La mia vita fuori di me

«Molti mi conoscono, ma quella persona non sono io»: dalla «persona» al «profilo»: come siamo finiti nel panopticon del neuropotere?

Fino a pochi anni fa poteva accadere soltanto a persone con una certa fama di essere riconosciute per ciò che non erano.  

La scissione si rifletteva, in questi personaggi, nella oscillante considerazione tra la propria immagine pubblica e quella privata che gli veniva riflessa nei rapporti più prossimi. Le persone comuni, invece, agivano le proprie relazioni sociali soltanto nella prossimità del faccia a faccia, controllando attraverso il proprio corpo e le parole, l’“immagine di sé” che volevano mettere in scena, come su un palcoscenico.

Oggi quella condizione di esposizione delle proprie memorie verso “un pubblico” è comune, regalando anche a coloro che conducevano vite quasi anonime la schiavitù di poter essere continuamente sotto gli occhi degli “altri”.  Il Panopticon, da strumento disciplinare di controllo diventa ambizione narcisistica di mettere in mostra la propria vita per farsi ammirare. La vita privata si riduce e si trasforma in tracce pubblicate da dover gestire su molteplici piani contemporaneamente.

Solo nella seconda metà del Novecento l’accesso alla possibilità di fotografare per una massa di nuovi consumatori ha permesso di ritrarre momenti di vita quotidiana delle persone comuni.

L’avvento degli smartphone con camera integrata ha portato all’aumento esponenziale del volume di produzione e scambio di queste memorie visive e audiovisuali: 

La macchina fotografica ha fatto da stampella alla memoria biologica, una funzione che ora è appannaggio soprattutto della memoria computerizzata. Se c’è un modo in cui la cultura digitale trasforma l’essere umano, questo avviene essenzialmente nella misura in cui condiziona le nostre relazioni con la memoria, facendoci credere che la memoria equivalga al semplice accesso alle informazioni o a una forma di disponibilità dei dati. L’esperienza del passato però dipende sempre dalla prospettiva dalla quale è interpretata, cioè da un’interfaccia che non è mai neutra e nemmeno innocente.” (Fontcuberta, La furia delle immagini)

Queste memorie esterne, condivise attraverso la rete con le cerchie sociali di appartenenza (il partner, la famiglia, gli amici, i colleghi, i followers, l’intero web…) definiscono alcuni aspetti selezionati e a volte “ritoccati” della propria immagine, rendendola pubblica. Paolo Vignola nella sua introduzione a Prendersi cura, testo di Bernard Stiegler del 2008, spiega cosa sono per il filosofo queste ritenzioni terziarie: “Per Husserl […], se le ritenzioni primarie sono ciò che la coscienza trattiene nel presente del flusso percettivo, mentre le ritenzioni secondarie sono selezioni delle ritenzioni primarie precedenti, diventate ricordi, le ritenzioni terziarie, concepite da Stiegler, sono esterne alla coscienza. Esse sono infatti sedimentazioni della memoria, spazializzata in supporti materiali (hypomnemata, dalla selce scheggiata al libro, dalle fotografie alla scrittura digitale, ecc..) ed hanno il potere di condizionare la selezione e la formazione delle ritenzioni secondarie, le quali a loro volta sovradeterminano le ritenzioni primarie, dal momento che i ricordi e la memoria influiscono direttamente sulla selezione della realtà percepibile.”

Dai ricordi all’individuo

Il mosaico di memorie esternalizzate concorre a formare una autocoscienza che a fatica possiamo ancora chiamare “interiorità”, visto che risiede principalmente nel flusso di comunicazione che produciamo e che si sedimenta in memorie oggettivate. Non ha quasi più senso oggi affermare  di agire liberamente, in autonomia, seguendo i propri desideri e volontà individuali, se i presupposti di un agire morale sembrano scomparire per la difficoltà di riconoscere un’effettiva autonomia all’individuo nella percezione-descrizione della propria identità. Come dire: “io sono libero! Ma chi sono io?”:

Ogni società riproduce la propria cultura – le sue norme, i suoi presupposti fondamentali, i suoi modi di organizzazione dell’esperienza – nell’individuo, nella forma della personalità. Come ha detto Durkheim, la personalità è l’individuo socializzato. Il processo di socializzazione, portato avanti dalla famiglia e in un secondo momento dalla scuola e dalle altre agenzie che intervengono nella formazione del carattere, modifica la natura umana per renderla conforme alle norme sociali prevalenti.” (Lasch, La cultura del narcisismo)

