La pura oscenità

Un’introduzione a Peter Sotos, scrittore famigerato ed ex membro dei Whitehouse: tra sessualità deviante, ultraviolenza, sadismo e letteratura estrema

Sex has everything to do with age. 
Even more than infection. 
With waste and depletion and entropy. 
Everything after. There is no such thing as a clean fuck. 
Sex is a matter of degrees. It’s a history of options. 
When sex is pornography, it is born of safety and privilege

Se penso a Chicago negli anni Novanta mi vengono in mente due immagini molto diverse tra loro. Penso al toro dei Chicago Bulls raffigurato su un grande pallone da basket che avevo da bambino. Guardavo sempre NBA Action su Italia 1 con mio fratello. Fino a una certa età per me Chicago era questo: il rosso di quelle canotte, i capelli di Dennis Rodman, l’attesa febbrile per un highlight in tv di un’azione di Michael Jordan. L’altra immagine mentale che ho di Chicago è una videoteca lurida, specializzata in VHS porno, dove in una delle cabine sul retro un ragazzo magro con i capelli lunghi sta succhiando il cazzo a un uomo di mezza età, mentre Bad Penny dei Big Black suona in sottofondo. Per questa seconda immagine devo ringraziare le lunghe sessioni di lettura dei libri di Peter Sotos. 

Sotos è uno scrittore per lo più sconosciuto in Italia, bandito dal circuito mainstream all’estero, e tuttavia assurto allo status di culto. Alcune copie dei suoi libri – per lo più introvabili e fuori catalogo – sono vendute a cifre ridicole. Decennio dopo decennio, questi libri appaiono e scompaiono dal mercato, pubblicati da piccoli editori non distribuiti nemmeno da Amazon. Nell’arco di una produzione quarantennale, con uno stile estremo e sperimentale, Sotos ha raccontato e analizzato la psicologia di serial killer e sadici a vario titolo, si è addentrato nelle pieghe più indicibili e mistificate dei casi di cronaca nera (per lo più legati ad abusi sessuali). A volte con l’intento di descrivere la violenza perpetrata dagli stessi media nel trattare questi argomenti. Ma tra i suoi temi ricorrenti c’è anche la pornografia, la Chicago più abietta (dove è nato e vive), la sessualità deviante, i gay bar e i lerci videostore nei cui retro può accadere di tutto. 

I suoi libri sono scritti spesso in prima persona. Il linguaggio è diretto, disturbante, violento. Cut-up ed elementi intertestuali come articoli di giornale, magazine, stralci di interviste, soprattutto legati a crimini su minori, interrompono la narrazione. A volte la sua scrittura assomiglia a un flusso di coscienza, altre a una seduta psicoanalitica o a una lotta dell’autore con sé stesso. Di certo non è il tipo di roba che vorreste consigliare agli amici.

Peter Sotos negli anni Ottanta

Peter Sotos rappresenta l’esempio più fulgido di ciò che può essere definito una micro-celebrità dell’underground: una figura innominabile nel mondo della cultura “ufficiale”, e che tuttavia continua a influenzare decine di personaggi insospettabili, pubblicati e diffusi in ambiti ben più rispettabili e rinominati. Lo cita come influenza o con parole di apprezzamento gente come Thomas Ligotti, Dennis Cooper, Jamie Stewart degli Xiu Xiu e molti altri. C’è chi lo ritiene un edgelord de cattivo gusto. Per altri è un grandissimo scrittore. Bruce Benderson, ad esempio, ne ha scritto sulla prestigiosa Nouvelle Revue Française edita da Gallimard. Il regista Gaspar Noé, invece, fa comparire un suo libro, Lazy, in una scena di Love. In un’intervista Noé ha raccontato che Sotos è uno dei suoi migliori amici, nonché tra i primi ad aver visto il montato di Climax. Sotos è anche amico di lunga data di Steve Albini, conosciuto ai più come produttore di In Utero dei Nirvana e di Surfer Rosa dei Pixies, ma che forse sarebbe più opportuno ricordare in quanto figura seminale del cosiddetto Chicago sound degli anni Novanta – non solo come produttore, ma anche in prima persona, con band come Big Black, Rapeman e Shellac. 

