La protesta dei cadaveri

Essere cadavere vuol dire accettare di non far parte di questa vita: morti di tutto il mondo, unitevi!

1848, Parigi. La barricata di Saint-Antoine è fra le più incendiate, è il tumulto dei tuoni. Una rivolta del popolo contro se stesso, dice Victor Hugo. Aveva un aspetto particolare, questa barricata. Larga settecento piedi e alta tre piani, era insormontabile. Era l’abisso parodiato sul posto della baraonda, una minacciosa fratellanza fra tutti i rottami. La barricata di Saint-Antoine è l’ultima roccaforte degli insorti, bombardata dall’esercito in tutte le direzioni.  A un certo punto, racconta sempre Victor Hugo, si sente dalla folla una voce provenire dal più oscuro dei gruppi, un grido che si eleva e dice: Cittadini, facciamo la protesta dei cadaveri. Non si è mai saputo bene chi parlò, ma appena l’uomo qualunque decretò “la protesta dei cadaveri” si elevò un nuovo coro: 

Viva la morte! Restiamo tutti qui. 

D’altronde, fra i silenzi della barricata, negli abissi della città, che fare se non discorrere? Quando non c’è più nulla da fare, perché non intrattenersi con la morte?

2023, Francia. Tornano le barricate a “dente di drago” in Bretagna. Difficili da spostare e non si distruggono col fuoco. A Saint-Soline 2 feriti in fin di vita. Campagne e città messe sotto assedio. Lacrimogeni, gas, spray: Guerra civile. Sbirri sui quad e granate, ma a cosa serve bombardare il caos?

Potrebbe essere un'immagine raffigurante strada, albero e il seguente testo "Quest LE MANS ANGERS NANTES × RENNES STJACQUES ori 110 LORIENT UIMPER"

Barricata a “dente di drago” nelle strade della Bretagna

Ho passato diverso tempo, confuso nella mia disillusione, a cercare di capire che faccia avesse l’abisso. Quando tutto perde senso, quando il mondo smette di entusiasmare, la rottura si presenta nella sua complessità. Non esiste nulla di più contraddittorio che vivere nella tragedia. Rimanere piedi a terra in un mondo che rifiuti, e con la testa naufragare in territori che non esistono. Teorizzare l’inteorizzabile, mentre fuori c’è la morte. Allora ti viene detto di interessarti alla politica, di occupare il tuo liceo (con cautela), di studiare all’università, di trovare un lavoro che ti piace. Insomma, far di tutto purché vivere. 

Non ho ancora ben capito, però, che aspetto ha la vita, se quella di uno studente laureato o quella di una famiglia sgomberata dalla propria casa, se quella di un lavoro ben pagato o di un migrante morto in mezzo al mar Mediterraneo. 

Purché si viva, allora. Ma un grande anonimo, un cittadino senza nome, dagli abissi della città esclama: facciamo la protesta dei cadaveri. L’insurrezione degli spettri. Viva la morte, Restiamo tutti qui.

Una coppia sorseggia del buon vino mentre a due passi brucia ancora il fuoco della rivolta parigina, Macron dichiara di aver paura che ci scappi il morto. Nel mentre, Parigi è sotto assedio, le truppe si spostano verso la capitale francese e vengono lasciate un po’ più scoperte le altre città. A Bordeaux viene infiammato il municipio. La polizia picchia sempre più forte. 

Ma a che serve bombardare il caos?

Nel mentre, in Italia, sto camminando per la città la mattina della rivolta. L’essenza dello spettro consiste nell’osservarti senza venire guardato. La città è infestata, la luce fioca ricorda le ceneri di quel mondo che sta bruciando, che sta collassando dolcemente su se stesso. Continuo a camminare, è una città che non conosco bene quindi sto attento alla sua composizione, alle sue traverse, ai suoi vialoni. Fa paura avere a che fare con gli spettri, con qualcosa che non ha un corpo, ma che potrebbe apparire da un momento all’altro.

Derrida lo chiama l’effetto visiera. La testa del fantasma non si vede mai, se ne percepiscono solo gli occhi. Sentirsi osservati senza poter vedere chi ti guarda, dice Derrida, è anche la specificità del potere, la sua forza invisibile. Chi detiene il potere, d’altronde, non possiamo mai saperlo. Esso lo vediamo solo nella violenza della sua polizia, nella messinscena della sua forza. Succede, allora, che nel momento della rivolta mi sento meno in pericolo. È una strana battaglia quella che mi piomba davanti. Da un lato vedo quella spettralità prendere corpo, con caschi e manganelli, con telecamere e camionette. Dall’altra, invece, la protesta dei cadaveri. Nessuno ha un nome, un volto, una riconoscibilità. Il blocco nero, si dice. Tornato in terra per rivendicare la giustizia, come il padre di Amleto, come ogni cadavere. 

