Jon Rafman, Still Life (Betamale)

La tragedia del crowdfunding

Stagisti che si trasformano in media company e campagne online per pagarsi le cure mediche: quando l’imprenditorialità «creativa» diventa un obbligo

«A che serve il crowdfunding?» «A finanziare collettivamente prodotti e servizi innovativi, album, documentari, libri, videogiochi, fumetti, ecc.», direte voi. In altre parole, se fate parte di quella minoranza che conosce il termine (il 61% degli statunitensi non ne ha mai sentito parlare) sarete probabilmente inclini ad associare il crowdfunding all’attività delle startup tecnologiche e delle cosiddette industrie creative. Ipotesi in parte confermata dai dati disponibili sulle campagne di crowdfunding che hanno ottenuto più fondi in assoluto. Escludendo una serie di campagne lanciate indipendentemente o tramite Ethereum (si tratta perlopiù di criptovalute) che si collocano nella top ten, la maggior parte dei restanti progetti è stata finanziata tramite piattaforme come Kickstarter o Indiegogo, entrambe dedicate principalmente a imprese creative o innovative.

Naturalmente importanti somme di denaro attraggono una comparabile dose di attenzione da parte dei media, creando così un circolo vizioso tra il successo finanziario e l’aggregazione di un grande pubblico su testate particolarmente seguite. È il caso di Pebble, un’idea di smartwatch che ha raccolto più di 40 milioni di dollari durante tre diversi Kickstarter. L’enorme successo in termini di crowdfunding non ha impedito alla società di chiudere i battenti dopo quattro anni di attività.

Un altro motivo per cui il crowdfunding è generalmente associato al mondo della creatività e dell’innovazione ha a che fare con le sue origini. La raccolta diretta di contributi monetari offerti dagli utenti di internet è emersa in primo luogo come mezzo per finanziare progetti artistici. Tra questi c’è il tour americano del gruppo rock britannico Marillion, reso possibile nel 1997 dalle donazioni online dei loro fan per un totale di sessantamila dollari. Questo caso pionieristico, in cui la raccolta online di fondi non era ancora un processo standardizzato, ci ricorda che il crowdfunding stesso è un’idea imprenditoriale realizzata per la prima volta nel contesto delle arti. Grazie al crowdfunding, parte dello scambio informale che avviene con il pubblico è stato convertito in un modello di business. Oggi, a distanza di vent’anni, lo sviluppo e la cura di una community sono considerati aspetti fondamentali del fare crowdfunding.

Nel crowdfunding non esiste un confine netto tra ciò che è «creativo» e ciò che è «imprenditoriale».

L’impeto manageriale di questi musicisti aggiunge un nuovo livello di significato al concetto di «distruzione creativa» formulato dall’economista viennese Joseph Schumpeter, secondo cui una nuova merce, tecnologia, tipo di organizzazione, ecc. erode strutture economiche preesistenti  e ne crea di nuove. Poiché la relazione con i fan fa parte della pratica di un artista, il suo utilizzo per raccogliere donazioni è un’invenzione economica caratterizzata da una fondamentale componente artistica e creativa. Il crowdfunding nasce come un’idea che creativamente deteriora il ruolo di una serie di intermediari  e si evolve come espressione di imprenditorialità creativa, dove non esiste un confine netto tra ciò che è «creativo» e ciò che è «imprenditoriale». Nello specifico la creatività risponde alle esigenze dell’imprenditorialità e viceversa. I Marillion la mettono in questi termini:

«Così abbiamo licenziato il manager. Abbiamo inviato un’email ai 6000 fan del nostro database chiedendo a ognuno di loro: «Vuoi acquistare l’album in anticipo?» La maggior parte ha risposto «sì». […] Questo è stato il modello di crowdfunding che è stato imitato con parecchio successo da molti altri, tra cui l’esempio più riuscito di tutti, Kickstarter.»

Sorprendentemente, nonostante l’eredità artistica del crowdfunding e la ricorrente copertura mediatica di campagne innovative, la destinazione primaria delle donazioni online non riguarda né la tecnologia né le opere d’arte, bensì i bisogni personali. A fronte del 68% di donatori che negli Stati Uniti hanno contribuito a campagne lanciate per aiutare una persona in difficoltà, solo il 34% ha finanziato un nuovo prodotto e ancor meno (il 30%) ha deciso di sostenere musicisti e altre tipologie di artisti. Inoltre GoFundMe, una piattaforma incentrata sulle campagne sociali e personali, ha superato nel 2016 la soglia dei 3 miliardi di dollari raccolti, mentre Kickstarter ha raggiunto tale obiettivo solo un anno dopo. GoFundMe non è d’altronde l’unica piattaforma dedicata principalmente al crowdfunding personale: tra le altre si contano YouCaring, GiveForward e persino Indiegogo ha una propria piattaforma di crowdfunding parallela chiamata Generosity.