Il motivo dell’ostracismo nei confronti di Peter Sotos deriva tanto dal contenuto estremo e problematico dei suoi libri, quanto da una vicenda giudiziaria in cui fu coinvolto. Nel 1984 Sotos esordì sulla scena delle fanzine underground con la rivista Pure. All’epoca, faceva parte dei Whitehouse di William Bennett, band chiave dell’area noise e power electronics degli anni Ottanta, e in cui ha suonato fino al 2003. Negli anni Novanta nella lineup c’era anche Philip Best, fondatore di Amphetamine Sulphate, casa editrice tra le più interessanti della narrativa sperimentale ed estrema contemporanea, che oggi continua a pubblicare i suoi scritti. 

Nonostante Pure sia ciò che di meno interessante si possa leggere nella produzione di Sotos, oltre a costituire un punto di partenza fuorviante per approcciarsi alla sua scrittura, diverse persone ancora oggi lo conoscono soltanto per questo. A ogni modo, Pure fu una delle prime fanzine a trattare nel dettaglio l’universo dei serial killer. E lo fece, soprattutto, con uno stile estremamente disturbante e scorretto. I testi di Pure, infatti, incarnano il punto di vista di un sadico. Diversi articoli commentano le azioni di assassini, stupratori e violenti con dettagli espliciti e parole di elogio. Frasi shock e un esibito cattivo gusto accompagnano il tutto, intervallati da ritagli di giornale e materiale paratestuale. 


Philip Best, William Bennett e Peter Sotos durante un live dei Whitehouse

Il nome di Peter Sotos finì nelle indagini della polizia quando una copia di Pure venne ritrovata nell’appartamento di un uomo di Edimburgo sospettato di essere responsabile di una serie di rapimenti di bambini. Sotos venne poi sorvegliato dalla polizia di Chicago per circa nove mesi, fino a quando, nel 1985, il suo appartamento venne perquisito. La issue numero 2 di Pure conteneva un’immagine – sfocata dalla classica estetica xerox delle fanzine underground del tempo – che Sotos aveva fotocopiato da un magazine illegale contenente foto di minori in situazioni sessuali. Sotos fu quindi arrestato con l’accusa di oscenità e possesso di materiale pedopornografico, in base all’allora nuova legge dell’Illinois che rendeva, per la prima volta, il possesso di pornografia infantile un reato punibile con una pena detentiva da quattro a quindici anni. Le accuse di oscenità furono ritirate poco dopo, mentre per il possesso Sotos si dichiarò colpevole. 

Una vicenda mai chiarita del tutto. Per alcuni Sotos è tutt’oggi alla stregua di un pedofilo, fine del discorso; poco importano le parole ben poco lusinghiere su questi individui sparse in vari testi successivi, come nella sua postfazione a The Gates of Janus, il libro scritto dal serial killer britannico Ian Brady. Per altri, nonostante i suoi interessi di certo poco consoni alla morale comune, il possesso di quella rivista era il risultato della sua curiosità ed esplorazione, per così dire “antropologica”, verso quel mondo abietto fatto di collezionisti anonimi, incontri nei bagni di squallidi locali e persone con una seconda vita segreta dietro una superficie di rispettabilità borghese. 

Sotos gira intorno all’ambigua spettacolarizzazione dei casi di pedofilia e di violenza sui minori, alla rappresentazione che ne fanno i media e a come questi finiscono per creare una sorta di pornografia a loro volta. 

Dal mio punto di vista, entrambi i giudizi sono fuorvianti. O semplicemente sbagliati. Dare una versione edulcorata di Sotos sarebbe inutile tanto quanto demonizzarlo. Comunque, se questa vicenda da un lato ha cancellato qualsiasi possibilità di successo commerciale dei suoi libri, dall’altro lo ha trasformato in una figura di culto per tutto un microcosmo che alle promesse degli anni Ottanta reaganiani non ci aveva creduto neanche per un secondo, ma nemmeno a quelle di una contro-cultura militante. La fetta più agonizzante di una generazione disillusa aveva trovato qualcosa per cui era impossibile essere indifferenti. 

