove ora ci sono i deserti africani milioni di anni fa vi era il mare.

Dunque i colori si fondono, viene da dire che la Foresta Amazzonica è un polmone arcobaleno (o un oceano verde?) e che la diatomea è una amazzone, una piccola guerriera che lotta per la sopravvivenza del pianeta, in questa variopinta coalizione che vede al suo fianco radici di alberi millenari, venti, sole, oceani e catene montuose. L’Amazzonia è simpoiesi. Gli alberi delle foreste pluviali assorbono molta anidride carbonica, ma in questo compito, diventato sempre più arduo da quando i sapiens hanno aumentato in maniera esorbitante le emissioni, sono sostenuti da queste alghe unicellulari apparse nel Cretaceo, circa 145 milioni di anni or sono. Si contano quasi 70 mila specie di diatomee (fossili compresi), ma non sono poi tanto sicura sia utile classificarle per specie. Le diatomee sono simili alle piante, hanno la clorofilla e tutte le carte in regola per la fotosintesi, ma sono anche simili ad animali, o meglio queste alghette poliedriche sono compostiste: una potente combinazione di geni presenti in animali, piante e batteri. Abitano sia le acque dolci che quelle salate, ma ovunque preferiscono stare a galla, in cerca di sole, necessario per la fotosintesi. Si nutrono della silice presente nell’acqua così da divenire più pesanti e accelerare la loro discesa sui fondali, dove depositano carbonio. Con il riscaldamento globale però le acque diventano più acide e c’è meno silice: scarseggia il cibo per queste amazzoni in miniatura che diventano sempre più leggere delle loro compagne di 100 anni fa. Mi chiedo se alle balene e ai protozoi saranno comunque utili queste diatomee smagrite e un po’ indebolite. Perché le diatomee rigenerano noi producendo più di un quarto dell’ossigeno che respiriamo ma sono, come il resto del plancton, nutriente essenziale alla base della sopravvivenza di interi ecosistemi, marini, di acqua dolce, soprattutto terrestri. Le diatomee sono il fertilizzante della foresta amazzonica, con lei si fanno humus e compost, sono divinità ctonie per eccellenza. Morendo danno vita a uno spettacolo che i biologi chiamano «neve marina», a migliaia sprofondano lentamente dalla superficie sui fondali ma a differenza della neve non si sciolgono, rimangono lì, fin quando il fondale non diventa terra emersa, come la Dancalia, fin quando il vento non le porta via con sé, verso altre terre da fertilizzare.

Quanto lavoro rigenerativo per un organismo unicellulare che non supera i 200 millesimi di millimetro! Trovo nella diatomea quello che Karen Barad trova nell’ameba: «compagna eccezionale capace di cooperare attraverso distanze spaziali e temporali grandissime». L’amazzone diatomea è la figurazione delle parentele postumane, è con lei che voglio stare ed è con lei che voglio pensare. Non voglio stare con gli umani che tentano di monodirezionare, di incanalare la sua potenza rigenerativa, se penso con le diatomee capisco che le loro ceneri possono molto di più dei fertilizzanti impiegati nelle monoculture di soia transgenica destinate all’alimentazione di animali allevati al solo scopo di nutrire l’uomo. L’amazzone diatomea tiene dentro la sua vita e la sua morte migliaia di altre specie, mentre l’uomo tiene dentro la sua vita la morte di troppe altre specie. Mi spiego meglio. La desertificazione della foresta amazzonica ha una causa precisa: il neocolonialismo capitalista che con l’imposizione delle monoculture ha espropriato e ancora espropria Terra e popoli nativi al fine di rigenerare, di riprodurre una sola cosa: l’umano e il suo profitto. Sappiamo tutt* che i popoli nativi non beneficiano in alcun modo di incendi e deforestazione, sappiamo che la maggior parte dei prodotti delle monoculture è destinato a mercati esteri. Il dilagare degli incendi si spiega con la necessità di aumentare le superfici destinabili all’allevamento di bovini e/o i campi coltivabili a soia transgenica da rivendere alla Cina, diventato primo importatore con più del 50% dei suini destinati al mercato globale. 

