La vendetta di Turandot

Melodramma all’italiana meets Cyber Matriarcato Globale. Conversazione con Fabio Cherstich, che al Teatro Massimo di Palermo ha rivisitato il classico di Puccini assieme al collettivo russo AES+F

In the past, when Beijing was conquered…
Many women, including the Empress, were raped
In 2070, Beijing is the capital of the Global Empire,
where Princess Turandot established a radical,
techno-feminist matriarchy…

Fabio Cherstich e AES+F, Turandot

Siamo nel 2070 a Beijing, una enorme tecnometropoli dal ritmo frenetico, capitale di un impero globale e multietnico dove vivono essere umani, androidi e robot. Gli edifici della città si muovono, hanno colori sgargianti e forme avveniristiche e vengono sorvolati da navicelle. La principessa Turandot, a capo di questo impero, vive in un palazzo reale volante a forma di drago. Il ventre di questo drago si apre lasciando cadere teste mozzate di uomini poggiate su enormi petali che volteggiano verso la città…

Turandot è a capo di una società tecnofemminista radicale che ha sottomesso gli uomini dopo tutte le violenze e i soprusi che le donne hanno subito in passato. Un flashback visualizza questo passato, che coincide con la nostra contemporaneità: un gruppo di donne subisce violenze e posizioni di forza da parte di uomini in una composizione video a sfondo rosso. Nel presente della storia la violenza è ritualizzata, e gli uomini vengono torturati da robot con sembianze femminili. La società è abituata a questa violenza e assoggettata da Turandot, che si serve di immagini video, schermi e proiezioni digitali per incantare i suoi sudditi. Molteplici alter ego digitali utilizzati dalla principessa per manifestarsi, confondono e turbano la massa, allucinata e stordita. La tecnologia è uno strumento di potere nelle sue mani. Bellezza e violenza, follia e allucinazione collettiva si mescolano insieme in una tensione continua.

Il trailer della Turandot portata al Teatro Massimo di Palermo da Fabio Cherstich e AES+F

Non è un sogno o un romanzo di fantascienza, ma la visione ideata dal regista Fabio Cherstich in collaborazione con il collettivo russo AES+F (composto da Tatiana Arzamasova, Lev Evzovich, Evgeny Svyatsky e Vladimir Fridkes) per la messa in scena dell’opera di Giacomo Puccini che ha debuttato il 19 Gennaio al Teatro Massimo di Palermo. Gli AES+F firmano i video, le scenografie e i costumi di questa favola antica e violenta, il cui libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni e musicato da Giacomo Puccini tra 1920 e 1924 prende le mosse da un favola di Carlo Gozzi.

Lo spettacolo mina il rapporto con la tradizione calando questa storia in maniera prepotente nel dibattito contemporaneo. Turandot non si piega ai dettami della società: impone ai suoi pretendenti tre enigmi insoluti, e chi non supera la prova viene decapitato. È spietata, gelida e violenta, e si erge a simbolo della lotta tra i sessi, capace di imporsi nella società machista e di ribaltarne completamente il rapporto dialettico. I contenuti del libretto originale e le atmosfere musicali di Puccini vengono amplificati dall’ambientazione e da una visione fortemente estetizzante che valorizza l’immagine e la sua versione spettacolare. Tutto questo al teatro dell’opera di Palermo: un’operazione che richiede una certa dose di follia e coraggio, ma che inserisce l’opera nel dibattito contemporaneo. Di questo ho parlato col regista Fabio Cherstich.

Turandot è un’opera incompiuta — Giacomo Puccini è morto mentre la stava finendo — e dai tratti fiabeschi; tu perchè hai scelto questo titolo?
Turandot l’ha scelta Oscar Pizzo (ex direttore artistico del teatro Massimo), perché gli avevo detto che volevo lavorare con AES+F, incontrando subito il suo totale consenso ed entusiasmo. Avevo visto Last Riot, una loro installazione video, alla Biennale d’Arte di Venezia nel 2007 e mi ero innamorato del loro lavoro. Il catalogo del padiglione russo di quell’edizione è finito con un post-it sulla pagina di AES+F nella mia libreria dei progetti futuri. Quando Oscar è diventato direttore artistico del Teatro Massimo di Palermo e mi ha chiesto cosa avrei voluto fare, gli ho risposto un’opera su un camion e uno spettacolo con gli AES+F. All’inizio gli avevo proposto di fare un titolo del barocco francese, o comunque di quel periodo, sicuramente non un’opera contemporanea. Trovo che il loro linguaggio si sposi perfettamente e crei un cortocircuito interessante con la musica non contemporanea.

Il linguaggio degli AES+F è di forte impatto visivo, le scene dei loro video sono ricche di personaggi e di dettagli: uomini, donne, androgini, figure antropomorfe, animali fantastici… Il tutto ambientato in paesaggi paradisiaci caratterizzati da un’atmosfera sospesa ed estetizzante. Vi sono numerose allegorie visive e riferimenti alla tradizione figurativa e iconografica.
Sì, in particolar modo italiana ed europea. Sono grandi collezionisti di immagini e creatori di mondi. Hanno un marcato aspetto mitopoietico, il loro lavoro è un lavoro fortemente narrativo. Nel caso di Turandot questa narrazione non è detto che debba pedissequamente seguire il libretto. Alle volte le immagini scorrono come se germogliassero dalla musica ancor più che dalle parole.