In un precedente articolo avevo già osservato come i processi di individuazione siano sempre storicamente determinati, attuandosi biograficamente nel contesto delle relazioni sociali esperite, giungendo a costituire entità individuali dinamiche e molteplici. Quando cerchiamo di capire chi siamo, quali sono le nostre volontà e desideri, ci scontriamo con i limiti della ragione che forse, in questo ambito, può solo cercare di unificare e giustificare, nascondendo l’inconscio desiderante e contraddittorio, un dato di fatto pre-individuale. Miguel Benasayag, in unìaccezione piuttosto particolare, lo chiama destino: “Quest’ultimo inteso non come fatalità, ma come insieme di tropismi, di affinità elettive ben territorializzate che configurano ‘l’essere-nel-mondo’ di una persona” che può rimanere inaccessibile senza un adeguato lavoro del terapeuta. Lo psichiatra e psicoterapeuta Giovanni Jervis, ne Il mito dell’interiorità, fa notare infatti che tra il proprio sé e la descrizione che ce ne costruiamo può esserci una notevole discrepanza: “Quest’autocoscienza più propriamente riflessiva, introspettiva, è soprattutto consapevolezza o, invece, è soprattutto narrazione, o addirittura discorso convenzionale? A mano a mano si rafforzò il dubbio che sia soprattutto narrazione. Io credo oggi che l’autocoscienza introspettiva sia una costruzione, impastata di miti e di autoinganni interessati.” 

Dalla seconda metà del Novecento, influenzati dalla psicoanalisi, alcuni filosofi si sono impegnati a decostruire quella rappresentazione dell’individuo che ci proveniva dall’illuminismo e che lo voleva autonomo, autocosciente, razionale, etico e motivato dalla ricerca del piacere e della felicità.

Gilbert Simondon in Individuazione psichica e collettiva, scriveva “occorre un rovesciamento di prospettiva nella ricerca del principio di individuazione; va considerata primaria l’operazione d’individuazione con cui l’individuo comincia ad esistere e di cui riflette nei suoi caratteri lo svolgimento, il regime, infine le modalità. L’individuo figurerebbe allora, come una realtà relativa, come una fase dell’essere che presuppone una realtà preindividuale”. Lo studio delle condizioni che permettono l’individuazione, e che oggi incorporano dispositivi e piattaforme, ci permette di constatare quanto di questo processo sia predeterminato e non una scelta dell’individuo. L’ambiente familiare in cui impariamo a distinguerci dal genitore è fortemente strutturato da forme di cattura dell’attenzione, sia del genitore stesso, assorbito nelle proprie preoccupazioni, nel lavoro, nella dipendenza da flussi di comunicazione, nelle frustrazioni che comporta la condizione genitoriale con le sue rinnovate problematicità, sia dalla cattura dell’attenzione del bambino, che già dai primi mesi viene esposto a stimoli provenienti dagli schermi, con suoni, musiche, colori che nulla hanno a che vedere con lo sguardo amorevole dei caregiver, anzi ne sono spesso la sostituzione. Mano a mano che crescono, i bambini passano sempre più tempo in compagnia di stimoli audiovisuali e immersi nei flussi di comunicazione mediata dalle piattaforme.

Con l’evoluzione tecnica cambia la natura di questi oggetti che per secoli hanno avuto la forma di edifici, arredi, dipinti, statue, manoscritti, e poi di libri stampati, fotografie, oggetti di design fino ad arrivare oggi a essere un flusso continuo di informazione de-materializzata.

La teoria dell’individuazione di Simondon, elaborata nel 1964, quando l’informatica era ancora molto lontana dalle masse, è stata sviluppata più recentemente da Bernard Stiegler per definire il passaggio dalle psicotecniche del libro e dell’educazione scolastica alle psicotecnologie della televisione e delle piattaforme, come forme individuanti di captazione dell’attenzione. Partecipando all’idea simondoniana che il processo di individuazione è sempre al tempo stesso singolare, per l’individuo, e collettivo perché avviene all’interno di una determinata problematica vitale, trans-individuale, in quanto si tratta di “partire dalla necessità di pensare gli esseri dal punto di vista della realtà delle relazioni che li costituiscono”, Stiegler prosegue  l’opera del suo mentore: “L’individuazione collettiva è costituita da ritenzioni collettive, comuni a coloro che si co-individuano psichicamente solo condividendo un fondo ritenzionale comune. Questo fondo ritenzionale, che Simondon chiama un milieu preindividuale, nel quale si opera una transindividuazione, è formato dagli oggetti che sono anche i ricordi oggettivati di una memoria epifilogenetica, ossia tecnica.” 