Le amazzoni diatomee sono guerriere sagge che lottano contro una manica di scellerati affaristi

Ora è più chiaro contro chi lotta la nostra amazzone diatomea: lotta contro l’acidificazione degli oceani, contro le emissioni di CO2 prodotte proprio dagli allevamenti industriali che ogni giorno le sottraggono terreno&acqua in un circolo vizioso: basterebbe la deforestazione a far aumentare i livelli di CO2 nell’atmosfera e negli oceani, invece Bolsonaro e soci aggiungono guaio a guaio, imponendo il ciclo della carne che a sua volta aumenta le emissioni. Le amazzoni diatomee sono guerriere sagge che lottano contro una manica di scellerati affaristi, non credete che meritino il nostro aiuto? Beh, forse lottano anche contro di noi, nella misura in cui noi abitanti dei paesi ricchi – anche quando scegliamo consapevolmente un’alimentazione vegana e/o vegetariana – continuiamo a consumare in sistemi che si basano sull’iperproduttivismo e la grande distribuzione. Dunque la nostra prima mossa per imparentarci alle diatomee coincide con una sottrazione attiva: meno crescita, meno consumi, meno esigenze. 

Come Haraway, penso che «le persone nordamericane, europee e giapponesi, insieme ad altre, non possono guardare da lontano, come se non fossimo anche noi attrici/ori, volenti o nolenti, nelle lotte per la vita e la morte che si svolgono in Amazzonia». Da europea potrei sicuramente fare qualcosa contro l’intesa Ue-Mercosur del 2019, che abbatte i dazi favorendo l’importazione di carne e soia dal Brasile ottenute proprio dalle terre bruciate e sottratte ai popoli nativi: solo che non potrei farlo da sola. Il mio orizzonte è quello dei movimenti ecofemministi emergenti, è da questa collocazione che desidero una maggiore cooperazione che renda più incisive le nostre lotte. Non intendo relegare agli appelli degli «scienziati» l’opposizione a queste manovre economiche che sono vere e proprie scelte geopolitiche. Per intenderci: le parentele postumane non si reggono sulle deleghe, prendono corpo attraverso molti compostaggi. Imparentarci tra ebani, scienziat*, poet*, regist*, astronaut*, filosof*, diatomee, eco-attivist* e transfemmist* di ogni genere e luogo della Terra: questa potrebbe essere la seconda mossa. Ma le due mosse sono in realtà da intendersi come complementari: l’Amazzonia brucia troppo velocemente, occorre agire biopoliticamente. 

Per agire biopoliticamente intendo che occorre mettere la riproduzione dell’«umano razionale» (bios) in-agenda&in-discussione partendo in primis dalle nostre bio, dalle esperienze convissute radicate nella carne e nella materia. Andando alla radice materiale e corporea delle nostre bio scopriremo che sono composte di humus e non umano, che sono da sempre zoe e cyborg, vita non umana animale e macchinica, imprevedibile e incontrollabile ma non per questo meno razionale. Riconoscere la molteplicità che siamo, la relazionalità che ci informa potrebbe condurci a riconoscere l’esistenza di razionalità non umane. Questo significa riconoscere l’agentività simpoietica dell’Amazzonia: il cervello del maschio bianco occidentale non è la sede unica del sapere universale, quella dei sapiens non è l’unica specie orientata a vivere bene e più a lungo. Diatomee, deserti, catene montuose e oceani prendono le loro decisioni circa la vita e la morte comuni in modi che noi ci affanniamo a studiare con molta dedizione ma non a salvaguardare con altrettanta passione. 

Per riconoscerci parte di zoe non basterà boicottare le multinazionali, sappiamo che l’unica scelta coerente e sostenibile è quella di eliminare gli allevamenti industriali e le monoculture, di rigenerare le terre che hanno devastato. La decrescita ri/produttiva implica una revisione radicale delle nostre vite, il mondo è troppo inguaiato perché la soluzione sia rapida&indolore.