In che modo il core business di queste piattaforme le differenzia da Kickstarter o la stessa IndieGogo? Incarnano forse una logica di raccolta fondi differente da quella dei siti di crowdfunding incentrati sull’arte e sull’inventiva? In altre parole, esiste una differenza sostanziale tra il chiedere soldi per un’emergenza medica e fare lo stesso per un gadget tecnologico? Per rispondere a queste domande mi vorrei soffermare su una serie di campagne che rivelano il modo in cui il crowdfunding personale incoraggia e in qualche misura esige esso stesso una buona dose di imprenditorialità creativa. La ragione per cui sono particolarmente interessato alle campagne lanciate da questi «imprenditori di se stessi» è che, pur subendo le dinamiche strutturali del crowdfunding, tentano in un modo o nell’altro di espanderne la portata.

Lo stagista non pagato come media company

Oggigiorno lo stage rappresenta spesso uno dei pochi percorsi praticabili per avviare una carriera nei settori professionali più disparati. Lo stage, originariamente concepito come un’esperienza di apprendimento, è dunque ridefinito come opportunità per trovare finalmente un impiego. A causa della domanda crescente, aziende e istituzioni – tra cui persino quelle ben rodate – possono agevolmente offrire stage pagati poco o non pagati affatto. In altre parole, lo stage diventa un investimento necessario per affacciarsi sul mercato del lavoro. Non è difficile rendersi conto del fatto che questi tirocini mal pagati o non pagati contribuiscono ad aggravare un vantaggio di classe, in quanto solo gli individui dotati di sufficiente stamina finanziaria si possono permettere questo punto di accesso alla vita professionale.

Campagne per finanziare stage non pagati su GoFundMe

E tutti gli altri? A loro tocca trovare delle soluzioni creative. Il crowdfunding è una di queste. Fino a qualche tempo fa, la chiave di ricerca «stage non retribuito» produceva su GoFundMe circa cinquecento risultati, mentre le campagne relative agli stage in generale erano più di diecimila. Queste campagne presentano giovani laureati sorridenti che raccontano appassionatamente i propri interessi e risultati accademici, spiegando al tempo stesso di quanto denaro hanno bisogno e perché. Queste descrizioni, che oscillano tra pitch molto elaborati e blurb estremamente concisi, formano un genere letterario meticcio in cui si incrociano diario, curriculum vitae e business plan. Questa nuova letteratura ha già i suoi manuali, come ad esempio una guida per far sì che le campagne dedicate alle rette scolastiche portino i giusti frutti.

Still tratto dal video prodotto da Clement Nocos per promuovere la sua campagna

A proposito di stage e crowdfunding, la vicenda di Clement Nocos risulta al tempo stesso esemplare ed eccezionale. Nel 2016, Nocos, attivista canadese provvisto di un doppio master in scienze politiche, è stato scelto per un prestigioso tirocinio presso le Nazioni Unite, un’opportunità «che capita una volta sola» come afferma lo stesso Nocos con un sottile velo di ironia. C’era solo un inconveniente: lo stage era gratuito. Un problema decisivo dato l’esorbitante costo della vita in una città come New York.

Per la sua campagna Nocos ha scelto Generosity, la piattaforma di IndieGogo dedicata alla «bontà umana», poiché non prevede scadenze, permette di offrire delle ricompense e sborsa i fondi a cadenza regolare. Per attrarre il pubblico ha prodotto un videoclip lungo quattro minuti in cui spiega perché vale la pena offrirgli qualche dollaro. Nocos, un giovane politologo, ce l’ha messa tutta per rendere divertente la sua storia, inserendo il suo volto photoshoppato nei titoli di testa e filmando una serie di intermezzi comici con sottofondo hip hop. Nocos ha attuato anche diverse strategie promozionali, chiedendo ad esempio solo la metà dei soldi necessari oppure offrendo una tazza delle Nazioni Unite («non in vendita!») ai donatori particolarmente generosi. Un po’ come nelle FAQ di un sito, la campagna include sezioni come «Perché dovrei aiutarti?» e «Di cosa hai bisogno?» La pagina include inoltre una ripartizione delle spese previste (tra cui 250 dollari al mese per il cibo). Immancabile infine un’«astuta campagna sui social media», ritenuta quasi indispensabile da una piattaforma che spinge costantemente i propri utenti a condividere aggiornamenti pubblici.

