Kathy Acker vive

Dalla sua morte sono passati vent’anni e Chris Kraus le ha appena dedicato una biografia. Ritratto di una scrittrice estrema ai tempi del #metoo e del dopo Weinstein

Negli anni in cui Internet era il luogo delle scoperte e non delle conferme – o per metterla come Leigh Alexander, «il luogo degli sconosciuti e non degli amici» – uno dei primi siti in cui mi sono imbattuta era un archivio di storie maledette nell’arte, nel cinema e nella letteratura. Si chiamava l’isola di tenaviv e aveva una grafica massimalista che al nero d’ordinanza contrapponeva diciture rosso carminio; deve aver chiuso parecchi anni fa. L’archivio conteneva poesie, fotogrammi di film e biografie pre-Wikipedia che culminavano di solito in suicidi o sparizioni. È lì che un giorno ho fatto clic su un link a Kathy Acker: poetessa, scrittrice, eroina della controcultura, morta il 30 novembre del 1997. È lì che per me Kathy Acker pulsa ancora, a vent’anni dalla sua scomparsa, in quelle pagine archiviate dove si smaterializza e ricompone  a scatti: per vederla la prima volta, ho dovuto aspettare che il computer scaricasse la sua immagine in un’altra scheda, restituendomene un pezzo riga per riga tramite il 56k. Dopo aver letto After Kathy Acker, la sua ultima biografia scritta da Chris Kraus (l’autrice di I Love Dick, esatto), mi rendo conto che quel modo fuori sincrono e sacrificato di scoprirla ha segnato tutto il mio rapporto con la sua scrittura, non sempre per il meglio.

Kathy Acker nel 1984 (foto: Steve Pyke/Getty Images)

I libri di Kathy Acker tradotti in italiano sono pochi, e quasi tutti fuori stampa da tempo (per quanto il suo Don Chisciotte pubblicato da Shake nel 1999 dovrebbe essere ancora disponibile). Scrittrice provocatoria e «sperimentale», ex spogliarellista e animatrice della scena punk e avant-pop, ancora a pochi anni dalla sua morte Acker veniva descritta come «autrice di un pastiche radicale da cui emerge l’ipotesi di una soggettività femminile instabile e inappagata come la sua prosa onnivora».

Per me che avevo sedici anni ed ero ancora priva di riferimenti teorici, il suo cut-up diaristico ma soprattutto le sue infinite ripetizioni erano più sciatteria che fenomenologia. Burroughs almeno era difficile ma serio: nonostante la sua eterodossia, aveva tutta una serie di riferimenti che capivo, ed era legittimato dal sottobosco di autori che preferivo leggere (tutti maschi). Il lurido di Burroughs era letterario, quello di Acker era un pastiche di vite che erano la sua e frammenti presi da romanzi commerciali o novelle porno che invece non lo erano, per non parlare della sua appropriazione di romanzi ottocenteschi che erano quanto più lontano dalla mia idea di letteratura all’epoca. Oltretutto, nutrivo sospetti verso la sua fotogenia e la sua convinzione che il talento passasse anche dal corpo. Kathy a torso nudo sulla motocicletta a far vedere i tatuaggi. Kathy con le labbra color fegato che si reggeva la testa con due mani, gonfia di piercing, lo sguardo liquido e pesto. Kathy con qualcosa di leopardato, Kathy con la mastectomia, Kathy con il dente d’oro, il corpo di Kathy prima del verbo di Kathy. (A proposito di corpo: durante la cerimonia funebre, alcuni amici hanno ingoiato le sue ceneri, mentre Dodie Bellamy restava a osservare perplessa. Durante la stessa cerimonia, l’astrologo da cui Acker non si separava mai dopo essersi ammalata di cancro, si è messo a distribuire biglietti da visita dopo aver cercato di spargerla in mare nonostante i venti contrari).