Da Pure in poi Sotos ha man mano sviluppato e affinato la narrazione in prima persona creando una sorta di scrittura personale estrema che si accompagna a una conoscenza enciclopedica di casi di cronaca criminale, materiale giornalistico, mondo del porno e altri territori limitrofi. Qualcosa che non ha a che fare con la critica sociale, né con il narrare introspettivo della letteratura moderna e post-moderna. Il punto di vista di individui abietti si mischia con le pulsioni più controverse dell’autore. Anche in testi che sembrano situarsi più nel solco della narrativa true crime, come Selfish, little (2004) e Comfort and Critique (2005) – forse tra i suoi testi migliori – le vicende di cronaca a cui fanno riferimento si trasformano in altro. Nel primo si parla di Lesley Ann Downey, la prima vittima dei cosiddetti Moor Murders perpetrati da Ian Brady e Myra Hindley negli anni Sessanta. Nel secondo Sotos gira intorno a Sarah Payne, la bambina rapita e uccisa nel 2000 in Inghilterra, e a Sara, la madre della bambina. 

In Comfort and Critique la parte più digeribile riguarda la trasformazione in icone mediatica di queste due figure. Per esempio, la madre si rese protagonista di numerose campagne sulla protezione dei minori; iniziative che coinvolsero anche vip dell’epoca e che la resero una presenza costante in televisione e sui giornali, al punto che nel 2004 accettò la proposta di un noto editore di scrivere un libro sulla vicenda della figlia. Sarah Payne, invece, diventò per i media il simbolo dell’innocenza strappata. 

Il caso riscosse un clamore enorme in Inghilterra. Soprattutto nel momento in cui Sara, la madre, diede il via a una grossa mobilitazione in favore della cosiddetta “Sarah’s Law”, una legge che permettesse l’accesso controllato al registro dei criminali sessuali, in modo che i genitori con bambini piccoli potessero sapere se un pedofilo viveva nella loro zona. Sotos gira intorno all’ambigua spettacolarizzazione dei i casi di pedofilia e di violenza sui minori, alla rappresentazione che ne fanno i media e a come questi finiscono per creare una sorta di pornografia a loro volta. 

La popolarità dei coniugi Payne diventò enorme. E insostenibile. A un certo punto il padre Michael Payne venne invitato a un evento patinato, chiamato Bravery Awards, in cui vengono premiate solitamente persone che si sono distinte per “atti di coraggio meritori”: «Sembrava che ci volessero dare un premio perché la nostra figlia era stata uccisa – dichiarò Michael Payne in un’intervista – Non capivo cosa avessimo fatto di coraggioso. Ero solo in preda al dolore». Sotos si sofferma su un episodio di quella serata. La moglie in abito elegante e tacchi alti. Lui, già nel pieno di problemi con l’alcol che lo porteranno al suicidio, che prende a calci una vetrata del London Hilton. Comfort and Critique si riferisce a questo. A come i giornalisti smussino i contorni per creare un’immagine che venda. È la retorica del mostro, dei piccoli angeli e dei genitori coraggiosi. Stesso terreno di gioco. Sotos, d’altronde, non mira a individuare una qualche natura dei media come farebbe un sociologo. In un’intervista disse:

“Che lo facciano per dovere di carriera o per un ideale più grande, fosse anche umanitario, è irrilevante ai fini del mio discorso. […]. Criticare la natura della stampa sembra ridondante e poco importante. C’è un enorme mercato per questo tipo di analisi, ma per me non ha molto significato. Sono molto più interessato a come questo pensiero crea i corpi e le personalità di cui parla. Per essere precisi […] Sara Payne è diventata gradualmente il prodotto che le notizie volevano. O, almeno, il lato che mi è stato venduto.”

