Sotto la stella nera dell’Eurasia

Occultismo e fascismo nella Russia di Putin. Da Aleksandr Dugin alle teorie sul «superethnos», storia di un matrimonio tra geopolitica e magia

La Stella Nera. Magia e potere nell’era di Trump è il nuovo libro di Gary Lachman, appena uscito per Edizioni Tlon. Pubblichiamo alcuni estratti dal capitolo 6, intitolato «Una guerra di tutti contro tutti», ringraziando l’editore per la disponibilità.

Unire tutto dentro l’anima russa – o almeno all’interno dei suoi confini – è esattamente ciò che Aleksandr Gel’evič Dugin vorrebbe fare. Ha esortato più volte alla creazione di uno Stato russo fascista, costruito su posizioni sinarchiche, che da Vladivostok arrivi fino a Dublino, e alla distruzione dell’impero americano, anche se la vittoria di Trump ha leggermente ammorbidito i toni astiosi tipici dei suoi attacchi agli Usa. […] Finora Dugin è riuscito ad avere un discreto successo, di certo più di quanto non ne abbia avuto uno dei suoi punti di riferimento intellettuali, Julius Evola. Non è esagerato dire che l’annessione della Crimea e l’invasione dell’Ucraina siano state motivate in buona parte da una sua stramba teoria geopolitica, che a sua volta deriva dall’idea evoliana di una guerra perenne tra «solare» e «lunare». […] La sua visione di una nuova civiltà, di stampo spengleriano, che si innalza dall’Heartland di cui la Santa Russia costituisce il cuore, implica un conflitto globale tra le forze navali atlantiste (lunari), quelle dei cittadini dell’«isola del mondo», e forze continentali (solari) di quella che si chiama Eurasia. […]

Aleksandr Gel’evič Dugin è nato a Mosca nel 1962 da una famiglia di ceto medio-alto. Suo padre era un ufficiale dei servizi segreti sovietici e sua madre una dottoressa. Si fece notare per la prima volta nel 1983, quando venne sottoposto a fermo dalla polizia per avere cantato una canzone antisovietica durante una festa. Il testo, scritto da lui, incitava all’eliminazione del potere sovietico («le nostre armi da fuoco non mancheranno il bersaglio») e alla conquista del mondo da parte dei soldati russi. […] Il Terzo Reich esercitò da subito un certo fascino su di lui, attrazione coltivata poi negli ambienti bohémien della science-fiction occulta in cui entrò quando aveva più o meno vent’anni. Un libro popolare in questa cerchia era Il mattino dei maghi, in cui si parlava di Hitler come di «Guénon più i carrarmati». Anche se non è per niente accurato, questo testo ha dato forma alla miscela di occultismo e politiche radicali di estrema destra che ha influenzato la carriera di Dugin e attrae oggi i lettori di Evola.

Yevgeny Golovin, alchimista alcolizzato ossessionato da Hitler, lo prese sotto la sua ala. Un altro bohémien che gli fece da guida fu Geydar Dzhemal, un islamista russo che promuoveva un tipo di radicalismo religioso. Dugin si ritrovò all’interno di un ambiente in cui Satana, sedute spiritiche, tavole ouija, droghe, sesso, alcol, giochi di ruolo e fascismo si mescolavano in un infuso inebriante. Golovin era una specie di Svengali che «zombificava» i suoi seguaci conducendoli attraverso una serie di «performance» in cui dovevano interpretare marinai, poeti, cavalieri della tavola rotonda e, inevitabilmente, nazisti (parte, quest’ultima, che ritorna spesso nel gioco di ruoli che caratterizza la carriera di Dugin). Dugin imparò ben presto come fare e diventò una figura dominante capace di «zombificare» a sua volta gli altri. Con i suoi capelli a scodella, la chitarra hippie, i pantaloni da cavallerizzo e i modi aristocratici, si presentava come una figura impressionante, dotata di «un pizzico di immaginario fascista e un repertorio di canzoni occulte». […]