Con l’evoluzione tecnica cambia la natura di questi oggetti che per secoli hanno avuto la forma di edifici, arredi, dipinti, statue, manoscritti, e poi di libri stampati, fotografie, oggetti di design fino ad arrivare oggi a essere un flusso continuo di informazione de-materializzata, che talvolta rappresenta e riassembla frammenti di quegli oggetti dei secoli passati. Per Bensayag, “l’occidente e il suo modello di uomo ‘moderno’ sono l’esito di una storia di coevoluzione: quella di fatti poco analizzati come l’incidenza culturale e psicologica, ma anche fisiologica, della lettura silenziosa, che comincia a fondare i ‘giardini interiori’ dell’individuo moderno, o l’addomesticamento del corpo verso un autentico oblio di quest’ultimo […]. L’individuo postmoderno, dalla fine del XX secolo […] si vuole trasparente e panottico. Oggi il ‘peccato’ non consiste mai nel contenuto del segreto ma nell’avere segreti.” 

Se durante la modernità ci si individuava collettivamente attraverso una scelta di letture formative, i libri sacri, i classici della letteratura e dei filoni ben definibili di pensiero, individuati nelle correnti artistiche e filosofiche che possiamo riassumere nei programmi scolastici della scuola secondaria, oggi l’individuazione avviene maggiormente nella scelta dei media con l’inevitabile conseguenza di vedere il capitalismo di piattaforma appropriarsi e adattare ai propri scopi questo repertorio di ritenzioni terziarie.

Secondo il censimento del 2015 in Italia, solo il 35% degli abitanti uomini e il 49% delle donne aveva letto almeno un libro nell’anno precedente all’intervista. Le percentuali sono più alte nella fascia d’età 11-17 anni, sicuramente a causa dell’obbligo scolastico. Le percentuali dei lettori sono in calo dal 2010: potrebbe essere una casualità che questo sia l’anno del boom nella diffusione degli smartphone e delle piattaforme, tra cui Facebook, ma il dubbio di una corrispondenza è lecito.

Vorrei quindi sottolineare come il dispositivo psicotecnico di individuazione preminente nell’età moderna, il libro, non si è ancora universalmente diffuso quando viene soppiantato dal dispositivo psicotecnologico del device come registratore e trasmettitore di brevi testi, audio, immagini e filmati.  Dal report “Digital 2021”, stilato da We Are Social, emerge che in 97% degli italiani possiede uno smartphone. Siamo connessi per oltre 6 ore al giorno a internet, e passiamo quasi due ore sui social, il 98% di noi lo fa da dispositivi mobili. Nel mondo a crescere è stato soprattutto il numero di abbonamenti di tipo mobile, portando il totale a 6,3 miliardi.   

Le molte facce dell’interiorità

Il processo di individuazione avviene per tutti, durante lo sviluppo infantile, inizialmente attraverso la prossemica, i gesti, gli oggetti e il linguaggio verbale; poi anche tramite il linguaggio scritto e sempre di più attraverso le immagini, assunte come flusso comunicativo alternativo alla parola. In adolescenza si è più portati a confrontarsi sul piano dell’immagine con gli altri e a temerne il giudizio perché a partire da quello “specchio” che sono le opinioni altrui si costruisce il proprio sé riflesso, ovvero l’immagine di se stessi che ne risulta.

La persona adulta riuscirà poi a integrare le varie immagini del sé in un’identità abbastanza solida e costante da garantire un certo benessere psichico. Questo lavoro, però, non può essere fatto dall’individuo da solo. Le tracce che vengono prodotte nel corso della vita, siano video, foto, testi, ambienti (pensiamo all’arredamento di una camera o di una casa), emergono da una dimensione individuale che si fonde nella dimensione sociale offerta dall’epoca e dal luogo. Ogni oggetto materiale (medium) utilizzato nella comunicazione definisce la relazione fra l’emittente e il suo pubblico nella società, costituendone il messaggio