Penso ad alcuni casi italiani. Penso a ciò che si materializza nelle nostre teste quando sentiamo il nome di Massimo Bossetti o quello di Yara Gambirasio. Lui seduto sul divano. Lo sguardo torvo che fa da contrasto con gli occhi tristi del cane che tiene in braccio. Lei che fa stretching con una canottiera e gli shorts. Penso a Federica Sciarelli che legge in diretta tv i siti porno ritrovati nella cronologia del pc di lui. All’opera c’è sempre la costruzione di un’immagine. Confortare e criticare, ecco: di questi nomi non possiamo che conoscerne una figura tagliata e adattata ai gusti del pubblico, ai sentimenti in gioco, un’immagine in cui il mondo di riferimento, e le verità che ne definiscono il perimetro, sono diventati inattingibili. Per questo il pubblico continua a sorprendersi quando scopre che il mostro del momento, che il serial killer protagonista di quella o quell’altra serie tv, aveva una famiglia, magari dei figli, degli affetti, dei moti d’empatia. O che la vittima non è riducibile all’elenco di virtù e fatti ammirevoli che dopo i fatti di cronaca saturano la loro rappresentazione. Sono sempre immagini cristallizzate. Delle vittime, ad esempio, non conosciamo mai gli aspetti più oscuri, i fallimenti o gli errori, a meno che questi non servano a descrivere o anticipare l’incontro con l’omicida. 

Peter Sotos vuole capire la genesi di certe pulsioni. Ciò che ci gira intorno. E quanto lui stesso, insieme al lettore, possa avere in comune con persone che detesta. 

La parte più dura del testo, tuttavia, comincia quando ci si rende conto che Sotos non è interessato più di tanto al taglio politico della vicenda. La sua ossessione è la stessa Sarah Payne. E attraverso questa ossessione privata descrive a sua volta l’ossessione febbrile dei media per la rappresentazione di Sarah Payne. Un racconto che spesso diventa l’elemento vicario dell’esperienza di assassini e sadici vari. Individui che fanno dell’immagine delle vittime prodotta dai media parte della propria esperienza di piacere. E nel criticare questo tipo di sguardo, a volte Sotos sembra alludere anche a se stesso. In questo modo la stessa curiosità morbosa del lettore è messa in gioco. Sullo stesso terreno di quella di Sotos. La sua scrittura si gioca tutta in questo conflitto: Sotos scrive a partire dal cortocircuito tra il suo deplorevole interesse e il disprezzo per pedofili e assassini di minori. C’è un brano significativo di Comfort and Critique, in cui scrive:

“Finora sono completamente all’interno della legge. E, stupidamente, è proprio questa limitazione drastica ma specifica che crea la definizione di pornografia. La pornografia non è un’immagine. Non è un’azione. Viene definita dall’esterno da coloro che mi minacciano. È semplicemente ciò che faccio a un’immagine. O una cazzo di recita che svolgo solo nella mia mente. Sono le limitazioni che accetti. Quel poco che penso di poter sopportare. Siete destinati a rimanere delusi.”

Sarebbe riduttivo associare Sotos all’ennesimo scrittore che vuole mettere liberamente su carta le proprie compulsioni, sulla linea del libertinismo oscuro di De Sade (autore a cui troppo spesso viene accostato), o che cerca un gesto catartico nell’atto di scrivere. Peter Sotos vuole capire la genesi di certe pulsioni. Ciò che ci gira intorno. E quanto lui stesso, insieme al lettore, possa avere in comune con persone che detesta. Gli ambienti che descrive sono popolati da persone su cui ha un giudizio negativo. Gli stessi uomini con cui lui stesso ha incontri sessuali vengono bollati come faggots. Tuttavia, mentre le persone coinvolte in certi ambienti e certe sottoculture vengono descritte con molto poca indulgenza, non esprime mai un giudizio sulle sottoculture stesse. 