Dugin affermò in seguito che il suo hitlerismo era solo l’espressione dei suoi sentimenti antisovietici, la manifestazione di una posa «trasgressiva» che includeva anche l’interesse per la poesia oscura de I canti di Maldoror del Conte di Lautréamont, fonte d’ispirazione anche per i surrealisti. Potremmo quasi dire che Dugin era una sorta di «dandy fascista». Anni dopo, intervistato al riguardo dei suoi comportamenti nazisti, avrebbe affermato, in pieno stile postmoderno, che si trattava solo di uno scherzo, un po’ di ironia, sottintendendo che chi lo aveva preso sul serio aveva dei problemi (argomentazione a cui fanno ricorso sia gli esponenti dell’alt-right che gli utenti di 4chan). Ma è difficile far quadrare questa «negazione plausibile» con l’ambiente neonazista nel quale Dugin è maturato e con le politiche che ha perseguito.

È stato proprio in questi circoli che si è imbattuto nel pensiero di Evola. […] Dugin, che aveva studiato da solo il francese e altre lingue, prese una copia di Imperialismo pagano in edizione tedesca e ne fece subito una versione in samizdat. E fu questo l’inizio di una carriera che avrebbe unito occultismo ed estrema destra in un mix spesso vorticoso. E che sarebbe continuata con libri che collegavano Evola e Guénon alla chiesa russa ortodossa, di cui è un fervente sostenitore. Dugin appartiene infatti ai Vecchi Credenti, il movimento che continua a esercitare i rituali e le pratiche precedenti alle riforme del Diciassettesimo secolo. Sulla scia dell’insegnamento di Guénon, Dugin è rimasto vicino alle radici della tradizione, e lo manifesta addirittura con la sua barba e il vestito da contadino tipici della setta.

Aleksandr Dugin, ai più noto come «il Rasputin di Putin»

Nel 1986 Dugin si unì a Pamyat, un’organizzazione dedita al restauro di antichi monumenti. Questo innocuo obiettivo venne presto eclissato dall’antisemitismo del suo leader, Dmitry Vasilyev, attore paranoico convinto che gli ebrei stessero distruggendo il patrimonio russo e che avessero mandato dei sionisti a ucciderlo. Il movimento Pamyat attrasse più teppisti, cripto fascisti e nazionalisti che restauratori, e smosse i sentimenti patriottici di Dugin che iniziò a indossare camice nere, cinture di cuoio e straccali in puro stile Black Hundred (Centurie Nere), il movimento zarista dell’inizio del Ventesimo secolo. […] Dugin lasciò presto Pamyat e iniziò la sua ascesa personale di ideologo trasformista, un arrivista radicale alla ricerca di «un ascensore per i piani alti». E quell’ascensore fu il fascismo. […]

Dopo un breve periodo passato vicino al Partito Liberal-Democratico di Russia di Vladimir Vol’fovič Žirinovskij, all’inizio degli anni Novanta Dugin fece diversi viaggi in Europa. [..] Incontrò diversi personaggi della nuova destra europea, il più importante dei quali era Alain de Benoist. Ma venne in contatto anche con delle figure meno raffinate come Claudio Mutti, discepolo di Evola legato a gruppi terroristici dell’estrema destra italiana.

Alexander Andreyevich Prokhanov, ex ingegnere con diversi legami militari diventato scrittore, venne presentato a Dugin e lo invitò a scrivere per un nuovo giornale nazionalista e ultraconservatore che stava per avviare: «Den» (Il giorno). La politica editoriale prevedeva xenofobia, antisemitismo, nostalgia sovietica e teorie complottiste. Prokhanov, militarista beat, assunse Dugin come «teorico del complotto». Dugin cominciò a lavorare in questo senso, sfornando articoli in cui esponeva le macchinazioni dell’«élite globale» occidentale intenzionata a creare un «governo mondiale» che minacciasse la Russia. Come Andrew Breitbart, Alex Jones e Trump, Dugin fece da «aggregatore» delle fantasie più selvagge, che prevedevano un gran numero di agenti segreti, cospiratori e rivoluzionari infiltrati nello stile de L’uomo che fu giovedì di G. K. Chesterton.

