K-assandra – Puntata #2 – RABBIA

Un podcast che parla del futuro, ma non ti fa venire l’ansia

Ideato, scritto e narrato da Ludovica Perina
Prodotto da Luca Piccolboni aka Lp_saad
Grafiche di Paola Ricci

La parte sul digitale è stata scritta a partire da un testo di Christian Nirvana Damato, artista e studioso la cui ricerca si focalizza sul rapporto tra corpo/identità/tecnologia.

La parte sul Cile è narrata da Lidia Yáñez del Coordinamento 8M. Troverete la traduzione dell’intervista a fondo pagina.

Grazie a Hugo e a tutto il collettivo Vitrina Dystopica.

Bibliografia:

Han Byung-Chul, Nello sciame. Visioni dal digitale, Nottetempo. 2015

Bibliografia per la parte curata da Damato:

Turkle S., La conversazione necessaria, Einaudi, 2016

Žižek S., L’epidemia dell’immaginario, Meltemi, 2004

Musiche:

The Chemical Brothers – We have got to try

Wide blue – Momo

Bugseed – Chapter

Duck Baleno – Right now

Massive Attack – Angel

Gill Scott Heron – The revolution will not be televised

Mansur Brown – Straight to the point

Niñx Debacle / Paniko – Esta party no se baila en la disco

Keleketla! & coldcut – Crystallise (ft. tamar Osborn & yugen blakrok)

American Authors – I am born to run

***

Traduzione dell’intervista a Lidia Yáñez:

Ciao Lily

Ciao

Allora partiamo dall’Estallido social che è il termine con cui viene identificato il momento delle proteste di settembre 2019. Tu personalmente venivi da movimenti politici? Ti saresti mai immaginata di vedere nel tuo paese una cosa del genere?

Prima di tutto, io faccio parte di organizzazioni politiche da molti anni. Da prima delle rivolte di ottobre, e tuttora, faccio parte del Coordinamento 8M, che è una organizzazione rivoluzionaria femminista in Cile. In generale, tutta la mia rete e le persone che conosco sono abbastanza interessate alla politica, e per tutti noi è stato molto shockante quello che è successo quel giorno, e la settimana prima, perché il Cile è un paese in cui le persone, anche se hanno molta frustrazione rispetto alle loro vita quotidiana, tendono a vivere nel modo più regolare possibile. Quindi si, all’inizio è stato molto shockante. Io vivevo nel centro di Santiago de Chile, la capitale. Abbiamo visto fuoco, fuoco ovunque, negli angoli, la metro stava bruciando. C’erano un sacco di persone nelle strade, che protestavano e urlavano, urlavano cose diverse. Penso sia stata una situazione molto nuova, anche per persone che si consideravano attivisti politici, come me.

Raccontaci i primi giorni delle proteste, quando ti sei resa conto che non erano delle proteste normali? Come ti sentivi in quei giorni? Quali erano le tue emozioni?

In realtà, 2 o 3 giorni prima dell’inizio della rivolta, io mi trovavo in Argentina, all’incontro internazionale delle donne. Tornando a casa dall’aeroporto, pensavo ‘Questo è un Chile diverso’. Ragazzi delle superiori chiamati a non pagare il biglietto della metro perché costava troppo, il che è così strano perché il Cile è un posto così ordinato, le persone fanno quello che devono fare, svolgono i loro doveri.  Le persone non stavano pagando? Che succede? Il Cile sta crollando. Non era abituata a questo disordine. Quindi, sì, è stato molto eccitante, ma allo stesso tempo ero anche molto disorientata. Ero un po’ spaventata, perché era tutto così nuovo. Il primo giorno è stato un caos, nessuno sapeva cosa stesse succedendo. Dopo di che, bè, le organizzazioni hanno iniziato ad organizzarsi, ovviamente. Hanno provato a condurre, forse, ma questo movimento era più grande di ogni organizzazione.

Si è parlato molto in Europa della violenza della polizia cilena durante le proteste di settembre. Intanto volevo chiederti un commento su questa cosa: come l’avete vissuta voi, tu e come movimento. E poi quali sono secondo te gli strascichi della dittatura pinochetiana nel sistema repressivo della polizia.