Come spesso accade nei suoi testi, Sotos alterna il commento al caso di Sarah Payne con apparenti divagazioni per lo più sul mondo della pornografia. Come quando, a un certo punto, parla della pornostar Annabel Chong, celebre per aver partecipato a quel porno cult del 1995 che fu The World’s Biggest Gang Bang, e del documentario Sex sulla sua vita presentato al Sundance. Una storia di violenza e di raggiri da parte dello stesso documentarista, raccontata come una dolorosa epopea femminista di emancipazione. Scrive Sotos:

“Sorride, distoglie lo sguardo e borbotta che la gangbang di duecentocinquantuno atti accuratamente contati, compiuti dentro e fuori il suo corpo da decine di uomini, è una “presa per il culo della mascolinità”. E tutto quello che è successo dopo, nella sua carriera porno e nel suo nuovo programma di studi universitari sul sesso, è in qualche modo legato al suo coraggio di sfidare i costumi sociali e le paure sessuali repressive. È sempre disposta a passare al livello successivo. Dice. Spera. Il che, come solo un grasso puritano potrebbe far notare, sembra includere il lasciarti convincere da un documentarista da quattro soldi ad annegare la tua ingenuità sessuale nel tuo passato accuratamente nascosto.”

La parola trasgressione è una delle etichette più low cost che esista nel panorama culturale. Libri o prodotti presentati come trasgressivi sono per lo più dei passatempo per hipster in crisi di mezza età.

Si potrebbe dire che ogni testo di Peter Sotos, sempre a metà tra caotici flussi di coscienza, auto-fiction e critica dei media, alla fine parla delle stesse cose. Pornografia. Sesso. Violenza. Rappresentazione. Con lo stesso Peter Sotos a fare da centro tra questi quattro poli. Per alcuni potrebbe suonare paradossale, ma quando Sotos parla di pornografia non è molto distante da un’autrice come la femminista anti-porno Andrea Dworkin. È lui stesso a citarla tra le proprie influenze principali. Basta prendere un testo come Mercy di Dworkin per capire, anche a livello stilistico, le affinità tra i due. Sotos scrive

“Le persone spesso si mostrano sorprese di questo perché non hanno mai letto il suo lavoro. […] La scrittura di Andrea è molto vivida ed estremamente vissuta. La sua scrittura la costringe a un certo grado di autocommiserazione viscerale e poi consapevole. La sua politica, che provoca il massimo rancore tra le persone sex positive, è terribilmente simile a quella di David Wojnarowicz. I due erano ossessionati dalle loro storie sessuali, e dei loro danni intrinseci, e cercavano una voce per ottenere una maggiore comprensione per ciò che avevano subito. Si tratta di un argomento molto più ampio, ovviamente, e mi chiedo solo perché sia sorprendente che la gente non capisca il mio apprezzamento per la Dworkin. Scriviamo anche delle stesse cose. John Stoltenberg ha detto che Andrea aveva intenzione di scrivere un libro su Lynndie England [la militare americana colpevole di torture nel carcere di Abu Grahib, n.d.r.] prima che morisse.”

Missed. Better still, Amphetamine Sulphate, 2022. 

Sotos detesta la cultura sex positive. Così come l’ingenuità con cui viene politicizzato il desiderio. Non importa la sua biografia, né l’immagine di edgelord che alcuni possono avere di lui dato ciò che scrive e gli ambienti che frequenta. O la sua conoscenza enciclopedica del mondo del porno e delle forme di depravazione. Non c’è nessuna contraddizione, perché non c’è alcuna questione morale. Sotos è consapevole della violenza intrinseca delle immagini che consuma. Ed è interessato a comprendere questa relazione, così come Dworkin non può essere ridotta a una critica dell’oggettificazione patriarcale della donna nel porno. Cos’è una vittima, qual è il suo mondo fuori dalla rappresentazione pubblica. Questa è l’ossessione che accomuna entrambi. In questo, Sotos riesce a restituire spessore alle vittime più di tanta letteratura e giornalismo apparentemente più edificante. 