Nel suo saggio per il volume collettivo Making Kin not Population, Haraway suggerisce una proposta pragmatica, che io leggo come completamento del secondo punto dell’agenda etico-politica per la decrescita ri/produttiva: generate parentele per la rigenerazione del pianeta! Non volendo negare il desiderio di genitorialità di nessun*, ma insistendo sul dato ormai ovvio che le persone che abitano in paesi ricchi sono collegate a doppia mandata alla scomparsa di troppe altre forme di vita, propone di redistribuire la cura e allargare le parentele umane oltre i confini del «sangue». La sua fervida immaginazione la porta a ipotizzare una modalità un po’ bizzarra ma molto convincente, soprattutto perché in grado di fare della «giustizia riproduttiva multispecie» ma anche antirazzista, anticlassista e femminista. Ipotizziamo che al mondo ogni persona ha «diritto» a un «gettone riproduttivo», ma che una persona che abita in un paese ricco e con un sistema produttivo insostenibile per riprodursi non può «giocarsi singolarmente» il gettone: per farlo deve ottenere altri dieci gettoni da dieci persone che, scegliendo di darlo a lei, non potranno utilizzarlo per loro. La persona nata da questi undici gettoni avrà a disposizione undici bioparents. Per chi vive in aree povere ma soprattutto per chi abita comunità umane a basso impatto ambientale, Haraway prevede anche solo 3-4 gettoni, dunque 3-4 biogenitori. Per le persone che vivono in paesi colpiti da genocidi e/o guerre, Haraway non prevede alcun massimale. E la sua è così poco una mera provocazione e così tanto un serio programma politico che prevede anche delle sanzioni per chi provi a vendere e comprare un gettone riproduttivo. Aggiungo a quanto detto da Haraway che la redistribuzione di genitorialità e cura deve tener conto dell’esclusione storica delle soggettività non eteronormate. Le nuove tecnologie riproduttive potrebbero giocare un ruolo chiave e andrebbe sicuramente prevista una sorta di «precedenza» per lesbiche, persone trans, gay e per le s/famiglie che sapranno formare: in questo quadro queer fivet, surrogacy e ectogenesi non guastano affatto, anzi sono le benvenute, sono il cyborgfare eco/trans/femminista che desideriamo, sono servizi e strumenti a disposizione dell’autodeterminazione riproduttiva collettiva e non eteronormata.

Perché Haraway ha assunto una posizione così scomoda? Scomoda tanto quanto la posizione da cui siamo partite: i piedi nell’acqua, le mani nella terra e la testa al cielo. E perché sto provando anche io a eseguire questa torsione? Perché quando accusiamo capitalismo e neoimperialismo non stiamo accusando qualcosa di «altro da noi»: «incolpare il capitalismo, l’imperialismo, la modernizzazione, il neoliberismo, o chiunque sia ma non noi, della distruzione in corso connessa all’aumento del numero di umani, non risolverà il problema». Le diatomee si assottigliano mentre gli umani più poveri delle zone ricche del pianeta ingrassano a forza di cibo spazzatura, perché è l’unico a cui riescono ad accedere, cibo spazzatura la cui produzione è altamente inquinante. Che cortocircuito è? Non possiamo interromperlo? Se il biopotere siamo noi, smettiamo di riprodurlo, interrompiamo la riproduzione del bios a favore della rigenerazione di zoe. Abbiamo ragioni per credere che le diatomee ci saranno complici in questo processo. E certo che sento già le obiezioni, sono le stesse che rimbalzano tra social e media in questi giorni di Sars Wars Cov2, sono le stesse cui rispondevano già Deleuze e Guattari: non siamo erba, è un pezzo che abbiamo perduto la sintesi clorofilliana, bisogna pur mangiare. Non inventerò un’altra risposta, per me è ancora validissima la loro: la decrescita ri/produttiva non è mancanza ma pienezza di vita. E a chi obietta «la decrescita richiede troppe rinunce, troppi sacrifici» rispondo con D&G: «questa frase non sono i poveri o i defraudati a pronunciarla. Loro, al contrario, sanno che i desideri sono vicini all’erba, e che il desiderio ha bisogno di poche cose, non le cose che si lasciano loro ma le cose di cui non si cessa di spossessarli».

dobbiamo mettere in discussione il sistema che dal lavoro a casa ci fa passare da Tigotà alla ricerca di profumi solo lontanamente capaci di mimare quello da cui ci siamo separate.

