La città è un corpo che ricorda la ferita

Lo “spaziocidio” di Gaza è inciso nella pietra e nella sorveglianza invisibile delle tecnologie algoritmiche

La città è un corpo che trattiene il ricordo della ferita, anche quando la ferita non è più visibile.
Ghassan Zaqtan

Nel 1967, l’esercito israeliano completò l’occupazione di Gerusalemme Est, annettendo un’area palestinese di circa 70 km². Il piano urbanistico mirava a unificare la Città Santa, costruendo una capitale pensata per impedire qualsiasi futura ripartizione. Da allora Gerusalemme si è trasformata in una metropoli tentacolare che continua a espandersi nei territori palestinesi, separando di fatto il Nord della Cisgiordania dal Sud.

Pietra di Gerusalemme, Rule of Stone (Danae Elon)

Eyal Weizman, in Spaziocidio: Israele e l’architettura come strumento di controllo, mostra come l’architettura fosse l’arma di legittimazione e conquista utilizzata per insediarsi nei territori palestinesi. Lo spazio urbano non veniva concepito come neutro, ma come un testo simbolico, saturo di visioni e di idee volte a legittimare il progetto politico sionista. Gli architetti israeliani si trovarono così di fronte a una sfida: far apparire i nuovi quartieri costruiti nei territori occupati come parti organiche della Città Santa.

Nel documentario di Danae Elon, Rule of Stone, viene alla luce una delle prime politiche di dominio urbano sul territorio palestinese: l’obbligo di rivestire gli edifici delle colonie con la pietra di Gerusalemme. Questo sottile strato di rivestimento è servito ad autenticare la facciata dei nuovi insediamenti, conferendo loro una veridicità estetica, un’apparenza uniforme che ha legato le colonie sioniste alla promessa biblica di abitare la Città Santa. Insomma, il governo voleva far credere ai coloni di vivere a Gerusalemme, e fu lasciato all’architettura il compito di costruire questa narrazione. La pietra di Gerusalemme divenne così un simbolo ideologico: un mezzo per connettere le catene simboliche della memoria collettiva ebraica con le disposizioni materiali degli insediamenti coloniali. La forma e lo stile dello spazio urbano cominciarono a tradursi in un’arma visiva in grado di mascherare la realtà dell’occupazione. L’obiettivo era duplice: offrire la prova tangibile di una città unificata e, al tempo stesso, consolidare confini nuovi, incerti e giuridicamente non riconosciuti.

Spaziocidio

La costruzione delle colonie è inseparabile dalla distruzione delle case palestinesi. Secondo l’Israeli Committee Against House Demolitions (ICAHD), dal 1947 Israele ha demolito oltre 200,000 case. Le demolizioni non avvengono soltanto per mano dell’esercito, ma anche attraverso i dispositivi invisibili della pianificazione urbana: norme edilizie e vincoli amministrativi che rendono quasi impossibile ottenere permessi di costruzione.  Le abitazioni del popolo indigeno si sono così trasformate in un’architettura “abusiva e illegale”. In risposta, lo Stato israeliano ha avviato campagne contro la cosiddetta “jihad dell’edilizia”, penetrando nei campi profughi palestinesi e radendo al suolo interi quartieri. In The Least of All Possible Evils, Weizman presenta la correlazione tra la distruzione degli edifici e la perdita di vite umane: “Gran parte delle morti è avvenuta all’interno degli edifici. Molti individui e famiglie sono stati uccisi dai detriti urbani: il cemento e il vetro frantumato di ciò che un tempo erano le pareti, i soffitti e le finestre delle loro case. Lo spazio urbano si rovescia contro chi lo abita, trasformando il rifugio in trappola, la casa in arma”. Questa pratica di cancellazione urbana, che il sociologo palesinese Sari Hanafi chiama spaziocidio, non colpisce soltanto edifici, infrastrutture o spazi pubblici, ma la città in quanto organismo sociale: quell’intreccio di relazioni umane e non umane, memorie, simboli e topografie affettive.

Forensic Architecture – Cartografia di un Genocidio (31 Luglio 2015)

Nei versi di La Casa Assassinata, il poeta palestinese Mahmud Darwish racconta lo stretto legame tra la distruzione dello spazio urbano e la memoria storica del popolo palestinese: “La casa come vittima è la separazione delle cose dalle loro relazioni, dai nomi dei sentimenti e dal bisogno della tragedia di concentrare la propria eloquenza nel vedere la vita dell’oggetto. In ogni oggetto c’è un essere che soffre, un ricordo di dita, di un odore, di un’immagine. E le case vengono uccise proprio come i loro abitanti. E la memoria degli oggetti viene uccisa: pietra, legno, vetro, ferro, cemento sono sparsi in frammenti rotti come esseri viventi”.