Affermando che l’uso del medium non conta, McLuhan intendeva indicare, con il massimo di carica provocatoria, che gli idioti tecnologici non riuscivano a capire quanto ampio pesante e determinato fosse l’impatto dei diversi media nel condizionare la concezione del mondo e l’organizzazione dei rapporti tra gli uomini già a monte dei messaggi – tradizionalmente intesi – che essi potevano veicolare.” (Giovanni Cesareo in McLuhan, Gli strumenti del comunicare)

La pluralità degli  ambienti comunicativi attualmente disponibili e la loro stratificazione contestuale ci pongono di fronte a una complessità inedita, difficilmente gestibile.  La ricerca del riconoscimento porta chi desidera appartenere a molti ambiti a separare i flussi di comunicazione, ad adeguarsi ai vari contesti e ai media utilizzati mostrando in ciascuno le proprie “competenze relazionali” e nascondendo quelle caratteristiche non adeguate o addirittura stigmatizzanti.  L’esposizione di status e comportamenti incoerenti con la situazione sociale vissuta provoca occasioni di ilarità e disapprovazione nei gruppi, in quanto viene riconosciuta come provocazione nei confronti dell’autorità o una “alienazione dal raggruppamento”, mentre nei casi più estremi viene definita come una forma del disagio psichiatrico.

Perseguendo l’obiettivo di rispecchiamento delle aspettative, la persona si impegnerà ad acquisire, nei vari ambiti, esperienze e saperi da mostrare nelle cerchie sociali sotto forma di ritenzioni terziarie. Anticamente poteva essere un linguaggio, un abito, un’arma o altro segno di status, oggi molto spesso è una foto che ci ritrae nell’ambiente in cui ci riconosciamo o a cui vorremmo appartenere:

In questo contesto, il fenomeno selfie costituisce un sintomo significativo, che dichiara la supremazia del narcisismo sul riconoscimento dell’altro: è il trionfo dell’ego sull’eros. Il selfie instaura una nuova categoria d’immagini […] Ma la sua invadente irruzione fra le pratiche postfotografiche va lettta nel senso di una gestione dell’impatto che vogliamo produrre sul prossimo.” (Fontcuberta)

Oggi è molto comune essere più impegnati a fotografare/riprendere il momento che a viverlo assorbendo il flusso di percezione nella memoria.

Nei social network le rappresentazioni materiali della nostra memoria, di ciò che siamo e che ci piace, diventano parte strutturante della nostra autocoscienza, guida per le scelte di vita e per il flusso percettivo che ne riceviamo. La stessa situazione può essere vissuta e ricordata in modo totalmente differente in base allo stato d’animo e a dove si concentra l’attenzione in quel momento. Oggi è molto comune essere più impegnati a fotografare/riprendere il momento che a viverlo assorbendo il flusso di percezione nella memoria. Ne risulta una modalità di vita, pedissequamente documentata, in cui “la finalità dell’essere ‘sempre più se stessi’, di essere colmati individualmente e collettivamente, si raggiunge aspirando sempre al massimo. L’onnipresenza di fotocamere, schermi e immagini cresce al ritmo di questa smania martellante del sempre di più.” (Forntcuberta).

Ma cos’é questo sempre di più da raggiungere? Potrebbe sembrare la spinta alla realizzazione completa dei propri desideri, ma, come facevano notare Benasayag e Schmit ne L’epoca delle passioni tristi, “la nostra società non fa l’apologia del desiderio, fa piuttosto l’apologia delle voglie, che sono un’ombra impoverita del desiderio, al massimo sono desideri formattati e normalizzati. Come dice Guy Debord in La società dello spettacolo, se le persone non trovano quello che desiderano si accontentano di desiderare quello che trovano.” L’individuo modulare, prodotto dalla formazione per competenze, ricerca sul libero mercato della vita le esperienze che aumentino, ai suoi occhi e a quelli dell’ambiente sociale in cui vive, il suo valore in quanto capitale umano. Le ritenzioni terziarie diventano la prova, per il mondo e per la persona stessa, della conquista di quel capitale immateriale e valore a loro volta, nella forma della visibilità.