Il secondo giorno dopo il 19 Ottobre il presidente Piñera ha dichiarato lo stato di emergenza, il che è stato sconvolgente perché noi veniamo da una dittatura, che è finita nel 1990 ma che per quanto riguarda tutta la parte istituzionale – la costituzione, per esempio, o l’ordine sociale – la dittatura è continuata. Prima, però, la violenza della polizia era limitata alle persone che protestavano, per esempio il movimento studentesco, nel Sud, nell’Araucania, dove ci sono i Mapuche. Ma quel giorno la violenza poliziesca è diventata generale, abbiamo visto i militari negli angoli delle strade, dietro casa, nei quartieri. La mia generazione non aveva mai vissuto fino a quel giorno quel tipo di violenza della polizia. I nostri genitori ci avevano raccontato dei militari, delle torture, della polizia politica, ma noi da quel giorno abbiamo iniziato a vivere quella situazione, quella realtà, in un modo più forte. Non solo le persone che stavano partecipando ai movimenti politici ma anche le persone normali. Per esempio, il caso di Fabiola Campillay. Un poliziotto le ha sparato direttamente in faccia mentre andava a lavoro, dietro casa, ed ora è cieca. E uno dei casi più estremi, ma abbiamo circa 500 casi di persone che sono state sparate in faccia e hanno perso la vista. È come un’epidemia, 500 sono tante. Per la maggior parte di queste persone, questa ha rappresentato una prima esperienza di partecipazione politica. Per quanto mi riguarda, io vengo da una famiglia che è stata vittima della violenza della polizia. Mio zio era un politico, che è stato torturato e ucciso, il suo corpo è scomparso, sappiamo che è morto ma ancora non abbiamo il suo corpo. Mia madre mi ha sempre raccontato queste cose. Lei odia la polizia. Quindi, quando quel giorno ho iniziato a vedere la polizia nelle strade, ho pensato cosa avrei dovuto fare, avrei dovuto stare in casa, nascondermi? Perché so quali sono le conseguenze di questa roba.

Continuando col discorso della violenza della polizia. Pensi che la repressione abbia rinforazato o indebolito il movimento? Quello che intendo è, pensi che ci sia stata una disgregazione di forze o una  creazione di un senso comunitari nelle piazze?

Quello che ho pensato al tempo è stato: proprio per questa memoria storica, se le persone vedono i militari nelle strade, saranno spaventate, non scenderanno in strada. Ma quando il presidente Piñera ha dichiarato lo stato di emergenza, le persone hanno iniziato a reagire, a difendersi. Non si sono spaventate. In realtà, una settimana dopo c’è stata la manifestazione più grande, La marcha más grande de Chile. Eravamo 1 milione e mezzo di persone in strada, solo nella capitale. Era così strano perché mia madre, mio fratello, tutti erano là. La risposta della gente è stata coraggiosa, mentre la risposta del presidente è stata cosi irrispettosa, verso una lotta che riguardava la dignità: questa era una delle istanze principali, la dignità. Proprio in seguito alla riposta violenta del governo, le persone si sono dimostrate più intenzionate ad affrontare la polizia. Nelle protesta, c’era un senso molto forte di comunità- potevi essere da sola lì dentro, ma sapevi che le altre ti stavano proteggendo. C’è stata anche una straordinaria organizzazione medica volontaria, medici, infermieri che hanno iniziato ad aiutare alla gente. Anche quando la violenza era più feroce, le persone avevano fiducia l’una nelle altre, e penso che sia meraviglioso, in un paese cosi individualista come il Cile: era un modo diverso di sentire un senso comunitario che è stato perso dall’inizio della dittatura.

Si, anche perché in piazza a fare gli scontri c’erano soprattutto le nuove generazioni, no?

È stato molto di ispirazione per me vedere giovanissimi, teenagers. Erano così coraggiosi! Io non potevo essere da meno. Ero davvero speranzosa rispetto a queste proteste, perché anche di fronte alle peggiori violenze non erano spaventati, e stanno ancora protestando. Ho pensato “devo stare qua, questo è il mio posto”. Questo era il nostro sogno, anche meglio di qualunque cosa avremmo potuto sognare, perché non avrei mai potuto pensare che anche le persone normali, che non erano interessate alla politica prima, sarebbero potuto essere cosi coraggiose, combattere la polizia. Ero molto speranzosa rispetto al futuro, rispetto a quello che possiamo fare quando siamo tutti insieme.

L’anno scorso sul muro di Santiago è comparsa una scritta che diceva: “No era depresion era capitalismo”. Cosa ne pensi? Pensi ci sia un rapporto tra depressione e capitalismo neoliberale? Il Cile è un luogo particolare per quanto riguarda la storia del neoliberismo.