C’è poi un aspetto più sottile. Di seduzione mefistofelica, direi. La parola trasgressione è una delle etichette più low cost che esista nel panorama culturale. Libri o prodotti presentati come trasgressivi sono per lo più dei passatempo per hipster in crisi di mezza età. E non sto parlando di Rosa Chemical a Sanremo o dei Maneskin. Parlo delle carte collezionabili dei serial killer. Le magliette di Charles Manson. L’umorismo nero. I libri di William T. Vollman. Le fanzine di cultura estrema. Ma anche i film di Jörg Buttgereit, le allusioni agli snuff movie e l’ossessione per il true crime. Tutto quel sottobosco controculturale che si propone di esplorare il cosiddetto “lato oscuro della natura umana”, ma a patto di snocciolare una serie di autogiustificazioni e premesse morali per occultare il proprio puro, repellente, squallido interesse: la catarsi, la satira, la performance artistica, il pensiero di Bataille. Leggere Peter Sotos significa fare i conti con la propria merda. Senza schemi che possano creare una distanza di sicurezza. Come ha detto Chip Smith, editore e fondatore di Nine Banded Books, una delle poche case editrici che ha pubblicato i testi di Sotos:

“Sotos infrange la regola. E chiama i poser a fare i conti con le loro cazzate. Mentre i devoti della cultura della morte continuano a girare in tondo per evitare di affrontare il cuore nero delle loro preziose ossessioni, ora devono fare i conti con Total Abuse. E improvvisamente le cose non sono più così divertenti. Il giro di parole solitamente praticato è meno facile da vendere, ma l’erezione non mente.”

La sua scrittura è uno specchio. Una questione personale. Il pubblico è un fatto per lo più accidentale verso cui Sotos non sente di avere molta responsabilità. 

Total Abuse è una raccolta dei primi scritti di Sotos, uscita a metà anni Novanta per Goad to Hell Enterprises, uno dei progetti di Jim Goad, altro personaggio facilmente detestabile, apprezzato da scrittori come Chuck Palahniuk, noto per lo più per la famigerata fanzine Answer Me! e per il The Redneck Manifesto. La raccolta conteneva la già citata Pure, oltre che i testi Tool. e Parasite. In altri termini, il Sotos più brutale e meno rifinito. La frase di Chip Smith (che, per altro, mi ha gentilmente venduto a un prezzo decente una sua copia personale di un libro di Sotos introvabile se non a cifre astronomiche) credo esemplifichi abbastanza bene il senso di quella letteratura “privata” di cui parlavo prima. Sotos non ama gli intellettualismi. Cita raramente filosofi o scrittori riconosciuti, anche se in qualche intervista emerge quanto non sia certo a digiuno di certa teoria. La sua scrittura è uno specchio. Una questione personale. Il pubblico è un fatto per lo più accidentale verso cui Sotos non sente di avere molta responsabilità. 

Nonostante si parli spesso di lui come di un blocco unico, identificandolo spesso come l’autore di Pure, la scrittura e la sua produzione sono cambiate nel tempo. Testi come Tool. fanno parte di una narrativa sperimentale dove vige il punto di vista di un sadico oppure di un assassino che scrive una lettera rivolgendosi alla famiglia di un minore scomparso. Nei testi dei primi anni Duemila, come appunto Selfish, Little e Comfort and Critique, diventa più centrale il tema dei media intrecciato alle questioni personali di Sotos stesso. In libri come Index (1998) il tema ricorrente è il sesso nelle modalità che la collettività considererebbe più immorali: dai circuiti di scambio di pornografia estrema agli incontri in luoghi poco raccomandabili della città. 

C’è un brano di Index in cui il narratore sta guardando un video di James Gillis, pioniere del porno gonzo, genere in cui – come nel giornalismo gonzo di Hunter S. Thompson – chi filma interviene direttamente sulla scena, partecipando o dando indicazioni. Nell’ultima parte della sua carriera James Gillis si era avvicinato sempre più al feticismo estremo e a pratiche di umiliazione dei soggetti filmati: sopraffazione, degradazione e oggettificazione della donna si accompagnano a uno stile che avrebbe aperto le porte all’esplosione dell’amatoriale. Nel flusso di coscienza del testo, Sotos sembra mettere in questione la nozione di consenso, alludendo indirettamente a come questi video possano costituire una forma sottile di violenza proprio nel gesto della ripetizione e della riproduzione. Il fruitore, acquistando il film, può iterare l’umiliazione all’infinito, completandola con le proprie fantasie, smaterializzando la persona reale filmata, i suoi pensieri, il vissuto soggettivo di quell’esperienza in quel dato momento in cui venne filmata. Qualcosa di molto simile a quanto descritto prima in questo articolo con i media e la costruzione della rappresentazione dei casi di cronaca. Verso la fine il narratore compra il video porno di una prostituta incinta. È uno dei monologhi che chiude il libro. 