Già nei tardi anni Settanta del Novecento, Christopher Lasch osservava la tendenza della società statunitense, quella più integrata nel capitalismo, a incanalare nel self-help e in altre mode di cura del sé individuale le tendenze narcisistiche, in aumento dopo la crisi della politica. Oggi il narcisismo sembra esploso diffusamente nelle forme onnipresenti e globali dei social network, dei selfie, della retorica compiaciuta della meritocrazia e del successo, registrando un’incidenza molto più alta che in passato delle sue manifestazioni patologiche:

Il narcisismo ci costringe a fare i conti con domande a cui non vorremmo rispondere: valgo qualcosa? Quanto conta per me il giudizio degli altri? Ho bisogno di sentirmi importante? Sono molto invidioso? Uso gli altri per i miei scopi? Li disprezzo, li seduco, li temo? Il mio altruismo è al servizio dell’autostima? Combattendo fin da piccoli con queste domande, spudoratamente e teneramente legate allo sguardo amoroso che (non) ci ha riconosciuto, da adulti possiamo diventare grandiosi, arroganti e privi di empatia. Ma anche timidi, timorosi del giudizio, vulnerabili alla critica, vergognosi di ciò che siamo e invidiosi di ciò che non abbiamo.” (Lingiardi, Arcipelago N).

La libertà e l’ambiente nella situazione

Vorrei qui riportare l’attenzione sull’interpretazione degli ambienti e della tecnologia come media, dispositivi socio-tecnici di comunicazione che predispongono e facilitano alcune forme della relazione, rendendone impossibili o difficoltose altre. In questo senso Deleuze poteva affermare una corrispondenza tra forme sociali e dispositivi macchinici, in quanto concatenamenti, perché McLuhan li aveva già accomunati nella sua concezione di medium, descrivendo, ad esempio, la ferrovia. Parallelamente la scuola esistenzialista ha posto l’attenzione sulla situazione come insieme di caratteristiche ambientali, storiche, sociali, personali, in cui si dispiega la potenza dell’individuo: “come rapporto individuato e concreto con altri enti, l’esistenza si trova sempre in una ‛situazione’ altrettanto individuata e concreta che in qualche misura la condiziona”.

Un esempio. L’ambiente di una classe scolastica organizzata nella forma tradizionale, è un medium. Questo ambiente è esplicitamente un dispositivo disciplinare che prevede una forma della relazione deducibile dall’organizzazione dello spazio, oltre che dai ruoli di chi lo abiterà. Altro esempio: la televisione. Finestra da un punto ai molti: per sua natura è conformizzazione, massificante. Per contro, le applicazioni di messaggistica istantanea permettono una comunicazione punto punto e aggregata per gruppi, dal punto ai molti in tutte le direzioni. Il design è orizzontale, l’organizzazione che ne deriva è collaborativa. Ultimo esempio di medium, il dispositivo social network: rappresenta una vetrina panottica in cui raccogliere followers e curare il marketing personale. 

La giovanissima cantautrice e rapper Madame in un’intervista ha dichiarato di aver abbandonato gran parte dei social perché “i social non sono per le persone sensibili”. Molto del disagio contemporaneo sembra derivare proprio dall’impotenza e dalla disgregazione, le “passioni tristi” che animano tutti coloro che non si sentono appagati dalla ricerca del benessere, nell’eterno presente del realismo capitalista. Nel suo ultimo lavoro E: La congiunzione, Franco “Bifo” Berardi affronta questi stessi temi e in un passo afferma: “La fonte principale della patologia è la competizione nell’area delle relazioni interpersonali, e i sintomi individuali di questa epidemia sono la continua mobilitazione dell’attenzione, la riduzione del tempo disponibile per il piacere, e di conseguenza la solitudine, la miseria esistenziale, l’ansia, il panico, e infine la depressione.”

Dallo psicopotere al neuropotere

Nel 2008 Bernard Stiegler parlava di “psicopotere”. Nel 2014, Byung-Chul Han riprendeva gli stessi concetti per chiarire come il potere non fosse più intento nell’attuazione di una società disciplinare, ma si fosse appropriato della seduzione e del desiderio, con le tecniche del marketing. L’individuo oggi aderisce liberamente alle esigenze del mercato, attraverso le tecniche del sé di cui aveva già parlato Foucault anni prima. Restiamo però ancora nel campo del desiderio e delle scelte più o meno coscienti. Con l’attuazione compiuta del ribaltamento della persona della modernità nel profilo ipermoderno, si entra nell’ambito di quello che Stiegler ha poi definito “neuropotere”. In una delle sue ultime interviste, il filosofo chiarisce questo concetto:

Lo ‘psicopotere’ si riferisce all’epoca delle industrie dei programmi audiovisivi. […] La grande differenza rispetto al modello delle industrie culturali televisive e radiofoniche è che non viene venduta audience di massa ma comportamenti individualmente controllati. Quello che hai definito ‘microtargeting’ è possibile perché si sono appropriati di ‘ritenzioni’, ovvero quello che trattengo nella mia memoria di tutte le attività passate, e delle ‘protensioni’, cioè le anticipazioni sull’avvenire, quello che vorrei fare, etc. […] Le tecnologie di grammatizzazione digitale investono perciò una sfera che chiamo neuropotere perché agiscono direttamente sul nostro cervello, cioè influenzano le ritenzioni psichiche, trasformandole e calcolandole, e in questo modo quello che provocano è una vera distruzione della mia individuazione psichica, ovvero della mia singolarità.” 