Al valico di Rafah, un sofisticato sistema di telecamere a circuito chiuso ha iniziato a trasmettere in tempo reale i volti dei viaggiatori e le immagini dei bagagli radiografati a una sala di controllo presidiata da ufficiali israeliani. Gaza inizia a costituirsi come laboratorio di apartheid digitale

Oggi, la maggior parte dei conflitti armati non si svolge più in spazi aperti, ma all’interno di ambienti urbani: si parla di urban warfare, una guerra che prende di mira le città, i quartieri e le case. La violenza che colpisce la casa, definita domicidio dal sociologo siriano Ammar Azzouz, chiarisce come l’erosione dell’abitabilità domestica vada oltre la mera demolizione fisica degli edifici. Colpire la casa significa fratturare un’intera geografia affettiva: i luoghi in cui si radicano memorie, relazioni, abitudini e pratiche di vita quotidiana. Nel contesto dell’urbanistica coloniale, questa violenza è programmata per disarticolare il rapporto tra la popolazione indigena e il suo ambiente. L’architettura diventa così uno strumento di controllo e di separazione, ridisegnando il paesaggio con nuove logiche di dominio. Ad esempio, mentre le autostrade israeliane scorrono dritte, sopraelevate e libere da ostacoli, i percorsi palestinesi vengono spezzettati da check-point, muri e strade tortuose che allungano distanze e tempi di percorrenza, isolano villaggi e frantumano comunità.

Urbanismo ottico

Nel 2014, il canale Al-Jazeera ha presentato il documentario Israele e l’architettura della violenza all’interno della mini-serie Rebel Architecture. La regista Ana de Sousa punta la sua telecamera sulle alture della Cisgiordania occupata, mettendo a fuoco come le colonie israeliane sorgano in posizione dominante, sovrastando le città e i villaggi palestinesi nelle valli sottostanti. Questa scelta non è casuale: è una strategia di sorveglianza militare. Le abitazioni degli insediamenti sono disposte in forma circolare, così che ogni casa affacci sulla valle, trasformandosi in un dispositivo ottico di sorveglianza in grado di controllare il territorio palestinese circostante. L’architettura panottica, come le torri di controllo lungo il muro israeliano-palestinese, agisce con una crudeltà particolare: è progettata per nascondere la presenza dei coloni e dell’esercito, lasciando i palestinesi in uno stato di costante vigilanza, nella convinzione che qualcuno li stia sempre osservando. 

Architettura panottica in Cisgiordania (Al-Jazeera)

Per chi abita nei territori palestinesi occupati, l’orizzonte è delimitato da insediamenti costruiti in posizione dominante e rivestiti con la pietra di Gerusalemme. Se un tempo la pietra bastava a costituire l’estetica dell’urbanistica coloniale, oggi lo stesso progetto è affidato a un ecosistema di sensori intelligenti, reti di sorveglianza digitale e algoritmica. La logica è identica: consolidare l’occupazione territoriale attraverso l’architettura. Con il passare degli anni, le tecnologie di sorveglianza sono diventate un elemento centrale dell’urbanistica coloniale. Nel 2005, con la fine della seconda intifada e la ritirata delle truppe israeliane da Gaza, i checkpoint sono stati equipaggiati con sistemi biometrici e telecamere collegate a database centralizzati. Al valico di Rafah, un sofisticato sistema di telecamere a circuito chiuso ha iniziato a trasmettere in tempo reale i volti dei viaggiatori e le immagini dei bagagli radiografati a una sala di controllo presidiata da ufficiali israeliani. Gaza inizia a costituirsi come laboratorio di apartheid digitale.

Gaza Smart City – torri di controllo (​​Francesco Sebregondi)

Quello che in passato era stato ottenuto con la manipolazione materiale dello spazio urbano trova oggi la sua estensione nelle tecnologie di sorveglianza. La Striscia di Gaza si configura come un laboratorio estremo di “smart urbanism”: uno spazio urbano in cui ogni aspetto della vita quotidiana è monitorato, tracciato e trasformato in dati utili al progetto di occupazione delle terre palestinesi. Solitamente, con smart city si intende una città dotata di sensori, intelligenza artificiale, cloud computing e altri tipi di tecnologie volte a ottimizzare la qualità della vita urbana. A Gaza, la logica della “smartness” si rovescia su se stessa rivelandosi come mezzo di segregazione. La smart city di Gaza si estende ben oltre la gestione ordinaria delle città, abbracciando sorveglianza, logistica, approvvigionamento energetico e gestione dei servizi primari. Si calcola, spesso limitando, l’acqua, il cibo, l’elettricità e tutti i servizi essenziali alla vita. Gaza diventa il risultato stesso di un progetto algoritmico, calcolato per annientare le condizioni di vita del popolo palestinese.

Lungi dall’essere una città tecno-utopistica, la smart city di Gaza è stata progettata per dislocare una popolazione considerata sovrabbondante. Il 14 novembre 2024, un checkpoint improvvisato su Salah al-Din Street è diventato punto chiave per il monitoraggio del trasferimento forzato dei civili palestinesi dal Nord della striscia di Gaza al Sud. Il trasferimento forzato della popolazione ha consentito la raccolta involontaria dei dati biometrici, trasformando ogni movimento in informazione utile al controllo urbano e militare. La smart city trasforma il tessuto urbano in un network digitale di raccolta dati: droni, reti di infrastrutture, barriere, tunnel e checkpoint creano una griglia tridimensionale di monitoraggio e segregazione. I dati raccolti hanno preparato il terreno per l’uso dell’IA nella pianificazione delle operazioni militari, nell’identificazione degli obiettivi e nella gestione automatizzata della popolazione.