Per farla breve ho perso interesse in fretta, e se Chris Kraus non avesse scritto la biografia di un’autrice che per lei è stata sia una matrice sia una nemesi, non so quanto ci avrei pensato ancora. Probabilmente avrei lasciato Acker alla luminescenza di un’Atlantide digitale. Ho iniziato a cambiare idea dopo aver letto un articolo della sua amica Suzanne Moore, in cui c’era scritto che  «se la teoria predicava la morte dell’autore, la realtà era che Kathy incarnava i suoi testi». Quell’«incarnare» era esattamente il problema.

Il documentario su Kathy Acker girato da Alan Benson nel 1984

Nei giorni in cui si discute il bisogno di fare un distinguo tra l’arte degli uomini e la loro biografia (vedi i casi Louis C.K. e Kevin Spacey), si conferma il fatto che per un’artista donna il problema non si pone: l’arte di una donna è la sua biografia. Ma invece di subire questa tautologia o di assecondarla solo per il proposito di scandalizzare i lettori e prepararsi a essere dimenticata, Kathy Acker l’ha messa al centro del suo discorso e ci ha costruito attorno una gabbia formale e teorica di cui nessun’altro aveva le chiavi. È un processo molto meno innocente di quanto viene spontaneo associare a una diva della controcultura che in realtà ha frequentato una scuola privata dell’Upper East Side e ha potuto contare su uno scambio pressoché ininterrotto con gli intellettuali avantgarde di New York, Parigi e più tardi Londra.

Tutto quello che riguarda Kathy Acker parte dall’«io», dalla scrittura in prima persona di una ragazza ossessionata dall’infanzia il cui corpo si interrompe prima che possa affrontare le conseguenze della vecchiaia. Kathy Acker non lo fa perché è costretta, ma perché lo ritiene più interessante. Non a caso nei suoi ultimi diari scrive: «it is with girls that stories begin»: l’essere donna presiede il tipo di narrazione che ha in mente, la genera prima ancora di diventarne un argomento. Sembra una cosa banale oggi, ma senza questa azione di sfondamento chissà se l’editoria avrebbe dato ulteriore spazio a quest’«io». (E comunque: è chiaro che senza Kathy non avremmo mai avuto I love Dick, e tutta questa biografia pare un modo di Kraus per ammetterlo).

Nata nel 1949 in una famiglia ebraica benestante, Acker si è alienata in fretta dalla madre dagli occhi «castani, grigi o blu a seconda delle droghe» che è morta suicida dopo essere finita in bancarotta. Come il sesso, il denaro è un tema ossessivo nei diari che andranno a fare da substrato ai primi testi seriali, e descrive una condizione che la penalizzerà in tante amicizie: Acker è virtualmente ricca e concretamente povera, mentre le poetesse come Bernadette Mayer e altre figure che ruotavano attorno al St. Mark’s Poetry Project venivano dalla working class ma si davano da fare con lavoretti vari. Il loro nervosismo verso la nuova arrivata era, se non molto maturo, quantomeno comprensibile. Nelle cartoline che manda a Mayer, Acker parla sempre dei soldi che non ha, di quelli che le servirebbero per scrivere, e chiede ospitalità. La cosa strana, rileva Kraus, è che nelle altre lettere che Mayer si scambia con i colleghi di simile estrazione sociale, di soldi non si parla mai: c’è una sorta di laicità rispetto al problema che alla luce della franchezza di Acker risulta un po’ dissociato.  

Il fatto è che senza questo bisogno costante – finanziario, emotivo – Kathy Acker sarebbe diventata una scrittrice molto diversa. Senza mezzi, lei e il primo fidanzato importante Len Neufeld iniziarono negli anni Settanta a lavorare in un locale che ospitava sex show a Midtown: si travestivano, si spogliavano e facevano sesso davanti a un pubblico pagante. (Più tardi, Acker ha fatto anche la spogliarellista in un locale di marinai in California). Sono lavori che entreranno a far parte della sua mitologia non per come ne parla nelle interviste, ma per come ne scrive, cambiando spesso versione. Un esempio è quando scrive «I’m tired of fucking and not knowing who I am» in un diario, per poi farlo riapparire in un altro testo poetico che risale a poco dopo: «I’m tired of fucking not knowing who I am».