La trasformazione degli esseri umani in “risorse umane” è una delle principali missioni delle agenzie educative e di formazione, a partire dalla scuola, che non tende più a disciplinare, bensì a mettere a valore le potenzialità delle nuove generazioni

“L’umanità sembra divenire il prodotto del processo automatico che gli ha dato origine. Se l’individuazione è al contempo biologica, psichica e sociale con la costituzione di un io, di un noi e di un apparato tecnico, o psicotecnico, che lega l’io al noi, questo ultimo aspetto va a sovradeterminare le condizioni dell’individuazione. A suo tempo è stata la mediazione psicotecnica della stampa che ha riconfigurato i rapporti fra l’io e il noi, oggi sono i media digitali che attraverso l’individualismo di massa impediscono l’individuazione di massa.”(Stiegler-Petit, Pharmacologie du Front National). Con vocabolario marxista Christian Marazzi, economista vicino al neo-operaismo italiano, sembra arrivare alle medesime conclusioni, come rileva Matteo Pasquinelli

“Dal punto di vista del capitale fisso, continua Marazzi, la conoscenza ha oggi un ruolo produttivo imponente, come il caso delle grandi compagnie di software sta a dimostrare. Rimpiazzando lavoro vivo con lavoro morto, ovvero con nuovi apparati macchinici ‘immateriali’, la conoscenza è diventata una sorta di macchina cognitiva. In questa nuova composizione organica del capitale, continua Marazzi, non è solo la conoscenza collettiva a diventare capitale fisso, ma il corpo stesso dell’uomo. In questo senso, Marazzi descrive l’emergere di un modello antropogenetico di produzione che Robert Boyer chiama produzione dell’uomo attraverso l’uomo (richiamando la più famosa espressione ‘produzione di merci a mezzo di merci’”. 

“Questo nuovo modo di produzione è notoriamente, e più prosaicamente, il settore dei servizi, il terziario, tutto ciò che ha a che fare con le soft industries come educazione, sanità, nuovi media e industrie culturali. All’interno di questo biocapitalismo o ‘fabbrica del vivente’, alla fine Marazzi rende liquida la nozione di macchina e introduce il vivente come capitale fisso.”

Questo vivente diviene macchina produttiva, processore di informazioni, una “risorsa”, un mezzo privo di soggettività, libertà, desiderio proprio. Il vivente si trova schiavo senza coscienza della propria schiavitù. Una condizione in parte reale e, fortunatamente, in parte non attuata, con una gradazione variabile nelle mille sfaccettature in cui ogni essere umano e vivente si manifesta.

La trasformazione degli esseri umani in “risorse umane” è una delle principali missioni delle agenzie educative e di formazione, a partire dalla scuola, che non tende più a disciplinare, bensì a mettere a valore le potenzialità delle nuove generazioni. Cristopher Lasch, già nella metà degli anni ’80 scriveva: “la scuola, con le altre istituzioni del complesso tutelare, insieme riflette e contribuisce a creare lo spostamento dalle sanzioni autoritarie alla sorveglianza e alla manipolazione psicologica (la ridefinizione insomma dell’autorità politica in termini terapeutici), dando origine a una classe professionale e manageriale che governa la società, non mantenendo in vita gli standard morali autoritari, ma definendo un comportamento normale e invocando contro la devianza sanzioni psichiatriche, che vengono fatte passare per non punitive.” 

L’individuo “normalizzato” può essere così messo interamente, o in gran parte, a valore come “capitale fisso” immateriale che si affitta sul mercato.  L’individuo non vende più la sua forza lavoro a ore ma l’intero suo essere, l’intera vita, in quella che André Gorz chiama una mobilitazione totale.

L’eccedenza rispetto al prodotto calcolabile

Ogni persona rientra, per alcuni aspetti e comportamenti, in categorie misurabili.  Questi dati compongono un “profilo”, un modello numerico discreto che ci distingue da chiunque altro ma ci fa rientrare in fasce di quantità contigue.