Still tratto dal video prodotto da Clement Nocos per promuovere la sua campagna

In un post su Medium, Nocos racconta dettagliatamente i motivi e i risultati della sua campagna: «Mi pareva che imbarcarsi in uno stage fosse l’unico modo per ottenere quella esperienza lavorativa divenuta apparentemente necessaria per assicurarsi almeno un impiego precario di base.»

Con un debito studentesco sulle spalle, il crowdfunding sembrava l’unica soluzione possibile per finanziare il tirocinio («Perché il crowdfunding? Cos’altro ho a disposizione?»). Ma forse nemmeno questo sarebbe bastato, dato che Nocos non è certo l’unico a fare uso di questo strumento. Per questo ha «sentito il bisogno di differenziarsi». Così ha creato un blog e un podcast in cui racconta la sua esperienza come stagista presso le Nazioni Unite (12 episodi in tutto). Partito con la speranza di raccogliere seimila dollari, nell’arco di un anno ne ha raccolti poco meno di duemila. Riflettendo sulla sua esperienza, Nocos, che aveva già dei dubbi sul crowdfunding, ha solo potuto confermare i suoi pregiudizi. Parla di social media fatigue, del disagio causato dal dover chiedere soldi ad amici che magari stanno attraversando una situazione simile e conclude affermando che «il mercato del crowdfunding è letteralmente affollato da persone che chiedono soldi per rimpiazzare il salario negato dai loro stage non retribuiti».

A dispetto del magro bottino, gli sforzi di Nocos hanno prodotto un risultato aggiuntivo. Non è passato molto tempo prima che la sua autopromozione si trasformasse in una critica nei confronti degli stage non retribuiti. Nel suo podcast The Internship Grind ha discusso la Fair Internship Initiative, il libro Intern Nation di Ross Perlin e ha intervistato Nathalie Berger e David Leo Hyde, autori di An Unpaid Act, documentario in corso d’opera su stage non pagati e precarietà. Tuttavia, ripensando a questa attività, Nocos riconosce umilmente l’ambivalenza che caratterizza il fare «egoisticamente» lobbying per una causa personale e affrontare una condizione strutturale:

«Ma per essere sinceri, il podcast non serviva solo a documentare questa curiosa anomalia del mercato del lavoro moderno. In un certo senso era intenzionalmente autoreferenziale, in modo tale da attirare l’attenzione sulla mia campagna di crowdfunding e renderla più visibile ai potenziali donatori.»

Quale ruolo ha giocato Nocos? Essendo consapevole del fatto che il successo del crowdfunding è strettamente legato alla capacità di operare al pari di una media company, ha agito contemporaneamente come copywriter, videomaker, social media manager e contabile.

Tra Call to Action e Attivismo

Sulle piattaforme di crowdfunding personale, non è raro imbattersi in un braccio rotto, un trapianto di cuore o una malattia rara. In questi casi gli obiettivi delle campagne vanno da poche migliaia di dollari a più di mezzo milione. 60.000 era l’importo richiesto da Kati McFarland, una fotografa venticinquenne dell’Arkansas affetta da sindrome di Ehlers-Danlos, un disturbo genetico che causa molteplici complicazioni tra cui svenimento, stanchezza e paralisi dello stomaco. Lei stessa riassume la sua condizione dicendo che «può a malapena camminare / stare in piedi / mangiare senza provare dolore / lussazioni / vomito / blackout».