Alcune cospirazioni, però, avevano un fondamento, come il fallito colpo di stato di alcuni membri radicali del governo sovietico contro Michail Sergeevič Gorbačëv che, nel 1991, segnò di fatto la fine dell’Unione Sovietica. Dugin, che era stato bacchettato dal Kgb per aver cantato una canzone antisovietica, fece esperienza di un’enantiodromia politica – il diventare l’opposto – trasformandosi da fascista dissidente in comunista nostalgico. Non appena scomparve l’Unione Sovietica, Dugin realizzò di essere un «uomo sovietico».

Eppure la fine del comunismo per lui significò avere più lavoro. Il collasso del marxismo aprì un vuoto ideologico. Oltre a cadere dentro botole sociali, politiche ed economiche, la Russia ebbe una crisi d’identità. Cosa significa essere russi senza Marx? […]

Parata nazionalbolscevica

La serietà della sua nuova immagine pubblica fu forse all’origine della decisione di formare il Partito Nazional Bolscevico insieme a Eduard Limonov, lo scrittore che venne definito «un insetto che scrive pornografia» da Aleksandr Isaevič Solženicyn. […] Il suo movimento «rossobruno» metteva insieme la nostalgia per la Russia stalinista e la moda nazista, e sembrava la fusione tra le SS di Himmler e il Monster Raving Loony Party britannico, con una spolverata di Temple of Psychic Youth. Dugin ne disegnò la bandiera, che ricorda molto la svastica nazista: un martello e una falce neri dentro un cerchio bianco su sfondo rosso. Come Hitler, anche Dugin è un patito dei simboli sensazionali – o sigilli – e lo dimostra la sua appropriazione della Stella del Chaos. Il saluto del Partito Nazional Bolscevico – un braccio teso alzato con un pugno chiuso – e lo slogan Da, Smert! (Sì, Morte!) segnalano una fascinazione per il nazismo ancora all’opera.

Ma ancora una volta non era altro che una specie di progetto artistico postmoderno, un movimento fasullo come la protesta di Anonymous contro Scientology. Era tutto così «evidentemente» esagerato che prenderlo sul serio significava essere stati «presi in giro». In quanto tale indeboliva tutte le critiche, un po’ come il disprezzo sfacciato di Trump per la verità e i fatti taglia alla radice qualsiasi possibilità di accusarlo di menzogna o disonestà. Questo tipo di fascismo «dada» consente di avere entrambe le cose: come su 4chan, si possono fare le proprie dichiarazioni «trasgressive» senza doverne essere responsabili. […]

In quel periodo, Dugin non tralasciò i suoi interessi per l’occultismo e l’esoterismo. Pubblicò due riviste, «Elementy» e «Dear Angel», con le quali riuscì a mettere insieme gli elementi disparati del suo armamentario estremista in una bizzarra alchimia di politica e occultismo. La sua casa editrice Arktogeia – chiamata così in onore della presunta patria artica della razza solare ariana – pubblicò libri suoi e di altri autori che raggiunsero un pubblico molto ampio e affamato di tutto ciò che fino a quel momento era stato proibito. […] L’Uomo russo, represso dalle leggi sovietiche tornò in scena. E con lui ricomparve la vena messianica dell’anima russa.

Scritto all’inizio degli anni Novanta, La grande guerra dei continenti affronta un tema centrale in tutta la carriera di Dugin. L’idea di base è che con la fine della Guerra Fredda le tensioni tra Oriente e Occidente non sono finite ma hanno semplicemente cambiato forma. Quella che era la lotta tra capitalismo e comunismo oggi è diventata quella tra potenze di terra e di mare, tra Russia e l’intero Occidente. Questo tipo di conflitto c’è sempre stato, ma durante il periodo sovietico aveva assunto la forma di un contrasto ideologico ed economico. Il punto è però che l’origine primordiale da cui derivano tutti i conflitti è la guerra eterna tra terra e mare. […]

La Russia non era europea; i valori europei non le si adattavano; ma presentava la possibilità di una «Terza Via», «un mondo mediano», una «Terza Roma» successiva all’antica Città Eterna e a Costantinopoli.