Che strana rivendicazione, mi viene allora detto, quella di non essere vivi, di essere il nulla. L’atto della negazione consiste nella sussunzione di un principio di a-nonimato, per l’appunto, essere-senza-nome. In una società che detiene il SÌ come imperativo, nulla destabilizza più di un distaccamento volontario, di una comune decisione di essere semplicemente qualcos’altro che non pretende di essere de-finito, ma semplicemente non-finito. Nel momento in cui viene assunta questa negazione, viene fatta esperienza di una possibilità, quella che emerge quando di aspettative non ve ne sono. O meglio dire, quando emerge l’inutilità di ogni aspettativa qualsiasi. 

Taxonomy of The Barricade di Wolfgang Scheppe: Riguardare le barricate  parigine del '68 con l'occhio del Leviatano

Wolfgang Scheppe, Taxonomy of the barricade, NERO.

Essere senza nome

Mi diceva un amico mio: “Sai qual è la cosa interessante? Che mi viene detto di non saper vedere la realtà quando ogni mio principio di felicità deriva proprio dall’aver compreso a pieno questa realtà e averla, sinceramente, mandata affanculo”. E così mi vengono in mente i cadaveri. E penso all’università, ai tirocini, agli stage non pagati, ai lavori che inseguiamo e che non avremo mai, a quelli che accettiamo perché vogliamo – seppur per poco – godere di qualcosa che ci faccia stare bene all’interno di questo mondo. E poi, penso alle persone a cui viene negato un tetto sopra la testa, a chi viene torturato sistematicamente da un meccanismo mortifero, fatto di intercettazioni, di misure cautelari, di intimidazioni. Penso agli uffici, alle segreterie, ai vialoni del centro pieni di turisti, alle città divenute invivibili per i prezzi che la compongono e che devo pure ringraziare chi le governa perché vuole mettermi tutto a 15 minuti di distanza (che culo!). 

Essere cadavere vuol dire accettare di non far parte di questa vita, di questo castello di carta che pretende un magico ordine che però non arriva mai. Ma farlo presuppone un entusiasmo immotivato, una felicità che prescinda da ogni logica di funzionalità, che parli direttamente di ciò che più autenticamente vogliamo: ritornare a desiderare. 

È faticoso, a tratti, vivere la contraddizione. Tranquillizzare i propri cari che se il mondo così come si presenta non alletta, non vuol dire crogiolarsi nel pessimismo, ma, per l’appunto, riconquistare una felicità, sentirla possibile. Rivendicare la morte destabilizza perché mette a contatto con un principio di imprevedibilità: quello del nulla che lascia spazio al tutto. Vuol dire, quindi, abbandonare una direzione lineare che comprime ogni via di fuga, che rende l’esistente prevedibile.  

La diserzione, il rifiuto, le pratiche di lotta, fanno esperienza di questo principio di felicità legato alla negazione. Solo attraverso questa diventa pensabile l’impensabile, si torna realmente a investire sul desiderio. Scrive il Comitato Invisibile: solo nel momento della rivolta, quando le città divengono realmente proprie e abitate dai corpi che la compongono, “in metropolitana non ci sarà più quella coltre di imbarazzo che normalmente impedisce i gesti dei passeggeri. Gli sconosciuti, anziché urtarsi, inizieranno a parlarsi […]. In un improvviso momento di lucidità, un manager farà fuori in piena riunione una manciata di colleghi, […] il primo ministro coi suoi appelli alla calma avrà l’aria di essere così solo”. 

E così l’abisso, dalla paura del suo arrivo all’esortazione della sua venuta. Il capitalismo di crisi, difatti, pone sempre l’eventualità dell’abisso pur di legittimare qualsivoglia porcheria da attuare per mantenere in piedi il circo. Un circo ben noto, fatto di guerra e carovita, di Peroni a 3 euro e piazze della movida militarizzate, di SÌ imperanti e spettri da scongiurare. Che siano ravers o anarchici, froci o troie, migranti o poveri, la logica è la stessa: o ti posso assimilare nel mio castello di carta o sei nemico da isolare.

A morte i club!

Vivere insieme nel cuore del deserto, uniti dalla comune decisione a non riconciliarsi con esso questa è la prova, questa è la luce. (Tiqqun)

Nella festa viene fatta esperienza di questo desiderio, del piacere coniugato ad esso, nella pura e semplice irriducibilità della situazione singolare. Ciò che ha un senso nella festa, non appartiene al rigido mondo dei dispositivi binari che compongono la società all’indomani della festa stessa. Due persone fra loro introvabili nella luce del giorno, si riscoprono grandi amici sotto effetti psichedelici. La maggior parte dei corpi che ballando si urtano, non provano imbarazzo ma potenzialmente finiscono a letto insieme. Il mondo della notte è l’inteorizzabile per antonomasia perché non necessita di essere definito, ma solamente di essere vissuto. Cadaveri che ballano, alle sei di mattina, sotto la sottomissione cieca a un segreto: nulla di quello che viene fatto appartiene alla sfera della logica, della verità, che appartiene invece al mondo ordinario, alla quotidianità del funzionale.

