Insurrezione gotica

Negromanti di tutto il mondo, unitevi! Per sconfiggere la neoreazione del cyber-medioevo, scateniamo i morti e facciamo a pezzi il tempo

Stiamo sprofondando in un nuovo medioevo. Il tradizionalismo, il fondamentalismo e le politiche regressive delle nuove destre stanno corrodendo la modernità dall’interno, incatenandone le forze propulsive – piegando i mezzi tecnologici a fini militari, propagandistici e repressivi. Fenomeni climatici estremi, epidemie, eserciti che da oriente premono ai confini dell’occidente, corporazioni di avidi mercanti, crisi finanziarie (sempre più simili a ondate di carestia), paranoie apocalittiche partorite da culti millenaristi, sono le piaghe divine che si abbattono su un pianeta martoriato. Si sarebbe quasi tentati di dire che il passato non sia mai stato così vicino al futuro, al punto da costringerci a dubitare che l’epoca moderna non sia stata solo un lungo sogno: la Terra promessa, pacificata e sapientemente governato dalla cibernetica, si sta trasformando in un incubo cyber-gotico martoriato da conflitti, bigottismo e superstizione. In ogni parte del globo, i movimenti reazionari invocano la chiusura dell’epoca moderna e il ritorno a varie configurazioni precedenti.

In Spettri di Marx Jacques Derrida, il fondatore del decostruzionismo filosofico, introduce un concetto utile a comprendere tali andamenti a carattere retro-progressivo: si tratta della nozione di «spettrologia», ossia dell’analisi dei fenomeni di ritorno dei fantasmi del passato (i cosiddetti revenant). Ancor prima di Derrida, Walter Benjamin si era già occupato della riattivazione degli eventi passati − come nel caso del recupero, da parte di Robespierre e dei rivoluzionari francesi, del patrimonio culturale e politico dell’antica Roma. Per Benjamin questo tipo di accesso presente alle stanze del passato rappresenta «Il balzo di tigre […] che taglia il flusso lineare della storia», sarebbe a dire una rielaborazione creativa delle reliquie di un passato ormai perduto. Senza questa costante attività di mascheramento teatrico, che va dalla tragedia alla farsa e dalla farsa alla tragedia, la storia stessa non sarebbe che un susseguirsi di istanti tra loro indistinguibili. Partendo da questo presupposto, Derrida evidenzia come tale cortocircuito ci obblighi ad ammettere l’impossibilità di solidificare una volta per tutte il terreno della storia, dichiarando «morte e sepolte» delle serie di eventi passati.  Il tempo storico, di fatto, sembra manifestare diversi aspetti catastrofici, essendo in grado di rovesciare il presente nel passato, alterando il corso degli eventi.

Tuttavia, a differenza di Benjamin, Derrida si occupa anche di un diverso genere di eventi storici, quelli presagiti o anche solo sperati e tuttavia mai verificatisi. Uno degli esempi più celebri di eventi di questo tipo è rappresentato dall’incipit del Manifesto del Partito Comunista: se, come scrive Marx, «Uno spettro s’aggira per l’Europa» è perché la linea temporale che questo spettro porta con sé, quasi si trattasse delle sue catene, non si è mai realizzata, andando a sprofondare tra le rovine abissali della storia. La spettrologia, dunque, si occupa anche di un particolare tipo di non-eventi storici, i «futuri perduti» che possono essere riattivati nel presente. La rivoluzione è la catastrofe incarnata da questo spettro, l’evento inatteso che potrebbe piombare sul mondo come un fulmine, alterando il normale corso degli eventi.

Sia nel caso del futuro-passato di Benjamin che in quello degli eventi mai avvenuti di Derrida, la progressione calendrica che avanza inesorabilmente dal passato verso il futuro viene spezzata da un’interazione apparentemente impossibile, sia dal punto di vista storico sia da quello fisico: un elemento ormai scomparso o mai avvenuto, un evento assente o materialmente irrecuperabile, fa la sua comparsa proprio su quella sezione della catena che dal presente si lancia verso il futuro.