“La realtà è la mia […] – quando tiro fuori i soldi per pagare e quando rimetto il video. La sua mezz’ora di vita è tutto ciò che voglio. Lasciatela tornare alla sua stupidità mondana e alle sue nausee mattutine, ai suoi progetti di coltivare un giardino prima o poi, o un altro bambino, o finire un corso di formazione in vendita di immobili […]. Per me è tutta spazzatura […]. Mi interessa, tesoro, tutto quello che sei. Perché possiedo ogni pezzo della tua realtà.”

La Chicago di Peter Sotos è quella dei peep-hole, dei sex bar che lui stesso frequenta, di videoteche nel cui retro è possibile avere incontri sessuali per pochi dollari, degli anfratti più luridi e misconosciuti dell’Illinois, dove si aggirano prostitute dipendenti da crack, pedofili e altra umanità ai margini.

Nel filmare, e più in generale nei meccanismi di rappresentazione come quelli mediatici, la realtà non viene soltanto copiata e riprodotta; viene piuttosto prelevata dal suo posto nello spazio-tempo e ri-semantizzata: la rappresentazione, di là dall’essere una mera copia del reale, ha sempre il potere di retroagire sulla realtà. Mi hanno sempre fatto sorridere le descrizioni di Sotos che ne danno le persone che lo hanno conosciuto. Gentile, affabile, estremamente colto. “Ha una percezione molto sentimentale e crudele del genere umano, ma poi è estremamente dolce. In un modo molto timido, è l’uomo più colto del mondo”, ha detto Gaspar Noé. Dennis Cooper lo ha descritto così: “Peter Sotos è un grande galantuomo, un ragazzo dolce ed è lo scrittore più trasgressivo che sia mai esistito, eppure è assolutamente gentile. Tutti quelli che ho conosciuto che fanno un lavoro estremo sono dei timidi pasticcioni”. Non si discostano da giudizi del genere nemmeno le persone che lo hanno incontrato in giro per Chicago. 

Ecco, Chicago. La Chicago di Peter Sotos è quella dei peep-hole, dei sex bar che lui stesso frequenta, di videoteche nel cui retro è possibile avere incontri sessuali per pochi dollari, degli anfratti più luridi e misconosciuti dell’Illinois, dove si aggirano prostitute dipendenti da crack, pedofili e altra umanità ai margini. Ma è la stessa città da cui uscì fuori quel suono abrasivo, violento e diretto di cui il già citato Steve Albini fu uno dei nomi più rappresentativi. La Chicago di locali come l’Hot House e il Lounge Ax. E di etichette discografiche come la Touch and Go records, nata inizialmente come ‘zine in Michigan, e che poi, trasferitasi in Illinois, produsse gente come Jesus Lizard, Butthole Surfers, Scratch Acid e gli stessi Big Black di Steve Albini. Che equivale a dire una parte seminale della scena post-hardcore e noise a venire e della cultura DIY.

La Touch and Go e Chicago furono anche altro (i Tortoise, la house, il free jazz). Ma la città in cui Sotos pubblicò i primi testi fu la mecca o il ricettacolo di un sound e di un modo di approcciarsi all’arte che, per parafrasare le parole del critico musicale Piero Scaruffi sui Jesus Lizard, più che al campo di battaglia del punk, assomiglia al suono dei feriti che agonizzano nel freddo della notte. Nella scrittura di Sotos, così tagliente, apodittica, di una franchezza brutale e frastornante come le macerie dopo un’esplosione, c’è qualcosa che mi ricorda quel suono là. Albini sarà anche uno dei primi a recensire Pure, attirandosi non poche critiche. E il sodalizio con Sotos culminerà nella produzione del controverso disco Buyer’s Market, un collage sonoro di interviste a vittime di crimini sessuali (spesso minori), ai loro parenti, alle conversazioni con ufficiali di polizia.