I bisogni di Deleuze e Guattari sono le esigenze che Haraway ci invita a ridurre. La mancanza non esiste, come non esiste all’orizzonte alcun pericolo di estinzione umana: «questa pratica del vuoto come economia di mercato è l’arte di una classe dominante, l’arte di organizzare la mancanza nell’abbondanza di produzione». Non lasciamo che i desideri si spostino sulla «grande paura di mancare», che cosa abbiamo da perdere, l’all you can eat del ristorante argentino e i grattacieli dell’Isola a Milano, le polveri sottili? Ci indebitiamo per accedere a risorse e mezzi che dovrebbero essere gratuiti perché sono alla base della nostra sopravvivenza&salute e nel frattempo riproduciamo un sistema da cui non traiamo alcun beneficio, ma solo a tratti un effimero senso di soddisfazione legato all’illusione di accedere a frammenti di «benessere».

Posso fare questo esperimento su me stessa, passando al vaglio della critica le mie passioni, le mie abitudini, la vita che sto conducendo. Non voglio rappresentare le diatomee, voglio pensare con loro. Voglio pensare al loro essere lavoratrici non umane ma rigenerative dell’umano, sfruttate ed esposte a rischi di vita e salute, in relazione al mio essere precaria umana ed europea senza diritto alla malattia ma – cosa curiosa vero? – con diritto alla maternità. Se mi ammalo per più di 30 giorni il mio contratto non prevede che io riceva stipendio, neppure decurtato, bensì la sospensione dell’assegno fino alla fine della malattia. Quando guarisco il mio assegno riprende ma nel frattempo mi sono indebitata, devo cercarmi lavori extra, auto-sfruttarmi per rimettermi in pari. In questo loop altaleno fortune e incertezze, me la cavo mantenendo un medio livello di vita garantito solo dal corpo su cui posso ancora contare, corpo a cui ordino ogni giorno di essere abbastanza performante e produttivo perché se no come altro potrei sopravvivere? Come diceva Foucault: «Il lavoro non è l’essenza dell’uomo. Se l’uomo lavora, se il corpo umano è una forza produttiva, è perché l’uomo è obbligato a lavorare. Ed è obbligato perché è investito da forze politiche, è preso all’interno di meccanismi di potere». 

E io ho letto Foucault ma ricordo che alla fine di molte giornate di lavoro mi è sembrato normale comprare un veggie-burger al supermercato (veg-junk food for fake middle class women) o passare da Tigotà, perché odio i profumi ma ho un debole per l’olio di mandorle. Mi devo sentire in colpa? Ci dobbiamo auto-accusare per ogni gesto di auto-compensazione? No: dobbiamo mettere in discussione il sistema che dal lavoro a casa ci fa passare da Tigotà alla ricerca di profumi solo lontanamente capaci di mimare quello da cui ci siamo separate. Non so voi, ma io mi sento parte di una fake middle class troppo urbanizzata e dimentica del fatto che il suo accesso alla ricchezza è sempre precario e parziale, sempre dipendente dalle sue stesse capacità di auto-sfruttamento, ma in ogni caso non autonomo, sempre dipendente al contempo dall’espropriazione delle risorse dell’alterità (umana e non). Mi sento spesso povera e al contempo lontana, troppo lontana dall’erba. 

Che razza di cortocircuito è? È perché se mi ammalo sono solo fatti miei ma la maternità me la danno? Che cosa dovrei dedurne se non che un corpo malato è improduttivo, dunque abbandonabile, e un corpo gravido è produttivo dunque recuperabile? E poi metti caso sto figli* lo facessi, cosa ci aspetterebbe dopo se non il loop altalenante tra fortune e incertezze, ancora altro lavoro e sempre ancora altri debiti? 

No grazie, non ci penso minimamente, non solo perché non ho alcuna voglia di sperimentare la maternità biologica e la conseguente immissione nei circuiti del debito che comporta per una che come me appartiene alla fake middle class, ma soprattutto perché non riesco a smettere di pensare alle diatomee. Non riesco a smettere di pensare alla simpoiesi, a quel complesso olobioma che non so come chiamare che deserto del Dancali, Amazzonia, Oceano e Diatomee compostano insieme. Olobioma Amazzone Diatomea, potrebbe andare? Margulis avrebbe parlato di «intimità tra sconosciuti» per spiegare questa bizzarra conversazione areo/fluido/spaziale che intercorre tra una sponda e l’altra dell’Atlantico, ma ha ragione Haraway a voler superare i limiti dell’autopoiesi.