Quando nei primi pamphlet distribuiti per posta Acker dice che quei sex show e i rapporti con Len erano gioia, controllo, piacere, abuso, degrado, nausea, schifo, sta sempre mentendo? Sta dicendo sempre la verità? È possibile che stia dicendo tutte e due le cose, in un’articolazione di presenza e assenza che ha un valore artistico ma anche identitario, e quindi può valere anche per una ragazza che di arte non ne fa. È per questo che After Kathy Acker è una lettura spettrale da affrontare nel mezzo del dibattito su sessualità e potere dopo Weinstein, perché ci costringe a venire a termini con l’ambiguità dello strumento con cui raccontiamo storie di sesso, violenza e consenso.

Il #metoo è un dispositivo narrativo: ha a che fare con lo sfaldamento del partiarcato e dell’ordine imperante quanto con questa interazione di memoria, riscrittura, rivelazione e reinvenzione di sé che Kathy Acker ha reso in forma magistrale a furia di ricombinare fonti disparatissime, dalle memorie delle prostitute assassine ai bambini diseredati di Charles Dickens, da Bataille alle teorie di Bergson sul tempo, solo per dire chi era lei in quel momento, quanto le piacesse fare sesso e quanto si sentisse ignorata o violata da un amante, a volte.  Questo perché l’ordine esterno non prescinde da un ordine «finzionale» interno, dal modo di organizzare il conflitto con l’altro attraverso i propri sentimenti, la propria educazione o persino la contraddittorietà dei propri desideri. Se leggere il modo in cui se l’è cavata Acker è liberatorio perché si tratta di un’artista che ha usato la sua ambiguità e la sua sofferenza riuscendo a diventare famosa come aveva sempre voluto, e ci spinge a fare costantemente il tifo per lei durante la lettura della biografia scritta da Kraus, in realtà è impossibile non rendersi conto che uno strumento narrativo che è stato così potente per lei rischia di rivelarsi così fragile per tutte le altre, per tutte noi. «It is with girls that stories begin», è vero: ma quando non si tratta di letteratura, i diritti di una ragazza non possono dipendere da una storia. Tanto più che nel contesto mediatico attuale la storia non è più una storia, ma diventa una performance.

Foto: Bob Berg/Getty Images

Kathy Acker mi è arrivata dalla rete, ma forse non ci avrebbe vissuto bene. È morta nel 1997, quando una certa ideologia libertaria del mezzo si stava già offuscando e, nonostante potesse sembrare l’infrastruttura più adatta per accogliere il suo lavoro sempre frammentato prima di trovare editori ufficiali, in realtà forse con il tempo il suo modo di disseminare e ricombinare testi sarebbe diventato banale e inadeguato. C’è tanta obsolescenza in After Kathy Acker, uno dei libri meno nostalgici ma allo stesso tempo più malinconici che abbia letto negli ultimi anni, proprio per la brutale onestà con cui Kraus restituisce una scena culturale tra i primi anni Settanta e anni Novanta, non senza rinunciare ad alcune stoccate. Quando nei suoi diari Acker scrive che a New York c’è un’atmosfera mortifera e di bancarotta e che la città sta diventando inservibile, la sua biografa sottolinea che la bancarotta dipendeva anche dagli artisti ventinovenni e bianchi come lei che richiedevano i sussidi o la disabilità invece di lavorare. Ma questo è un discorso del presente: leggendo la vita di Acker, quel che emerge in maniera netta è un senso di vulnerabilità giocato in maniera manipolatoria da parte di quasi tutta una generazione, che chiedendo di essere protetta dalla società pur disprezzandola, ha perseverato talmente a lungo nel voler essere tutelata dai genitori, dalla società e dal governo da riuscire a garantirsi quantomeno uno spazio in cui trasformare le proprie frustrazioni in arte, dissanguando tutto. Ha ragione Kraus a sottolinearne il prezzo, eppure qualcosa di memorabile è rimasto: Kathy Acker è rimasta.

