Trance mediterranea

Dai remix per Britney Spears alla musica rituale del Nordafrica: conversazione con James Holden sul magicko binomio improvvisazione & sviaggio in vista del suo ritorno in Italia

Una quindicina, ormai, di anni fa se si nominava James Holden era per inni generazionali come Horizons (hit trance realizzata nel 1999, quando James aveva appena 19 anni), per il remix di The Sky Was Pink del sodale Nathan Fake, per la fama dei suoi affollatissimi dj-set, tra i più popolari al mondo nel loro genere, per il suo ruolo di fondatore di Border Community, etichetta londinese che ha, tra le altre, lanciato le carriere di personaggi come Luke Abbott. A Holden bastò tuttavia appena un disco – l’esordio The Idiots Are Winning (2006) – per chiarire come la sua produzione non fosse definibile solo attraverso una pratica, diciamo così, da club. Per chiarire soprattutto come, per Holden, la trance (nell’accezione «stato di») più che un’etichetta da apporre a un determinato sottoinsieme dell’elettronica inglese fosse una vocazione operativa versatile, una meta da raggiungere e sperimentare collettivamente attraverso le sue composizioni. Il suo successivo album – The Inheritors – uscito ben sette anni dopo il precedente, distillava questo principio ancor più nitidamente. Da un lato, infatti, Holden si distanziava ancor più dalla dimensione del minimalismo da dancefloor di inizio 2000, dall’altro, evocava sciamanicamente lo spirito di una delle più grandi tradizioni ipnotizzanti della musica occidentale contemporanea: il primissimo krautrock, di cui James enfatizzava in particolare le componenti raga.

Da lì Holden ha intrapreso un percorso di crescente deriva (nel senso migliore del termine) nei territori della sperimentazione e dell’improvvisazione. Un percorso che l’ha portato nel corso degli anni a suonare in un progetto (Hello, Terry Riley, visto sui palchi di Londra e di Amsterdam) dedicato al mostro sacro del minimalismo – un evento quasi inevitabile data la percepibile influenza rileyiana sulle varie svolte di Holden – e quindi a collaborare con musicisti come il marocchino Maalem Houssam Guinia e gli Animal Spirits (da cui il suo ultimo album The Animal Spirits del 2017), nomi con cui condivide la passione per una psichedelia quasi arcaica e liturgica, ottenuta attraverso pratiche di jamming e improvvisazione che se ne sbattono di zeitgeist e mode musicali del momento. 

D’improvvisazione si tratterà anche a Mediterraneo, serata che andrà in scena sabato 6 luglio a Soliera (Modena) all’interno del festival Arti Vive. Organizzata e diretta da Giorgio Spedicato (in arte Machweo), giovane musicista italiano, la serata a ingresso gratuito vedrà su un unico palco undici musicisti, per una sola volta, a creare un’irripetibile performance di improvvisazione musicale collettiva ed estemporanea. Il nome scelto per l’evento non è casuale, come spiega il comunicato diffuso per presentare il progetto: «così come il Mar Mediterraneo rappresenta da millenni un luogo di incontro di popoli e di culture, il progetto Mediterraneo nasce per mettere in musica, con coraggio e orgoglio, il valore e l’importanza della coesistenza e della contaminazione». Sul palco ci saranno per l’appunto James Holden insieme al produttore salentino Populous, e a Emma-Jean Thackray (tra i migliori nomi del nuovo jazz inglese), Any Other, Bienoise, Flu degli Inude, la sassofonista sperimentale Laura Agnusdei, Giulio Stermieri al piano, Antonio Rapa (batterista), Dario Martorana (chitarrista) e lo stesso Machweo.

Abbiamo colto questa occasione per fare con James Holden il punto sulla sua ormai lunga carriera e per parlare di questo progetto molto speciale.

Il tuo percorso musicale è passato da remix per pop-star enormi come Madonna e Britney Spears a lavori influenzati da Terry Riley, da hit trance al cosmic jazz, da dj set di fama globale a improvvisazioni per piccoli pubblici. Se ti guardi indietro qual è, se ce n’è uno, l’elemento che tiene insieme tutti i progetti a cui hai lavorato finora?
Credo che sia il fatto che seguo sempre il mio naso, cercando di trovare qualcosa che mantenga vivo il mio interesse e… davvero cercando ogni volta di raggiungere uno stato di trance. La mia cosa preferita che la musica può fare è ipnotizzarti, e questo non è cambiato in tutto il corso della mia carriera.

Dato questo tuo eclettismo, chi sono i musicisti, o altre fonti di ispirazione, che hanno avuto l’impatto più duraturo sulla tua carriera?
In realtà le mie più grandi influenze sono probabilmente Gemma di Border Community e Luke Abbott – il modo in cui siamo cresciuti insieme, supportandoci l’un l’altro, il modo in cui abbiamo imparato insieme e ampliato le nostre abilità nel corso degli anni è stato una vera gioia per me. Al di là di loro due credo Terry [Riley, ndr], perché anche prima di conoscere il suo nome ascoltavo già musica che non sarebbe potuta esistere senza la sua influenza. E forse anche Pharoah Sanders…

Un sacco di produttori al giorno d’oggi sembrano pianificare il loro lavoro tenendo presente che – 9 volte su 10 – saranno riprodotti su device non proprio ideali per la qualità del suono come cellulari e laptop. Ho letto da qualche parte che tu rigetti questa visione. In che modo questa «forma di resistenza» influenza il tuo processo di composizione?
Provo sempre a immaginare che l’ascoltatore sia qualcuno che possa comprendere. Quindi qualcuno che probabilmente ama la musica, e che se possiede qualche bene materiale è probabile che tra questi abbia un buon hi-fi o delle buone cuffie. Allo stesso tempo mi impegno comunque a mixare le mie cose in modo che si possano ascoltare anche attraverso delle casse di minor qualità… per non essere troppo elitario.