Già dal secolo scorso il modello matematizzato della società, soprattutto dei suoi aspetti economici, si sostituisce come oggetto di indagine alla società stessa e alle persone intese come singolarità non misurabili. Lo studio quantitativo, che attualmente equivale a dire scientifico, di comportamenti sociali è attualmente la grande sfida dell’intelligenza artificiale. Questa conoscenza che ne deriva dovrebbe essere di supporto ai decisori politici, che probabilmente ne vengono abbagliati come da una nuova e indiscussa verità. Di fronte al diluvio di dati prodotti giornalmente si tende a dimenticare che questi dati riflettono solo quei fenomeni che il dispositivo sociotecnico, e spesso esclusivamente economico, è in grado e ha scelto di registrare e immagazzinare. Si tende anche a nascondere il lavoro interpretativo, politico, a volte poco consapevole e arbitrario, di chi fa data science, lavoro quasi sempre commissionato a istituzioni private, con i conflitti di interessi che ne possono derivare.

L’intelligenza artificiale può confrontare enormi volumi di dati numerici ma non può interpretare alcunché.  “Se possiamo assimilare gli algoritmi a una serie di calcoli, è chiaro che la possibilità di comprendere non è mai il prodotto o il frutto di una serie di algoritmi, bensì la manifestazione di un’altra funzione di un cervello integrato” (Benasayag). Ci sono alcune caratteristiche tipicamente umane, culturali e fisiologiche, che eccedono la descrivibilità quantitativa e la razionalità logico-matematica.  Questi sono probabilmente gli aspetti delle nostre vite che più valgono la pena di essere vissuti e che, ovviamente, un sistema sociotecnologico di captazione ed elaborazione dei dati non incoraggia. La comprensione profonda, l’emozione di un’esperienza, la gioia e il dolore, la realizzazione di un progetto di vita, l’amore che si può provare e vivere con gli altri, sono alcuni esempi di stati esistenziali che non possono essere tradotti in dati e che, pur attraversando talvolta il flusso digitale di informazione, non ne possono venire catturati. Risulta anche dubbio che questi stati possano essere vissuti in una dimensione che non sia quella della relazione diretta fra i corpi, se non altro con il proprio corpo: “Ciò significa che tutto quanto costituisce il fondamento stesso della vita nel caso del cervello, tutto quanto è necessario per il suo funzionamento, viene eclissato in questo monopolio dell’informazione codificata” (Benasayag).

Dal momento in cui l’essere umano incorpora nelle sue appendici tecnologiche, di senso, di memoria ed elaborazione molte funzioni sociali e cognitive, tra cui la propria individuazione, si ritrova inevitabilmente ridotto nell’espressione delle potenzialità del pensiero eccedente l’aspetto logico-formale, quindi valoriale, critico, pre-simbolico, emozionale, desiderante. 

Non si tratta di discutere le opportunità delle soluzioni tecniche, ma il dispositivo sociale e psichico sotteso alle politiche industriali.

Apocalisse degli intellettuali

Viviamo certamente un periodo di transizione epocale, ma in fondo venti o trenta anni sono ben poco nella storia umana, e noi nati in una epoca pre-internet, pre-smartphone, percepiamo questi cambiamenti come una crisi dell’umanità nel suo complesso.

Ora mi sembra piuttosto banale osservare come l’aumento esponenziale dell’informazione prodotta globalmente vada a discapito della sua qualità media ma porti un allargamento della sua distribuzione. L’analfabetismo è minoritario nel mondo e l’accesso alle opere dell’ingegno ha un costo sempre minore. Quello che manca è l’attenzione, la motivazione, l’interesse delle masse per il sapere accumulato dalle generazioni precedenti, e questa mancanza di interesse è il risultato di campagne di marketing globali che mirano a catturare l’attenzione sul consumo.

I monopolisti del mercato pubblicitario digitale indirizzano, attraverso gli algoritmi, i flussi comunicativi verso comportamenti di acquisto, ma la propensione al consumo deve essere già presente negli utenti come bisogno individuale. Il consumatore, che pensa di poter riempire i suoi vuoti comprando oggetti ed esperienze, è in antitesi rispetto al ruolo di cittadinanza in quanto azione collettivamente responsabile.