La sua scrittura ci dice che è possibile dire la verità attraverso milioni di bugie. La sua verità, stando a Chris Kraus, è che la scrittura serve a riassestare un equilibrio quando gli equilibri sono sbagliati. Nel suo caso, l’equilibrio era sbagliato quando non le garantiva abbastanza amore e attenzione: noncurante ebrea ricca di famiglia, tacciata di essere una puttana già a quattordici anni, fidanzatina precoce di uomini affermati della scena newyorchese, arcinemica di tutte le ragazze di cui intuiva un talento solo per dedicare loro ricordi e pagine per tutta la vita, Acker voleva essere amata e aveva bisogno degli altri. Il suo modo di creare cesure nei rapporti era per chiedere di più, molto di più.

Kathy Acker con William Burroughs (dal documentario A Man Within)

Chris Kraus è stata accusata di non aver esplicitato il fatto che uno degli amanti più stabili di Acker sia stato Sylvère Lotringer – suo ex marito, co-editore di semiotext(e) insieme a lei, e soprattutto protagonista semi-finzionale di molti dei suoi libri a cominciare dallo stesso I Love Dick – e di aver tradotto la sua antipatia verso l’autrice (che era nota per flirtare con chiunque le capitasse a tiro e per farsi dedicare poesie dal titolo Don’t Steal My Boyfriend) in un ritratto a volte severo e troppo focalizzato sulle contraddizioni della scrittrice. Ma questo significa fare un disservizio profondo a Kraus che, proprio nel rendere esplicite le manipolazioni e falsificazioni di Kathy Acker, restituisce tutta la sua forza e la stima che prova nei suoi confronti. Anzi, per chi conosce bene la scrittura di Kraus, sembra quasi di leggere la sua di biografia: come l’altra, anche lei si è interessata di Ulrike Meinhof, dice di aver lavorato in topless bar e ha esplorato le implicazione teoriche del sadomasochismo, ma non ha paura di rivelarci che Acker lo ha fatto prima. Insistendo sulle sue asperità, non sta dicendo che persona orribile fosse, ma che artista illuminata era.

E se questo vale per tanti uomini problematici da assolvere, non vale forse anche per Kathy Acker? Si possono tenere i due momenti insieme. Comporta più fatica nel giudizio, comporta una crisi e un disorientamento, ma è possibile. Non c’è nulla da separare: Kathy Acker dimostra che le argomentazioni sulla scissione tra arte e vita sono fatue quanto quelle che vogliono ridurre l’una all’altra, nella nostra incapacità di immaginare un’alchemica interdipendenza che si rigenera in ogni istante.

Cannibalizzando idee dai suoi interlocutori e trafugando testi al punto tale da mettere in imbarazzo l’editore inglese Picador che si è ritrovato a gestire un’accusa di plagio – dimostrando che la sua anarchia era un’anomalia nel sistema – a furia di rattoppare alla fine Acker ha ottenuto sé stessa. Come Mary Shelley che di fatto inventò la science fiction con Frankenstein da poco più che adolescente (non a caso uno dei primi ipertesti a inaugurare la letteratura elettronica è My Body di Shelley Jackson che si rifà a Frankenstein ma anche al lavoro di Acker: un precedente illustre che non ha avuto molto seguito, e sta ancora lì, nell’internet degli sconosciuti), con opere come Great Expectations (1983) e Blood and Guts in High School (1978), Acker ha finto di mettere in pratica la morte dell’autore e tutte le teorie che andavano di moda solo per confutarle. Invece di sparire, si è raddoppiata e centuplicata. È attraverso il furto che si ottiene sempre lei, ancora più lei: una donna, una scrittrice, una rivoluzionaria che non ha inventato niente ma ha cambiato tanto.