Dettaglio tratto dalla galleria di immagini della campagna di McFarland

Dopo che suo padre è improvvisamente scomparso, McFarland si è trovata sola a lottare per gestire una serie di spese mediche che superano di gran lunga le indennità statali. Ecco perché ha lanciato un fundraising su YouCaring, una piattaforma che a differenza di  GoFundMe non deduce alcuna percentuale dalle donazioni (a parte un 2,9% detratto dai vari Paypal, WePay o Stripe). La campagna di McFarland non sembra accuratamente progettata come quella di Nocos: non ci sono video sulla sua pagina, solo alcune immagini che la ritraggono mentre subisce trattamenti medici e alcuni screenshot dei relativi costi. La prima parte della descrizione segue il solito copione della narrazione personale, mentre la seconda consiste in una suddivisione dei costi estremamente dettagliata piena di tecnicismi medici. Data la breve soglia di attenzione a cui sono abituati gli utenti di internet, non è difficile capire perché ci sono voluti più di 7000 reblog e condivisioni per raggiungere un obiettivo preliminare di 1200 dollari.

Le cose sono cambiate per McFarland dopo aver assistito a un discorso di Tom Cotton, membro del Congresso e ardente detrattore dell’Affordable Care Act, riforma sanitaria presa di mira dall’amministrazione Trump. Durante l’evento la giovane fotografa ha preso la parola per spiegare al senatore che eliminare la copertura fornita da quello che è comunemente chiamato Obamacare metterebbe a repentaglio la sua vita («Morirò. Non è un’iperbole»). Dunque gli ha chiesto di impegnarsi non solo ad abolire la riforma ma anche a elaborare un adeguato atto sostitutivo. A questo punto il pubblico è esploso in un grosso applauso. Al tentativo di Cotton di glissare sulla questione, la folla ha espresso la propria disapprovazione ripetendo in coro «fa’ il tuo lavoro».

Dopo essere stato pubblicato su internet, l’intervento di Kati McFarland è diventato virale. È a quel punto che le donazioni per la sua campagna si sono sorprendentemente moltiplicate. Nel frattempo McFarland è stata invitata a raccontare l’accaduto durante diversi programmi televisivi, nei quali ha sostenuto l’importanza di dare un volto alla domanda collettiva per un’assistenza sanitaria accessibile. Malgrado ciò non ha rinunciato a promuovere la sua campagna, che per lei rappresenta una questione di vita o di morte:

«Ci sono molte cose che avrei voluto dire […] ma purtroppo mi sono dovuta impegnare per infilare un link a questa campagna [..] uno deve fare ciò che deve quando è alle prese con le spese mediche.»

Naturalmente l’attenzione dei media ha avuto un effetto positivo sulle donazioni alla sua campagna. Ma al tempo stesso la sua storia è diventata un simbolo di tutti quei pazienti messi in pericolo da policy scellerate. Kati McFarland, come d’altronde anche Clement Nocos, si è dovuta destreggiare con le ambiguità che emergono quando la promozione personale si accompagna al tentativo di far luce su un deficit strutturale.

Prima come spettacolo, poi come tragedia

Intorno al 2007 un meme ha iniziato a circolare su internet. Si tratta della foto di un bambino in spiaggia che con un’espressione sprezzante stringe un pugno di sabbia. L’immagine è nota come «Success Kid» ed è tuttora utilizzata per esprimere frustrazione o descrivere casi di «epic win».

Success Kid passa all’azione

Nel 2015 Sam Griner, il protagonista del meme, ora un ragazzino di 8 anni, si è avvalso della sua popolarità online per finanziare il trapianto di reni di suo padre. La famiglia ha dunque lanciato una campagna su GofundMe includendo solo un quadretto familiare con Sam al centro e un conciso resoconto della sciagura. La campagna ha raccolto più di 100.000 dollari, grazie ai quali è stato possibile effettuare il trapianto. Su The Verge la notizia è stata pubblicata nella sezione dedicata all’intrattenimento.

Nonostante il lieto fine, questa vicenda può essere letta come un ammonimento nei confronti del ruolo svolto dalle dinamiche di rete, dai social media e dai siti d’informazione per quel che riguarda il crowdfunding personale. In tale contesto una serie di criteri più o meno arbitrari aumentano le probabilità di successo di una campagna, pur senza garantirlo. Dopotutto una vera e propria scienza della viralità ancora non esiste. Una vaghezza confermata dai suggerimenti fin troppo generici offerti da GoFundMe: «evita le immagini sfocate […] Scrivi un titolo accattivante e descrittivo: Qual è che suona meglio? “Ho bisogno di soldi!” oppure “La lotta di Julie contro il cancro”…. il secondo, giusto?» Un titolo deve essere «catchy» per distinguersi dalla marea di campagne attive. In questo scenario l’accesso a un mezzo informale di protezione contro le emergenze si trasforma in una corsa in cui l’alfabetizzazione digitale rappresenta un prezioso vantaggio competitivo.