Genocidio algoritmico

A maggio 2024, l’Aeronautica israeliana e la Divisione Intelligence hanno ricevuto l’Israel Defense Prize 2024 per il successo della loro “fabbrica di obiettivi” (מפעל המטרות). Secondo un comunicato ufficiale del governo, l’Operazione Iron Swords, lanciata in risposta all’attacco di Hamas il 7 ottobre 2023, si è distinta per l’uso innovativo di «algoritmi avanzati e IA». In particolare, viene riconosciuto l’ampliamento degli obiettivi colpiti, molti dei quali non sono di natura strettamente militare: abitazioni private, edifici pubblici, infrastrutture e palazzi residenziali. Durante la premiazione un alto ufficiale ha dichiarato che, per la prima volta, i sistemi di IA dell’esercito gli consentono di generare nuovi obiettivi più velocemente di quanto possano essere colpiti. Durante le guerre del 2014 e del 2021, spiegava, venivano creati solo 50 obiettivi in un intero anno; oggi la macchina può produrne 100 in un solo giorno.

Alla base della cosiddetta «fabbrica di obiettivi» c’è un saggio del Brigadier Generale Yossi Sariel, comandante dell’Unità di Intelligence 8200 e figura centrale nello sviluppo di questa strategia militare. Nel testo, intitolato The Human-Machine Team, Sariel delinea una nuova visione della guerra contemporanea fondata sull’integrazione “super-cognitiva” tra capacità umane e potenza algoritmica. L’idea è quella di generare obiettivi integrando informazioni di intelligence con l’identificazione di individui tramite il monitoraggio dei sistemi di sorveglianza della smart city.

In precedenza, individuare e giustificare nuovi obiettivi rappresentava una spina nel fianco per le operazioni militari israeliane. L’oggettività dell’intelligenza artificiale sta automatizzando il processo di giustificazione, consentendo ai bombardamenti di colpire aree densamente popolate. In realtà, questa presunta oggettività si rivela illusoria: l’IA non neutralizza il bias politico, ma lo traveste in un accurato calcolo tecnico. L’agenzia di ricerca Forensic Architecture ha monitorato come l’esercito israeliano abbia impiegato la logica algoritmica della “fabbrica di obiettivi” per giustificare bombardamenti su infrastrutture civili.  Attraverso una combinazione di tecniche open source, dati satellitari e testimonianze sul campo, la loro indagine Destruction of Medical Infrastructure in Gaza rivela come gli ospedali siano stati trasformati in bersagli militari: gli attacchi all’Al-Shifa, all’Indonesian Hospital e ad altre strutture sanitarie non appaiono come incidenti isolati, ma come parte di un modello operativo volto a minare il diritto internazionale.

Usando l’IA per monitorare i comportamenti sospetti, i legami sociali si trasformano in probabilità, convertendo quasi ogni abitante di Gaza in un potenziale terrorista. Dopo l’ordine di evacuazione del 13 ottobre 2023, l’esercito israeliano minacciò che chiunque si rifiutasse di abbandonare il nord di Gaza «potrebbe essere identificato come complice di un’organizzazione terroristica». Ciò oscurò il fatto che i palestinesi sceglievano di restare, ricordando il rimpianto dei loro nonni per aver lasciato la terra durante la Nakba del 1948.

A partire da ottobre 2023, analisi satellitari stimano che tra 144.000 e 197.000 edifici nella Striscia di Gaza siano stati danneggiati o distrutti grazie a sistemi “smart” e algoritmi militari. Ciò rappresenta dal 50% al 90% dell’intero patrimonio edilizio, comprese abitazioni, scuole, ospedali, moschee e infrastrutture di prima necessità. Almeno 1,9 milioni di palestinesi, circa il 90% della popolazione di Gaza, risultano sfollati. Lo spaziocidio, anche quello algoritmico, non cancella mai completamente la città che distrugge. Le rovine, le tracce, i ricordi restano come strati fossilizzati di un trauma che impedisce alla popolazione di abitare tanto lo spazio urbano quanto quello sociale.

Come la pietra di Gerusalemme ha rivestito gli insediamenti impregnando lo spazio fisico con il suo racconto coloniale, anche la dimensione digitale della smart city, fatta di clouds, sensori, dati e algoritmi, si rivela altrettanto capace di contribuire alla colonizzazione di un territorio. In questo senso, l’architettura israeliana diventa la testimonianza materiale dell’urbanistica coloniale: costruisce per dominare, distrugge per riscrivere, e in entrambi i casi disarticola il rapporto dei palestinesi con la loro terra.