Sei uno dei musicisti, dj e talent scout più influenti della scena elettronica inglese, qual è la tua opinione sui suoi più recenti sviluppi? Ritieni che la Brexit si stia riflettendo anche su di essa?
Succede sempre qualcosa di eccitante qui – per esempio trovo che la scena jazz di Londra sia in grande spolvero e decisamente rinfrescante, per non dire dell’inesauribile underground della psych/weird – ma è uno strano momento per la musica, e sì, la B****t [lo scrive proprio così, ndr] ci fa sentire tutti un po’ dei pariah ancora prima di distruggere le nostre professioni.

Ho sempre trovato il titolo del tuo primo LP – The Idiots Are Winning («Gli Idioti Stanno Vincendo») – a suo modo divertente. Ma dopo Brexit, Trump etc… non più così tanto. Col senno di poi: lo consideri una sorta di profezia o non significava niente di specifico o di politico?
In realtà era una citazione da un programma tv che mi piaceva all’epoca [«Nathan Barley», scritto da Charlie Brooker e Chris Morris, ndr]. Una sorta di ironia circolare visto che il personaggio che pronunciava la frase di base era a sua volta chiaramente un idiota. Forse mi riferivo a me stesso, anche. Una cosa divertente è che l’incremento delle persone che hanno scelto di ascoltare o condividere quell’album nel periodo del voto su B****t e delle elezioni americane è stato grande abbastanza da farci fare un salto enorme nelle statistiche di Spotify (ok, è divertente ma… non così divertente). Suppongo di essere leggermente depresso circa il limitato potere della musica nel porre fine a tutto questo nonsense…

Di recente hai lavorato alla colonna sonora del film A Cambodian Spring. Dato il tema non proprio leggero (il film, per la regia di Chris Kelly, è un documentario che racconta il conflitto intorno ai piani per lo sviluppo del lago Boeung Kak nella capitale cambogiana di Phnom Penh), come ti sei posto rispetto al progetto?
A dire il vero l’ho trovato piuttosto liberatorio come lavoro – i personaggi, la storia e le immagini mi hanno fornito idee piuttosto chiare circa quello che volevo fare, e ho davvero apprezzato il modo in cui il giusto accompagnamento musicale riesce a dare ulteriore forza alla storia o aiutarla a raggiungere il suo pubblico. Mi è venuto tutto spontaneamente, suonando le tastiere mentre il film scorreva davanti ai miei occhi, con il mio fido Prophet-600 a fare il grosso del lavoro.

Negli ultimi anni hai collaborato con molti artisti diversi, dagli Animal Spirits al musicista marocchino Maalem Houssam Guinia: che cosa valuti maggiormente, sia dal punto di vista umano che artistico, nelle persone con cui scegli di lavorare?
Le collaborazioni rappresentano la parte migliore della mia carriera – le sfide più grandi ma anche le situazioni da cui ho imparato di più e tratto le maggiori soddisfazioni. Quando in una sessione dal vivo catturi qualcosa di davvero speciale che può esistere solo perché stavi suonando live con qualcuno… è una bellissima sensazione. Credo che le persone con cui ho scelto di lavorare siano perlopiù persone che sanno fare cose che io non sono capace di fare, ma anche persone unite da una qualche forma di interesse negli stati di trance – dalla connessione religiosa della band di Guinia all’ossessione di Waclaw Zimpel per il minimalismo poliritmico e per la musica classica dell’India meridionale.

Più di un anno fa, ho avuto il piacere di chiacchierare e suonare un po’ di dischi con Machweo in una web-radio milanese: Radio Raheem. Pochi giorni prima proprio tu ti eri pubblicamente complimentato con lui per il suo lavoro. Ricordo che Machweo quasi non riusciva a credere fosse successo davvero. Detto che Giorgio è una persona incredibile e un musicista di enorme talento, che merita tutti i riconoscimenti che sta ricevendo: come lo hai scoperto e cosa ti ha colpito fin da subito nel suo lavoro?
In realtà abbiamo cominciato a parlare online per via di un software che ho scritto (che aiuta i computer a suonare con il genere di variazioni ritmiche naturali che fanno le persone anziché con la rigidità di una macchina), e rimasi subito affascinato dal pezzo su cui lo stava usando. Quando ci siamo incontrati, ci siamo intesi da subito… mi ricorda un po’ il giovane me stesso o qualcosa del genere – qualcuno che punta in alto, a volte magari fallendo ma sempre e comunque puntando in alto.

Durante Mediterraneo ti troverai ancora una volta a improvvisare. Da The Inheritors in poi questa dimensione sembra essere diventata sempre più importante per te. Qual è la cosa che preferisci di quel tipo di esperienza e quali sono le sfide più grandi che porta con sé
Non penso di aver mai creduto nell’idea di comporre scrivendo. I momenti migliori sono quelli che semplicemente ti gocciolano dalle dita: la mano di dio, l’incidente fortunato, la collisione serendipica… Si può chiamarla in molti modi. In parte credo sia una reazione personale al fatto che odiavo moltissimo suonare nell’orchestra della scuola. Ma davvero: la mia reazione alla tua reazione alla mia reazione alle tue belle note… questo è il genere di feedback frattale, di loop caotico che genera una ricchezza e una veridicità intuitiva che nessuno, nemmeno un genio, potrebbe scrivere. La sfida è rappresentata dalla paura di non trovare nulla di buono. Ma è l’unica via.

Mediterraneo è prodotto dal circolo Arci Mattatoyo di Carpi in collaborazione con Arti Vive.