Sì, penso che sia una frase molto buona, che spiega bene la situazione. In Cile il neoliberalismo è nato, ed è stato un esperimento, giusto? Penso che influisca a lungo termine un continuo senso di frustrazione rispetto alla vita, perché il Cile ha questo neoliberalismo estremo. Si , abbiamo tassi di depressione molto alti rispetto ad altri paesi del latino-america.

Parlando del rapporto tra depressione e capitalismo non si può non citare Mark Fisher, un teorico inglese che è diventato famoso per le sue analisi sulla lenta cancellazione del futuro. Fisher era inglese, adesso io voglio una prospettiva cilena. Pensi che questo sia vero, che il futuro sia stato cancellato? In Europa c’è un senso di disillusione e apocalisse imminente che è diventato comune tra molti giovani ma anche tra molti teorici. Pensi che siamo arrivati al gameover?

No, non lo penso (ride). Ci penso spesso, ci realtà sociali e politiche molto diverse tra Europa e Latinoamerica. E’ un privilegio pensare che non abbiamo futuro. Ma c’è anche qualcosa di vero in questo: quando non riconosci il tuo potere come comunità, come popolo, puoi sentirti molto piccolo rispetto al sistema. Se sei da solo, è molto difficile che tu possa cambiare qualcosa. Le persone da sole si limitano a riprodurre, perché è difficile. Puoi fare qualcosa, micropolitica, non so, ma per la struttura grande ci deve essere uno sforzo collettivo per cambiarla. In Cile è come se fosse scoppiato qualcosa, c’era troppa frustrazione, troppa necessità. Non c’era un’altra alternativa. Dobbiamo affidarci agli altri per cambiare quello che c’è da cambiare, per vivere vite migliori. Quindi no, non penso che il futuro sia stato cancellato. E ti dirò, anche quando non è luminoso, il futuro, in Cile, sai, abbiamo moltissime violazioni di diritti umani, anche in quello scenario, preferiamo pensare di poter avere un tipo diverso di società, adesso siamo in un processo costituente, perché dopo tutto quello che abbiamo passato, tutte le torture, la gente mutilata, questo lo dobbiamo a noi, ma anche a loro. Ora, il futuro è difficile, ma stiamo ancora cercando di cambiarlo, di avere un impatto, su quello che succederà in Cile nei prossimi anni.

Voglio finire sul futuro del Cile. Hai menzionato la costituente, pensi che la creazione di una nuova carta costituzionale sia il risultato giusto, quello che vi aspettavate dal movimento nelle piazze? Pensi che questo rappresenti la fine del movimento o c’è ancora altro da fare?

È difficile, perché questo processo costituente è stato concordato dai partiti politici, che erano quelli che stavano difendendo il governo Piñera, provando a fermare le mobilitazioni e di continuare in un modo meno problematico per loro. Pero, più di un terzo dei costituenti vengono dai movimenti sociali. Ho fiducia nel processo costituente perché loro sono la. Penso che la nuova costituzione non fosse la richiesta principale del movimento: c’erano molte richieste. Il movimento è stata una sintesi di molti altri movimenti. Quindi, non era ciò a cui aspirava profondamente il movimento, ma è stato un modo concreto di continuare. Ci sono molte contraddizioni, molte persone che hanno partecipato attivamente alle proteste che non vogliono questo processo. Per esempio, abbiamo ancora molte persone in prigione. Come  possiamo stare in questo processo, con la gente in galera? Dobbiamo continuare a stare nelle strade, continuare a protestare, ma soprattutto dobbiamo abolire i carabineros cileni, composti soprattutto da persone che hanno violato diritti umani. Se questo succede, se continuiamo col movimento sociale, solo allora possiamo avere fiducia nel processo costituente. 

Luca Piccolboni si diletta nella produzione musicale e nella ricerca di un'inesistente Io artistico. Laureato in scienze cognitive, si interessa di etnopischiatria e psicoimmunologia, in particolare nell'ottica di depatologizzare e rinnovare l'approcio alla cura della mente. Porta avanti un percorso di decostruzione del maschile.
Ludovica Perina

Laureata a Napoli con una tesi sulla decolonizzazione della questione meridionale, ha studiato a SOAS - University of London, occupandosi di studi culturali, postcoloniali e queer theory. Ha portato avanti ricerche sul rapporto tra salute mentale e capitalismo e ne ha fatto un podcast perché da grande vuole fare la RADIO. Lavora in percorsi di fuoriuscita dalla violenza di genere.