Messaggio di un donatore rivolto al Success Kid

Come sottolinea la scrittrice Alana Massey, fare crowdfunding per finanziare l’assistenza medica rappresenta la trasformazione più radicale nell’ambito della raccolta di fondi dagli anni Ottanta. All’epoca stava avvenendo un altro cambiamento cruciale: le organizzazioni di beneficenza stavano convertendo il proprio modello verso la sponsorizzazione individuale. Invece di essere invitati ad «aiutare i bambini in difficoltà», i donatori sarebbero stati invitati d’ora in poi a «sostenere un bambino in difficoltà». Questa singolarizzazione della solidarietà, incorporata anche nei siti di crowdfunding, è spesso considerata un aspetto positivo poiché offre «l’opportunità di aiutare una persona specifica e contribuire a cambiare la vita di un individuo». Inoltre la relazione individuale tra donatore e beneficiario è rafforzata dal contatto diretto offerto dalle piattaforme di crowdfunding.

Se si tiene conto dello stile telegrafico di diverse campagne, sembra lecito supporre che molte di esse siano destinate solo ad amici e familiari. In questo caso il crowdfunding offre una comoda interfaccia che facilita il coordinamento della raccolta fondi. Ma spesso la speranza è quella di raggiungere un gruppo di sconosciuti e quindi competere per la loro attenzione. Un gruppo le cui scelte riflettono con tutta probabilità diversi pregiudizi. Tra di essi ce n’è uno che suona particolarmente tetro quando lo si associa al crowdfunding personale: la survivorship bias, ovvero la tendenza a concentrarsi sui precedenti successi, ignorando i fallimenti nel momento in cui si devono trarre delle conclusioni (vedi kickended.com). Come scrive Anne Helen Petersen per Buzzfeed, «il crowdfunding è un fantastico mezzo per affrontare i bisogni – ma solo alcuni di essi e solo per certe persone».

Per avere successo col crowdfunding bisogna saperci fare con internet. Il giornalista Luke O’Neil sottolinea proprio questo aspetto: «Recentemente ironizzo sul fatto che pensavo di aver sprecato la mia vita su Twitter, ma ciò potrebbe tornare utile nel momento in cui sarò costretto a raccogliere fondi per un’operazione. Bisogna contrattare. Devi costruire il tuo brand». O’Neil traccia anche un parallelo diretto e un tantino macabro tra il crowdfunding medico e la pratica imprenditoriale in ambito tecnologico: «Pensa al tuo cancro come l’origin story che una startup tecnologica racconta nella sezione “about” del proprio sito.» Associando sarcasticamente il racconto della propria storia medica su GoFundMe alla narrazione stereotipata delle startup, O’Neil ci mostra come tra un appello rivolto agli spiriti caritatevoli e un pitch per un gruppo di venture capitalist non ci sia poi così tanta differenza.

Il nostro obiettivo – il nostro imperativo – è quello di costituire noi stessi e i nostri progetti come merci coerenti, simpatiche e vendibili. Ci risvegliamo come brand.

Ciò che emerge dai commenti di O’Neil è la brutale neutralità del crowdfunding nei confronti dei contenuti che esso veicola. Si tratta di uno strumento che funziona indipendentemente dal fatto che sia impiegato per finanziare il Coolest Cooler o per far fronte alle difficoltà che incombono durante una vita intera. Introducendo Generosity, Indiegogo mostra come il crowdfunding possa essere generalizzato attraverso una semplice estensione del suo target di riferimento:

«Nel 2008 abbiamo lanciato Indiegogo con un’idea semplice: dare alle persone il potere e le risorse per realizzare le proprie idee. Nel corso degli anni abbiamo assistito con gioia al modo in cui inventori, musicisti, narratori e attivisti hanno ampliato i confini della nostra visione originale. […] Ispirati dalla compassione e dallo spirito creativo apparentemente senza limiti dei nostri utenti, ci siamo impegnati a fare di più… questa volta proprio per le persone e le cause che spesso hanno maggiore bisogno di aiuto. Quelle che passano inosservate. Quelle che hanno bisogno di una seconda opportunità. Quelle sull’orlo del precipizio. Generosity aiuta i pazienti affetti da tumore con le spese mediche e gli studenti con le rette scolastiche. Generosity incentiva gli sforzi umanitari nei paesi emergenti e aiuta le nonprofit ad affrontare rapidamente le loro cause. Generosity copre il conto in rosso alla fine di un mese difficile e supporta il villaggio dopo la tempesta.»