È questo un segno dell’apocalisse? Per gli intellettuali novecenteschi, sì. Una rivoluzione si è attuata stravolgendo i monopoli del sapere e della cultura, in favore di altri “che producono una nuova umanità” (Baricco), senza una direzione pianificata. Ora, dopo trent’anni di esistenza di internet, sembra che l’Europa abbia deciso di intervenire in modo centralizzato per progettare lo sviluppo di questo settore strategico, sottraendone l’egemonia alle Big Tech, soprattutto statunitensi, con il progetto Gaia-X. Con questo cloud comune distribuito, assieme allo sviluppo dell’edge computing e del 5G a cui verranno destinati ingenti fondi anche dal PNRR del 2021 nei prossimi anni, non sembra si voglia mettere in discussione il capitalismo di piattaforma ma, semplicemente, assumere il controllo politico sulle infrastrutture, per tutelare i mercati interni e per raggiungere l’autonomia strategico-militare.  L’intervento del settore pubblico, a direzione politica, nel campo delle infrastrutture tecnologiche appare come un percorso obbligato. Il luogo del confronto e del conflitto è nel saper affrontare questi temi con una visione che coinvolga il piano dei valori e della cultura nel suo complesso. Non si tratta di discutere le opportunità delle soluzioni tecniche, ma il dispositivo sociale e psichico sotteso alle politiche industriali. 

Per la sua pervasività,  il “realismo capitalista” nasconde la conquista di tutti i mercati potenziali dietro la presunta “natura” dell’individualismo competitivo, dell’utilitarismo dei comportamenti, del pensiero scientifico come misurabilità dei fenomeni, della felicità in quanto benessere e consumo, della diversità come scelta di mercato.

In ogni parte del mondo, soprattutto le generazioni più giovani tendono ad assomigliarsi nei comportamenti, nei percorsi di individuazione, nello stile di vita e di consumo, pur se con una estrema differenziazione di modelli di riferimento.  Nella sua indagine sugli adolescenti statunitensi, tradotta in italiano con il titolo Iperconnessi, Jean M. Twenge ci descrive una condizione che accomuna la i-Gen di tutto il mondo. Praticamente non esiste un bambino o un adolescente  che non sia connesso a internet o non fruisca di contenuti prodotti per un mercato globale. Allo stesso tempo, in tutto il mondo sperimentiamo la sensazione di un futuro inesorabile e minaccioso. L’apocalisse climatica, la fine delle risorse energetiche, la violenza della criminalità, le guerre e il terrorismo, le pandemie, l’espropriazione dell’umano da parte della tecnologia, la perdita di sicurezza economica per l’assottigliarsi dello stato sociale… Sono tutte minacce incombenti sul nostro futuro che ci fanno sentire impotenti e bisognosi di protezione e di guida, ben felici di cedere parte della nostra libertà residuale a chi pensiamo possa salvarci da tali pericoli. L’io minimo, di cui parlava Lasch negli anni Ottanta, è questo ritrarsi della soggettività ad un livello di sopravvivenza, incapace di un progetto individuale e collettivo di emancipazione. La persona rinuncia al pieno sviluppo delle sue facoltà in favore di un presunto benessere all’interno delle fantasie del consumo, perché il “mondo, privo di un’esistenza oggettiva e indipendente, […] sembra esistere soltanto allo scopo di appagare o frustrare i suoi desideri”.

Pensare che questa condizione di miseria umana (Bernard Stiegler l’ha definita “proletarizzazione della sensibilità”), nel senso di una privazione del saper-vivere che sopraggiunge nel benessere, sia il culmine del progresso e pertanto una condizione di equilibrio stabile, sembra piuttosto illusorio.  Il senso di insoddisfazione diffuso e i malesseri psichici che turbano le nostre esistenze, apparentemente appagate, sono dei forti moventi verso la trasformazione delle forme della relazione esistenti. 

La progettualità, anche libertaria, sembra emergere invece sempre e soltanto da soluzioni innovative del prodotto industriale per il mercato: il nuovo film del 2021 della Pixar, Ron, un amico fuori programma, suggerisce un esempio di favola tranquillizzante, ma coglie il problema: le big-tech stanno plasmando le nuove generazioni a loro uso e consumo.

Matteo Minetti è nato a Roma nel 1974. Storico ma laureato in filosofia, ha svolto attività di sistemista, DBA e HR nel campo informatico. Smanettone e appassionato di tecnologia FLOSS, attivo politicamente per la redistribuzione del tempo di lavoro necessario. Tra i fondatori del gruppo Rizomatica.