Recensione di Pure firmata da Steve Albini su Forced Magazine,1985

Sotos, tuttavia, pur rimanendo uno scrittore per cui vale davvero la pena di scomodare l’aggettivo unico, non esce dal nulla. Esiste un contesto, diciamo così, sottoculturale che era già pronto a emergere in quegli anni. È una ricostruzione che richiederebbe un testo a parte. Si può almeno dire che uno dei momenti fondamentali di questo nerissimo milieu è stata la pubblicazione di Apocalypse Culture da parte di Adam Parfrey e della sua Amok Press nel 1987. Apocalypse Culture è una una raccolta di saggi – da Hakim Bey alla clamorosa intervista alla necrofila Karen Margaret Greenlee, nonché allo stesso Sotos – testimonianza insuperabile di un’umanità terminale alla periferia del mondo in superficie. Non a caso fu un lavoro molto amato da J.G. Ballard, ma soprattutto fu un punto di partenza “ufficiale” per l’emergere di una contro-cultura estrema. Una sottocultura, estremamente ramificata, in cui – a livello, diciamo così, di comune sentire hanno trovato posto tanto ‘zine e case editrici diverse, quanto fenomeni come gli shock sites alla rotten.com (pure evil since 1996, come recitava l’intestazione sul sito). L’influenza di Sotos e di questo mondo oggi può essere trovata in progetti editoriali come kiddiepunk di Michael Salerno e in alcuni autori emergenti come Paul Curran e Thomas Moore (pubblicato dalla già citata Amphetamine Sulphate e intervistato da Sotos stesso per il blog di Dennis Cooper). 

Spesso mi sono posto la questione di quanto sia giusto leggere Sotos. Alla fine mi rendo sempre conto di quanto sia una domanda stupida. Penso che le categorie di giusto e sbagliato in letteratura siano estremamente limitanti. Sarebbe più corretto parlare di ciò che una lettura fa al tuo mondo; come lo fa a pezzi e come lo ricostruisce. Ad esempio, nella sezione commenti su YouTube di Buyer’s Market, ci si potrebbe aspettare una sequela di insulti e di gente che va in escandescenza per il contenuto straziante del disco. La maggior parte dei commenti, invece, hanno tutt’altro tenore. “This makes me feel fear, sadness, rage, but I think it’s good that more people became aware of the victims stories as a result”, dice un utente. Un altro ancora, dopo aver raccontato di aver subito diversi abusi da ragazzo, scrive: “Reading him, Sotos, and Dennis Cooper made me realize I would never repeat abuse done to me onto others and that I could move and grow beyond what happened to me”. Sono commenti che mi meravigliano fino a un certo punto.

La quasi totalità del linguaggio usato nel true crime e nel giornalismo serve a creare uno spettacolo. Uno show pone sempre una separazione: c’è un pubblico e c’è una performance pensata per il pubblico. I media vendono immagini. Per questo Sotos riesce spesso a essere più acuto nel parlare dell’abiezione umana rispetto a tanti critici della società. Quando Sotos parla di violenza, lo fa descrivendo le sue associazioni mentali, le proprie ossessioni, i territori limitrofi con queste cose e con certi individui. Il punto non è solidarizzare, né comprendere per giustificare. Semmai è non fingere con sé stessi, con ciò che attraversa il flusso dei pensieri almeno una volta nel tempo di una vita. Per questo anche il lettore, e il suo eventuale disgusto, sono messi in gioco. Penso che si possa imparare molto di se stessi attraverso la concettualizzazione della violenza. Così come si può imparare molto sulla violenza attraverso la concettualizzazione di se stessi. L’abiezione è già sempre una forma di assoluzione.