In altre parole il crowdfunding si ripete prima come spettacolo e poi come tragedia. Ma nel frattempo conserva il linguaggio promozionale e le dinamiche imprenditoriali che caratterizzano le raccolte fondi finalizzate all’arte o all’innovazione: le ricompense, l’obbligatorio bombardamento sui social, le tecniche prese in prestito dalla pubblicità e, come sostiene Ian Bogost, l’atmosfera da reality show. Aspetti aspramente criticati dall’artista e attivista Josh MacPhee, che sopravvivono nel contesto di campagne che riguardano a volte la sopravvivenza stessa:

«Il nostro obiettivo – il nostro imperativo – è quello di costituire noi stessi e i nostri progetti come merci coerenti, simpatiche e vendibili. Ci risvegliamo come brand, esultando gioiosamente attraverso queste piatte versioni di noi stessi simili a un logo. Puliti ed efficienti con angoli morbidi e stondati ed espressioni antisettiche scritte in Helvetica. Che cosa non amare di queste nuove forme, così eleganti e attraenti dall’esterno, che promettono di aiutarci nell’adempimento dell’ultimo diritto umano rimasto nella nostra società: il diritto di essere un imprenditore?»

Il tristo imprenditore

Nel 2014 lo scrittore di fantascienza Bruce Sterling ha tenuto un discorso dal titolo «Qualunque cosa accade ai musicisti, accade a tutti gli altri». Durante il talk ha dipinto i musicisti come «i “pazienti zero” della clinica per lesioni critiche dello sweatshop creativo». Secondo Sterling i musicisti rappresentano la vera avanguardia della precarietà vissuta dai  cosiddetti lavoratori creativi. Riflettendo sul crowdfunding come mezzo per sostenere la loro pratica, ha concluso che non si tratta di una buona idea poiché «la folla manca di immaginazione». A parere di Brett Neilson e Ned Rossiter il lavoratore creativo è considerato da molti il ​​soggetto precario per eccellenza. Ora che le soluzioni creative stanno diventando un mezzo cruciale per affrontare varie forme di precarietà, possiamo considerare l’immagine dei musicisti come canary in the coal mine prodotta da Sterling una previsione tanto vivida da risultare allarmante. Gli individui che lanciano campagne attraverso siti come GoFundMe possono essere visti come lavoratori creativi il cui medium sono le proprie avversità, lavoratori la cui pratica è sostenuta da un’attitudine imprenditoriale che include management e promozione.

La rete è piena di etichette che afferiscono a specifiche tipologie di imprenditore. Online si incontra il kidtrepreneur, il solopreneur e addirittura il botrepreneur. A giudicare dalle campagne di crowdfunding personale, sembrerebbe che più si versa in condizioni precarie, meno la via imprenditoriale sia volontaria (a proposito di neologismi, da qualche tempo chiamo entreprecariat – o imprendicariato – l’insieme di relazioni tra imprenditorialità e precarietà). Quindi, visto che ci siamo, potremmo coniare l’ennesimo termine per parlare degli utenti che popolano i siti di crowdfunding personale. Molti di questi si potrebbero definire sadtrepreneur, soggetti che senza desiderarlo davvero (o almeno non del tutto) agiscono comunque come imprenditori. Imprenditori tristi, insomma. Per loro la creatività necessaria a gestire una campagna di successo non rappresenta tanto una libera forma di espressione, quanto una necessità strategica legata alla propria sussistenza.

Lungi dall’essere unicamente il frutto della propria passione, l’imprenditorialità «creativa» sta man mano diventano un obbligo. Più e più persone ingrossano a malincuore le fila di un emergente sottoproletariato creativo il cui medium è costituito dalle necessità personali dei propri membri. È possibile combinare tale obbligo imprenditoriale con autentiche espressioni di disagio? Si può fare PR attraverso la precarietà e contro la precarizzazione? In questo scenario preoccupante, le storie di Clement Nocos e Kati McFarland riflettono l’impulso di deviare l’attenzione esclusivamente dalle miserie dei singoli verso le più ampie condizioni strutturali che in certa misura le causano. Uno sforzo, questo sì, degno di una monumentale campagna di crowdfunding.