Nella nozione di Eurasia trovano posto molti concetti diversi sulla lingua, l’etnografia, la razza, la geografia, l’ecologia e il cosmo, e ciò la rende allo stesso tempo sconfortantemente vaga e complessa. L’assunto di base è che l’immensa zona centrale russa, la sua enorme massa continentale, sia la patria di una nuova civiltà organica e indipendente, che affonda le sue radici in convinzioni, costumi e in un rapporto con la terra radicalmente diverso da quello dell’Europa e dell’Occidente, nel senso di America. Le sue origini vanno rintracciate nelle orde mongole delle steppe sconfinate, e non nella ragione e nella logica dell’Illuminismo. Non si tratta di un lontano cugino dell’Europa, ma di un parente stretto dell’Asia. Per questo motivo la gente che la compone ha una predilezione innata per le società collettiviste, immense famiglie di nazioni tenute insieme da un governante supremo, e non per le società Occidentali atomistiche, individualistiche e incentrate sull’io. […]

L’idea si presentò per la prima volta negli anni Venti, quando un gruppo di intellettuali russi Bianchi emigrati, oppositori dei Bolscevichi e bloccati in Europa, iniziò a pensare a cosa avrebbe potuto guidare la loro patria una volta finito l’esperimento comunista (cosa che erano sicuri sarebbe successa in tempi brevi). Per loro, la rivoluzione era infatti una sorta di «catarsi mistica» che doveva portare alla «fine della storia». In un clima di «attesa escatologica» volevano preparare una nuova visione del futuro da riportare in patria.

Questi pensatori si confrontarono però con una crisi d’identità (come successe ai russi negli anni Novanta). Si chiesero: che significato possiamo dare all’essere russi che non sia marxista o zarista? L’idea fu che, per rinnovarsi, la Russia avrebbe dovuto guardare alle sue radici asiatiche e abbandonare i tentativi di «occidentalizzarsi» che erano iniziati nel Diciassettesimo secolo con Pietro il Grande. La Russia non era europea; i valori europei non le si adattavano; ma presentava la possibilità di una «Terza Via», «un mondo mediano», una «Terza Roma» successiva all’antica Città Eterna e a Costantinopoli. […] Con il passare del tempo, i bolscevichi si assicurarono e rafforzarono il potere, i ruggenti anni Venti cedettero il passo agli osceni anni Trenta di Hitler, Mussolini e Stalin, e i sogni dei primi euroasianisti scolorirono, inghiottiti da un mondo che li ignorava. Ma l’Eurasia era destinata a risorgere, questa volta a partire dal più sovietico dei luoghi sovietici: il gulag.

Francobollo commemorativo di Lev Nikolaevič Gumilëv, uno dei teorici di riferimento della dottrina eurasista

Lev Nikolaevič Gumilëv nacque nel 1912, figlio dei poeti Nikolaj Stepanovič Gumilëv e Anna Andreevna Achmatova. Nel 1933 venne arrestato dalle autorità per aver recitato una poesia antisovietica (un po’ come successe a Dugin). […] Alla fine venne scarcerato, ma solo per essere riarrestato poco dopo e inviato nel campo di lavoro del Canale Mar Bianco-Mar Baltico, e poi in quello di Noril’sk, nel circolo polare artico. Dopo il rilascio combatté nella Seconda guerra mondiale, e nel 1949 venne arrestato nuovamente e spedito nei campi di lavoro di Karaganda, Kazakistan, e Omsk, Siberia. Vide infine la libertà nel 1956, durante il periodo della «destalinizzazione» russa.

La fortuna di Gumilëv arrivò negli anni Novanta quando, con la Glasnost’ e la Perestrojka, riuscì a godere di un certo successo nazionale – anche se per poco, visto che morì nel 1992. Da vittima del regime, espulso dalle università, e definito apertamente nemico del comunismo, divenne una «figura di culto» e le sue idee furono percepite come «dogmi al di sopra di ogni critica». […]  Stranamente, durante gli ultimi giorni dell’Unione Sovietica, Gumilëv apparve come accalorato sostenitore del regime che lo aveva perseguitato e soffrì di un crollo nervoso davanti al suo collasso – prova, forse, di una «sindrome di Stoccolma», che porta il prigioniero a identificarsi con i suoi carcerieri.