La morte delle persone amate, la propria morte, è il farsi compost terrestre de* mortal*, non una violazione di una qualche rigida religione monoteista ispirata dal diritto alla trascendenza e all’immortalità.

L’autopoiesi rimane ancorata a limiti spazio-temporali, ci serve la simpoiesi per comprendere l’imprevedibile con-divenire di forme di vita tanto diverse e distanti. E ci servirebbe agire simpoieticamente per lottare accanto alle amazzoni diatomee. Abbiamo tanto da imparare da loro e se potessi rinascere come Bambina del Compost, o modificarmi in vita geneticamente, ad esempio ricorrendo alla tecnica CRISPR, vorrei avere un corpo in grado di produrre silice, un metabolismo basato sulla fotosintesi. Migrerei laddove le diatomee hanno poca silice a disposizione e partorirei piccoli ovuli di silice a ogni bagno. Non sarebbe un sacrificio ma un compostaggio alla pari. È un desiderio troppo cyborg/eco/queer perché sia degno di attenzione, perché sia considerato serio da quante/i tengono in altissima considerazione il desiderio di genitorialità umana? 

Eppure è il desiderio ad avermi mossa verso le diatomee, e quando ho cominciato ad ascoltare le loro bizzarre conversazioni — oltre a perdermi in un perverso e piacevole gioco di traduzioni tra diverse lingue umane e non e tra diverse scienze umane e non — mi sono messa a prendere appunti: la biologia delle diatomee è etica compostista e postumanista, è una pragmatica politica per le specie compagne. Le diatomee non sono amazzoni che vogliono vincere la guerra da sole, sono guerriere per la sopravvivenza comune, che non sopravvivono a scapito di altr*, ma vivono e muoiono con loro. Potrebbero anche prosperare insieme a migliaia di altre specie, eppure sono minacciate da una sola specie sul Pianeta. Siamo davvero poco bravi con la simpoiesi tanto quanto siamo arroganti. Conosciamo solo il 5 per cento dei nostri mari, il restante 95% ci è sconosciuto ma pensiamo di poter predire il comportamento delle diatomee su scala globale per capire come «convivere con il guaio». No, io non traduco Staying with the Trouble con Sopravvivere su un pianeta infetto, ma neppure con «restare a contatto con il problema». Qui i problemi li vogliamo risolvere. La traduzione concettualmente, dunque politicamente, valida per me è solo «Sopravvivere tra i guai. Generare parentele nello Chthulucene». Così quello di Haraway diventa un titolo guida, un avvertimento costante: la generazione di parentele è ciò che occorre per sopravvivere tra i guai. Non si sopravvive se non con, insieme. Il titolo scelto per la traduzione italiana di Staying with the Trouble è evocativo ai tempi della pandemia globale, ma temo che nel gioco del tradurre/tradire si sia messa in secondo piano l’etica politica compostita e simpoietica di Haraway, quella che sempre insiste sulla necessità di sopravvivere insieme, di vivere e morire con. E proprio oggi le riflessioni di Haraway sul vivere e morire con potrebbero essere lenitive, oltre che innescare processi di liberazione umana e riparazione dei guai che abbiamo fatto al non-umano. Oggi che facciamo i conti con la morte dell’umano – mediaticamente, politicamente, personalmente, medicalmente – oggi che è quarantena quasi per tutt* ma nonostante la pandemia la produzione non si ferma, oggi che si è ammalata una persona che amiamo, oggi le parole di Haraway mi ricordano che: 

La morte delle persone amate, la propria morte, è il farsi compost terrestre de* mortal*, non una violazione di una qualche rigida religione monoteista ispirata dal diritto alla trascendenza e all’immortalità. Dolore e perdita sono intrinseche al vivere e al morire bene insieme, come esserini tentacolari aggrovigliati in una ricca terra.    