Dunque vi è un rapporto sinestetico tra immagini e musica?
Sì, alle volte sì.

L’ambientazione in un futuro distopico —in cui trionfa una dittatura spettacolare delle immagini e dove la società è una «massa» stordita e allucinata che si nutre di simboli, falsi e ingannevoli — non sembra lasciare spazio alla speranza o alla redenzione…
La speranza preferisco lasciarla agli stronzi! Diciamo che tra fake news e vendita di dati alle multinazionali e ai governi, stiamo entrando in un nuovo totalitarismo. In questo totalitarismo il potere è internet. Nello spettacolo c’è molta insistenza sulle fake news: Turandot appare su schermi con diversi alter-ego, ingannevoli e fuorvianti. A volte è un bambolotto, altre volte una donna-pianta. Il cyber-matriarcato che regge il governo di Turandot che ha spodestato il potere dell’imperatore — un uomo vecchio e relegato a un polmone artificiale — si basa sulle immagini come strumento nelle sue mani. Qui dentro c’è tutto quello che sarà, su questo io non ho dubbi.

L’assoggettazione si veicola tramite la tecnologia, che diventa semplicemente uno strumento nella mani del potere.
Da un lato certamente sì; dall’altro, la cosa interessante per me è che in qualche modo l’algoritmo che calcola e orienta è davvero il vero potere. Un potere completamente astratto, ma al contempo concreto perché è il potere della macchina. Indipendentemente dal fatto che finisca nelle mani dei potenti o no, è questa la cosa che mi spaventa.

Dunque la macchina vive di vita propria.
Assolutamente sì. Il problema infatti non è la macchina che va verso l’uomo, ma l’uomo che va verso la macchina; diventeremo macchina, questo a me interessa.

Turandot è una femminista ante-litteram, una donna-simbolo forte, indipendente che non vuole piegarsi ai dettami della società. In questo caso si spinge oltre e riesce a ribaltare la situazione: stabilisce un matriarcato violento che grida vendetta per i soprusi ricevuti in passato.
Ambientare la storia nel futuro ha fatto sì che il passato della storia diventasse il nostro presente. Turandot porta una ferita: un sua ava è stata violentata da un principe straniero e invasore. In un flashback in video, si vedono queste donne che subiscono delle posizioni di forza da parte di alcuni uomini, che è esattamente l’opposto di quel che accade nell’impero di Turandot: robot con sembianze femminili che torturano gli uomini.

Pechino è una città tecnologica dalle architetture biomorfiche, dove un paesaggio dai tratti organici e naturali viene ricreato con la massima artificialità.
Sembra un paesaggio sottomarino, i colori sono quelli delle porcellane tradizionali cinesi. È un’architettura viva, sembra che i palazzi respirino. Andiamo sempre più in questa direzione di finta vita o di nuova vita degli oggetti che, tra l’altro, è una cosa che caratterizza il linguaggio di AES+F.

Frequento spesso il loggione della Scala di Milano che è famoso per essere uno dei più caldi e irriverenti; in generale il pubblico dell’opera si fa sentire quando qualcosa non è di loro gradimento fischiando o lanciando cose… A Palermo?
È comunque un pubblico caldo. Ero consapevole dall’inizio del rischio di una chiave di lettura così radicale e dell’uso di un linguaggio contemporaneo, ma se il mio problema fosse il pubblico farei un altro lavoro. In ogni caso quando i registi parlano del pubblico mi fa sempre ridere, perchè vorrei sapere chi dei registi frequenta il pubblico che va a teatro. Quando faccio gli spettacoli in piazza sono lì, parlo con le persone eccetera… Ma a teatro? Chi è questo «pubblico»? Chi è quest’Io collettivo di cui tutti parlano? Io non lo conosco sinceramente. Non mi pongo il problema di piacere al pubblico, mi pongo il problema di capire che azione faccio nei confronti del pubblico.

E quale azione fai nei confronti del pubblico?
Chiedo a loro di leggere insieme a me questa storia in un nuova forma.

Riceveranno, saranno scossi o rifiuteranno?
Tutte e tre queste cose insieme.

Nel caso di Opera Camion hai portato fisicamente l’opera lirica fuori dall’edificio teatro; con Turandot porti l’opera fuori dai binari tradizionali e già segnati; vi è una chiara continuità.
Sì l’obiettivo è che all’opera arrivi forse qualcosa che sia un po’ meno stantio. Con il progetto di Opera Camion l’idea era quella di portare l’opera per strada, raggiungendo un nuovo potenziale pubblico per il teatro musicale. Mi piace l’idea di mettere in scena l’opera in luoghi non convenzionali: come gli hangar, alla Bovisa di Milano per esempio, o nelle periferie delle città.

Nessun dorma!

Foto di scena di Roselina Garbo e Franco Lamino e AES+F.