Si dice che da bambino Gumilëv abbia ricevuto in regalo dal padre un libro sulle grandi tribù delle steppe russe: mongoli, tartari e unni. Da qui è cominciato il suo grande amore per i popoli della steppa, come il vasto impero dell’Orda d’Oro che hanno attraversato la parte centrale della Russia nel medioevo. […] Lesse molti libri di storia e negli anni Trenta si imbatté nelle teorie degli euroasianisti. Fu però durante la prigionia nei gulag che emerse la sua idea fondamentale. Nei campi di lavoro vide che i prigionieri tendevano in maniera «naturale» a formare piccoli gruppi che mangiavano insieme e assumevano i connotati di una famiglia. Si prendevano cura l’un l’altro, si tenevano compagnia, e si sarebbero sacrificati se qualcun altro ne avesse avuto bisogno. Ciò non avveniva per una condivisione di interessi o per un sentimento di amicizia, o per la percezione di una fratellanza universale o per umanità. Si trattava, comprese Gumilëv, di un impulso biologico irriducibile, il desiderio istintivo e inconscio di distinguere il proprio gruppo – «noi» – dagli altri – «loro». Era come se una qualche forza spingesse le persone dello stesso tipo e della stessa stirpe a stare insieme, un’attrazione del simile per il simile che separava da chi era lì attorno.

Ciò che distingueva questi gruppi, enclave ristrette o, come avrebbe sostenuto più avanti, intere nazioni, razze, e organismi più grandi chiamati ethnoi, non era un’identificazione cosciente, un’idea razionale di interesse personale, o una religione e una credenza. Ma il possesso di una strana energia vitale detta «passionarietà», che spingeva le persone a espandersi, creare, e spingersi oltre i bisogni immediati – per le tribù della steppa, tutto ciò significava conquistare. Si trattava di una spinta irrazionale a rinunciare alla sicurezza e al comfort e a compiere enormi sacrifici per valori e obiettivi al di là della logica e della ragione, qualcosa per cui i russi erano molto portati e che spiega il loro amore per tiranni come Ivan il Terribile. […]

La passionarietà dipende dalle persone, e segue un ciclo prefissato che la innalza al culmine della forza e poi inizia a spegnersi. Gumilëv sostenne che quella dell’Occidente si trovava in forte declino, mentre quella dei russi e degli arabi era vivace e doveva ancora raggiungere il picco. E aggiunse anche un’altra forza, la «complementarietà», che spingeva persone di gruppi diversi ma collegati a unirsi per formare il cosiddetto superethnos. Anche se differenti, questi avevano in comune cose sufficienti per essere considerati parte della stessa famiglia, proprio come fratello e sorella che sono diversi ma imparentati.

Gli Stati Uniti e la Nato puntavano a impedire la legittima ascesa russa al potere globale. L’Unione Sovietica fratturata doveva riformarsi come Impero Euroasiatico e opporsi all’Occidente.

Gumilëv arrivò a considerare queste forze «reali», oggettive, dei fatti fisici come l’elettricità e il magnetismo. Ritenne di poterne registrare la quantità e la natura disponibile in un determinato momento quantificandola in Pik, un simbolo tracciato su un diagramma, come fece Reich con l’energia vitale chiamata «orgone» e come avrebbe potuto fare Mesmer con il «magnetismo animale». E proprio come Reich e Mesmer, Gumilëv finì per credere che la sorgente ultima della passionarietà si trovasse nello spazio.