Provo grande ostilità per chi, chiamando in causa il grande mito berlinese, insiste sulla necessità di inserire nel paradigma della cultura – dominante – l’esperienza della festa. Viene detto, facciamo diventare istituzione museale i club! Come Berlino! Valorizziamo l’economia della notte! Riconosceteci!

Ora come non mai, bisogna rompere con la logica del riconoscimento. Bisogna guardare il mostro negli occhi e assumere la consapevolezza che questa società non contempla ciò che le sta fuori, e se lo fa, è solo una mera operazione di assimilazione. Assimilare per controllare, per rendere prevedibile. Per far sì che ciò che possa intaccare l’impasse dell’ordinario venga relegato a quattro mura, venga circoscritto in quella dimensione. E via col percorso di legittimazione, di narrazioni smielate che parlano di contaminazione di corpi e di economia della notte, pur di non accettare di vivere qualcosa che non può, ontologicamente, essere accettato dal mondo esterno. 

Questi non vogliono essere brontolii risentiti rispetto a tutto quello che si muove al di fuori. Non vuole neanche essere un giudizio sulla purezza delle nostre intenzioni. Ma vuole essere un grido di esaltazione per l’entusiasmo immotivato, quello che non necessita di artisticherie varie per legittimare la volontà di divertirsi, ma che vuole essere un allegro invito alla negazione. 

Noi, nei momenti di maggior felicità, non vi apparteniamo. Che sia nella rivolta, nella festa spontanea, nella co-spirazione, viene fatta esperienza di una possibilità, quella della rottura con ogni astrazione. Che sia la legge, che sia il potere o la sua polizia. Il grido diviene allora: Viva la morte! Restiamo tutti qui.

Perché solo quando ti hanno levato tutto, allora tutto diviene pensabile, diviene desiderabile. 

Tutto purché non si viva così, tutto purché il nulla che viviamo non sia più motore di angoscia, ma entusiasmo per l’imprevedibilità dell’avvenire. 

Purchè non si viva

La diserzione è l’invito a cogliere la felicità nel distacco, nella rottura con il paradigma del riconoscimento, dell’inserimento funzionale nella finzione della macchina sociale. Vuol dire rovesciare il dispositivo della fragilità, dell’insicurezza che si dipana nelle menti collettive, per cui smette di divenire necessario una società a cui aggrapparsi ma torna ad essere imprescindibile il contatto diretto con il corpo dell’altro. 

Nell’erotismo, nella cura, nel momento della rivolta.

Mi viene detto, arrivati fino a questo punto, che senso ha provare a dare una declinazione teorica a questo sentimento. Vengo guardato con tenerezza, perché nella mia giovane età posso permettermi di dire tutto, anche di negare la vita. Allora mi dico, fra me e me, che posso anche accettare di non dare risposte. Magari a 35 anni finirò anche io al Berghain, con un contratto a tempo indeterminato per qualche lavoretto che mi sono appagato di accettare e una famigliola che mi aspetta nella casa che finirò di pagare treant’anni dopo. E allora accetterò di aver detto solo parole al vento. Ma ora, mai come ora, ritengo necessario ritrovare un entusiasmo, di partire dalla disperazione non per bloccarsi nella paralisi, ma per trovare vie di fuga che ci appartengono. 

Rompere con il mito della realizzazione personale e iniziare a ragionare insieme sulle vie di fuga, sull’allontanamento, sulla protesta dei cadaveri. Sulla tranquilla impermanenza di essere-senza-nome, di non avere obiettivi futili da perseguire, con le ansie e problematicità mentali connesse, ma di sperimentare nuove forme di distaccamento, di ri-congiunzione. Tutto purché non si viva così, tutto purché il nulla che viviamo non sia più motore di angoscia, ma entusiasmo per l’imprevedibilità dell’avvenire. 

Concludo sempre con le parole del Comitato invisibile:

“Molte sono le persone che hanno scelto di saltare giù dal treno, eppure restano sulla pedana. Restano perché si sentono legate da tante cose. Si sentono bloccate perché hanno fatto la scelta, ma gli manca la decisione. Perché è la decisione che traccia nel presente la maniera e la possibilità di agire, di fare un salto che non sia nel vuoto. Questa decisione è quella di disertare, quella di uscire dai ranghi, quella di organizzarsi, quella di fare secessione, fosse anche impercettibilmente, ma, in ogni caso, adesso. L’epoca appartiene agli ostinati”.

Che sia parlare con uno sconosciuto in metropolitana, ritrovarsi nelle barricate, rompere i dispositivi che ci limitano il piacere, rubare ai supermercati. Ostiniamoci: d’altronde, che fare nell’abisso se non discorrere?