Eppure, come precisa lo stesso Derrida, sarebbe un grave errore credere che si tratti di una sorta di fenomeno ciclico (l’eterno ritorno dell’identico): il fantasma non coincide con la persona di cui porta il nome, non ne condivide la medesima carne, né le ossa, né le intenzioni; si tratta di un doppio atmosferico, inconsistente e tuttavia terribilmente materiale, capace di scuotere, urlando e mormorando dalle tenebre, le fondamenta storico-biografiche sulle quali poggiano individui e comunità. A sua volta, questo nostro passaggio dall’epoca cibernetica a quella cyber-gotica denota una paradossale unione tra l’apice della modernità, rappresentato dalle tecnologie digitali e dall’iper-connettività, e il Basso Medioevo, periodo caratterizzato da un’elevata frammentazione politica, da una terrificante diffusione di catastrofi naturali, economiche e politiche e, per l’appunto, dalla vertiginosa trascendenza dell’architettura gotica. Ci ritroviamo schiacciati tra la nostalgia reazionaria per un tempo mai vissuto (e forse mai esistito), e il perturbante ritorno fantasmatico di un’epoca estranea al nostro continuo storico. L’unica via di fuga è verso l’alto, come ci ricordano le tetre cattedrali di un tempo…Volare via al tramonto della civiltà, come pipistrelli. Insurrezione gotica.

L’arte è senza dubbio uno dei principali mezzi attraverso cui gli spettri del passato fanno il loro ingresso nella dimensione presente. Un esempio di discontinuità storica nel senso elaborato da Benjamin si può trovare nell’arte della Rivoluzione francese. Attraverso l’opera pittorica di Jacques-Louis David, la morte di Jean-Paul Marat – sgozzato nella sua vasca da bagno da Charlotte Corday, nel tentativo di porre fine alle violenze rivoluzionarie − riecheggia quelle di Socrate e Seneca, pensatori uccisi o, meglio, «suicidati» da forze politiche conservatrici e feroci oppositori degli eccessi aristocratici.

La Morte di Marat di David, che ritrae il giacobino in veste di martire della rivoluzione, divenne ben presto uno dei simboli del mondo che lo stesso Marat aveva contribuito a edificare. Un esempio riguardante il secondo tipo di discontinuità, quella analizzata da Derrida, ci è invece fornito da Mark Fisher. In un’intervista del 2007 a William Bevan (che verrà in seguito inclusa nell’antologia Ghosts of My Life), Fisher applica la spettrologia derridiana alla musica del progetto elettronico Burial. In gioco vi è l’eredita della cultura rave (quella che Simon Reynolds ha definito «hardcore continuum»): se buona parte del dubstep è determinato da un inasprimento degli stili precedenti e da un impiego di linee musicali piatte, claustrofobiche e oppressive, l’elettronica di Burial si dispiega lungo atmosfere attraversate da scampoli sonori ed echi distanti di voci campionate, nonché da forti contaminazioni soul e hip-hop. Nelle sue composizioni, Bevan/Burial non rielabora alcuna eredità artistica o culturale, all’inverso «Burial ri-sogna il passato, condensando i cimeli di generi caduti in disuso all’interno di un montaggio onirico; il suo sound è pervaso dal lutto piuttosto che dalla malinconia, giacché desidera ancora raggiungere l’oggetto perduto, rifiutandosi di abbandonare la speranza che esso possa un giorno tornare». L’atmosfera dominante, in questo caso, è la nostalgia per un futuro mai realizzatosi e mai vissuto: Bevan cresce lontano dalla scena rave e, tuttavia, la musica di Burial riesce a rievocare i sogni infranti e le speranze di ripresa economica e culturale del periodo postbellico.

A più di dieci anni di distanza dall’intervista di Fisher, basta guardarsi attorno per individuare, nella musica contemporanea, numerosi altri esempi di questo tipo: la vaporwave, il revival thrash metal, il post-rock, il post-hardcore, il gaze-metal, l’indie revival, la lo-fi. Burial è solo uno tra gli innumerevoli casi di riattivazione nostalgica di un passato mai vissuto e di un futuro mai avveratosi, un fatto che ci conduce direttamente al cuore del problema: se la nostalgia e il rimpianto per un passato immaginario rappresentano le basi affettive del reazionarismo, come far combaciare le rovine della compianta storia «monumentale» con la riattivazione dei futuri perduti?  Come accogliere l’imminente epoca cyber-gotica senza mettere il piede in fallo tra i relitti del fascismo? Credo che una risposta possa giungere proprio dal panorama musicale, per di più da dove meno ce la si aspetterebbe, ossia dal black metal (un’analisi di questo tipo è stata già tentata in passato dallo stesso Fisher e se ne può trovare traccia su Xenogothic).