Gumilëv riteneva che gli ethnoi fossero creati da esplosioni improvvise di «bioenergia» emessa dall’intero ambiente, impennate imprevedibili generate dalla terra, dalla vegetazione, dalla vita animale, dal sole e persino dalle stelle. Gruppi umani, razze ed ethnoi sono come una «crosta» formata sulla superficie del pianeta, e sono «naturali» come le foreste o le mandrie di antilopi. Non siamo molto di più della pelle della terra. Gumilëv riprese l’idea della «bioenergia» da Vladimir Ivanovič Vernadskij, scienziato appartenente alla corrente filosofica del cosmismo pre bolscevico. Vernadskij era interessato all’interazione tra l’umanità e il resto della biosfera, e contribuì a rendere popolare la nozione di noosfera, ovvero il sottile strato del pensiero che ricopre la superfice del globo. Secondo lo scienziato russo, l’uomo assolve un ruolo assolutamente naturale nell’economia cosmica – alla stregua degli alberi o dei minerali – come ricevitore e trasmettitore dell’«energia cosmica», idea condivisa anche da Gurdjieff. Per Vernadskij, «episodi di intensa attività umana sono in qualche modo connessi alle radiazioni solari e cosmiche». E Gurdjieff pensava la stessa cosa. Per entrambi, in definitiva, ciò significa che quelle che riteniamo essere decisioni prese con l’intelligenza e per il libero arbitrio sono in realtà il risultato di forze cosmiche che agiscono su di noi. L’umanità è spinta dal cosmo come le nuvole dal vento, e il suo io razionale conscio ha poco da dire al riguardo. [Gumilëv] unì tutto questo al suo amore per le grandi popolazioni nomadi che attraversavano l’immenso spazio russo, e cominciò a scriverne. Si considerava uno scienziato, intento a comprendere fatti indubitabili come la forza di gravità, dotato però di un’immaginazione poetica ereditata dai suoi genitori. […]

Dugin ha inserito tutte queste cose nel suo frullatore geopolitico e nel 1997 ha pubblicato Fondamenti di geopolitica. Anche quest’opera arrivò al momento giusto. Una coscienza cospiratrice attanagliava il paese; l’economia era al collasso e la sconfitta per mano dei ribelli ceceni si faceva sentire. C’erano potenze straniere all’opera, ed era ormai il momento che l’Eurasia reagisse ai nemici atlantisti che tramavano contro di lei. Gli Stati Uniti e la Nato puntavano a impedire la legittima ascesa russa al potere globale. L’Unione Sovietica fratturata doveva riformarsi come Impero Euroasiatico e opporsi all’Occidente. Il conflitto non era più tra comunismo e capitalismo, ma tra Occidente decadente, voglioso di espandere la sua permissiva ideologia liberale attraverso la «globalizzazione», e una nascente Santa Russia schierata dalla parte dell’ordine, della tradizione, e di un mondo «multipolare». Sulla copertina del libro faceva bella mostra di sé la Stella del Chaos, mentre le sue seicento pagine gettavano una luca positiva sul fascismo e sul nazionalsocialismo e, con le sue rune, mappe, grafici e riferimenti a fonti oscure, prometteva di dire ai lettori la «verità» – fino a quel momento celata – sulla geopolitica.

La copertina di Fondamenti di geopolitica

Fu un successo, sia dal punto di vista delle vendite che da quello dell’impatto politico. Il libro ottenne critiche entusiaste. Venne piazzato nelle casse dei supermercati, un luogo curioso per un testo descritto come il più «singolare, impressionante e tremendo» tentativo russo di riemergere dalla depressione post sovietica nonché «manuale per dominare il mondo». […] Ma dopo poco il filosofo russo subì un’altra metamorfosi ideologica.

Quando Putin salì al potere, Dugin passò dall’essere un teorico dell’opposizione dura a essere un fervente sostenitore del nuovo leader. Ben presto promise a Putin quella fedeltà assoluta che i russi avevano concesso agli zar ed Hermann Göring a Hitler. Il filosofo e il nuovo presidente non sempre la vedevano nello stesso modo. Le divergenze d’opinione hanno portato Dugin a parlare di un «Putin Solare» e un «Putin Lunare» – e non è un mistero quale dei due preferisse. Ma lentamente, negli anni di Surkov e dopo, la visione euroasianista di Dugin è diventata la politica nazionale ed estera di Putin.

E Putin? Stava diventando simile a Dugin, come Dugin stesso credeva? Il filosofo russo stava zombificando il presidente, come aveva fatto il suo predecessore bolscevico Rasputin con lo Zar Nicola II, o almeno con la Zarina? Con l’inizio del nuovo secolo, l’idea euroasianista crebbe fino a giocare un ruolo importante nello scenario mondiale, e a essere presa sul serio come non era mai capitato prima. Quello che era nato come un «simulacro», dice Dugin in un’intervista, sembrava assumere una consistenza sempre più reale.