Haraway non cita Spinoza, ma la mente corre lo stesso alla sua Etica. Occorrono nuove lenti e per fabbricarle abbiamo bisogno di ottici artigiani come Spinoza, la cui geometria filosofica informa le ricerche etiche postumaniste e compostiste femministe. Rileggere Spinoza è cruciale se desideriamo liberarci dai dualismi oppositivi della morale moderna occidentale (la religione monoteista ispirata dal diritto alla trascendenza) ed elaborare una pragmatica dell’alterità, l’arte quotidiana della sopravvivenza gioiosa in un mondo popolato da miliardi di creature non solo umane. L’etica meno antropocentrica mai custodita da uno scrittoio in occidente, l’Ethica more geometrico demonstrata: ogni cartografia compostista deve passare se non partire da qui, perché è qui che l’eretico spiega che la soggettività è sempre aperta e in relazione con l’alterità, che il nostro desiderio si concretizza nel desiderio di una vita non atomizzata ma comune. Indossate le lenti spinoziane leggiamo Haraway: l’estinzione non è una minaccia, è il presente di troppe forme di vita. 

L’etica postumanista non è relativista bensì transpecie, nomade e pluricollocata, non fa dell’Uomo il cardine attorno cui ruotano natura e macchina, dismette ogni gnoseologia universalizzante per adottare la metodologia dei saperi situati e radicarsi nei corpi portatori di differenti istanze, non è apolitica né apocalittica, è resistenza e prassi di liberazione e trasformazione. Spinoza non invita mai ad astenersi dall’impegno politico, spiega che più conosciamo le nostre e le altrui passioni, più viviamo bene con la collettività. L’etica postumanista è compostista nella misura in cui insiste sugli esperimenti di con-divenire, suo strumento è la cartografia delle mappe di affetti che esprimiamo/esperiamo. L’etica postumanista è un tentativo di rispondere all’interrogativo: cosa possono i nostri corpi, tecno-mostri pur sempre ascrivibili alla specie umana, per non rappresentare/espropriare l’alterità, per riconoscerla senza fagocitarla/marginalizzarla?

L’immaginazione è una prima risposta. Nell’introduzione a Le promesse dei mostri ho provato a immaginare, seguendo Haraway e riscrivendo Asimov, a rivoltare le Tre Leggi della Robotica. Chiamiamole le Leggi di Terrapolis, anche se mancano per scelta dello strumento della sanzione e non sono indicizzabili in base ai «criteri differenziali del diritto»: universalità, generalità e blablabla. Non parlo la lingua del diritto né della sua ragione. Nella mia genealogia filosofica passione e ragione stanno insieme e dalla mia particolare incarnazione – corpo di donna ascritto alternativamente dalla biologia e dalla storia economico-politica alla riproduzione e per questo escluso dalla ragione – rifiuto di essere ridotta alla sola emozione, preferisco l’intelligenza emotiva. Rivendico accesso e gestione di ragione e scienza perché voglio cambiarle, non subirle, immettendovi vagonate di passione. Per questo penso che queste leggi altro non siano che il ritornello di una pragmatica compostista da ragionare insieme, perché «Terrapolis […] è uno spazio di contatto e contagio, aperto e rischioso ma anche promettente» (Federica Timeto 2020). Terrapolis non è il regno di quel relativismo che si accompagna al suprematismo e all’eccezionalismo umano, è interregno del compostismo, dove si tratterà di mettersi d’accordo, di com/pensare, nel duplice senso di pensare con e di rimediare. Per cominciare a com/pensare riparto dalla Legge/ritornello Zero:

Le/gli umane/i devono lottare per la sopravvivenza dell’intera Terra, perché è in essa che sono radicate/i, assieme a tutte le forme di vita organiche, artificiali, più o meno o non-umane, cyborg, creature altre, mostruose e inappropriate/ibili. 

Angela Balzano  è ricercatrice precaria eco/cyborg/femminista, coordinatrice e docente del modulo Scienze del Master in Studi e politiche di genere dell’Università degli Studi Roma Tre. Attualmente è docente a contratto presso l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna e tutor in Women and Law per il Master GEMMA. Ha curato le traduzioni: Il postumano (2014) e Materialismo radicale (2019) di Rosi Braidotti; Biolavoro globale (2015) di Melinda Cooper e Catherine Waldby; Le promesse dei mostri (2019) di Donna Haraway. Con Carlo Flamigni ha scritto Sessualità e riproduzione (2015).