Il black metal è un genere di per sé nostalgico, essendo animato dal rimpianto per una purezza perduta e tuttavia recuperabile ‒ una purezza del suono e dell’attitudine nei confronti del pubblico, della stampa e della grande distribuzione. Pur essendo poeticamente e stilisticamente incentrato sui temi della morte, della sparizione e dell’annientamento di tutto ciò che esiste, il black metal è uno dei generi musicali più reazionari, più conservatori e più legati all’immaginario medievale. Nelle mani dell’estrema destra, difatti, il black metal sembra mutare con estrema facilità in una forma di rivendicazione etnica, nazionalista e tradizionalista (si veda, ad esempio, l’ultimo singolo dei francesi Peste Noire, «Aux Arms!»). Tuttavia, alcuni aspetti del black metal delle origini potrebbero consentirci di comprendere meglio il desiderio reazionario e anti-moderno, permettendoci di introdurre una particolare forma di «doppia spirale vampirico-spettrologica», una caratteristica che tenterò di illustrare attraverso l’opera musicale di due band classiche: Bathory e Darkthrone.

La nostalgia del black metal europeo sembrerebbe riguardare un passato mitico, piuttosto che un passato storico o religioso, consentendoci di opporre al reazionarismo delle nuove destre un tipo di distorsione temporale differente da quella sostenuta, in tempi recenti, dalle destre alternative anglo-americane. Per questo motivo, sarà innanzitutto necessario occuparsi del concetto di «neoreazione», ossia, come vedremo, del parente più stretto, sia sul piano teorico che su quello linguistico, della categoria storica di cyber-gotico. 


La neoreazione o NRx o Dark Enlightenment («Illuminismo Oscuro») è un movimento ispirato agli scritti di Nick Land, il padre dell’accelerazionismo, e Mencius Moldbug aka Curtis Yarvin, informatico e teorico politico. La proposta neoreazionaria consiste in una sorta di programma aperto per la dissoluzione della modernità, declinato all’interno di una cornice politica comprendente neo-monarchici, fascisti, nazionalisti identitari, darwinisti sociali, transumanisti, accelerazionisti tecno-commercialisti, neo-cameralisti corporativi, anarco-capitalisti e persino alcuni anarco-papisti.

A differenza dei classici movimenti reazionari e tradizionalisti, la neoreazione, pur rappresentando un rovesciamento del progetto illuminista, non rigetta le conquiste scientifiche della modernità, avvalendosi di qualsiasi mezzo tecnoscientifico adatto a raggiungere i propri obiettivi, sarebbe a dire la frammentazione degli stati-nazione in una miriade di città-stato e micro-nazioni, la distruzione dell’universalismo e la fine della democrazia rappresentativa.

Un ulteriore elemento che distingue la NRx dal comune reazionarismo (e persino dalle nuove destre) è che, sebbene anch’essa reputi la democrazia e l’universalismo dei diritti come le principali cause di un processo di decadenza economica e culturale, i suoi esponenti non si prongono come fine ultimo la restaurazione di un antico splendore edenico. La neoreazione propugna, al contrario, una rielaborazione del realismo politico fondata sui concetti di dissipazione e metastabilità: niente dura per sempre e violenza e sopraffazione sono le leggi che governano l’universo, per questo motivo è necessario governare spietatamente, concependo strutture sociali piccole, maneggevoli e durevoli. Per la NRx il pensiero democratico-progressista-universalista avrebbe ignorato la brutale realtà dei fatti, tentando di incatenare la crudele spontaneità della natura e degli esseri umani all’interno di un mondo immaginario, incentrato sull’uguaglianza, sulla solidarietà e sul presupposto che la natura, e in particolare quella umana, siano intrinsecamente benevole. A partire da questi presupposti, l’occidente avrebbe tentato di tenere uniti interessi economici, ideologie, religioni, genealogie e stili di vita differenti, condannando le proprie istituzioni politiche e culturali (ossia scuole e accademie) alla mediocrità e all’assoggettamento da parte di «lobby minoritarie» ‒ chinando il capo dinnanzi alla regola per la quale ciascuno è speciale e degno di rispetto. Idee egalitarie così radicate nella società e nella storia occidentale da costringere la stessa neoreazione ad analizzare ed esaminare nel dettaglio la propria produzione teorica.

Scrive Land: «L’ultima cosa di cui la neoreazione ha bisogno è dichiarare di “avere un sogno”. I nostri nemici sono venditori di sogni. L’unico futuro per cui vale la pena lottare è frammentato in una miriade di schegge, vagamente connesse tra loro da legami fondati sul concetto di libera-uscita [dalla democrazia]. Saranno condotti innumerevoli esperimenti di governo e la gran parte di essi finirà per fallire. Non sappiamo e non possiamo sapere cosa vogliamo, non più di quanto possiamo sapere come saranno le macchine del prossimo secolo, giacché le possibilità reali dovranno essere scoperte, non immaginate».

Curiosamente, l’NRx ha ribattezzato l’insieme delle forze alle quali si contrappone «La Cattedrale», alludendo a delle ipotetiche origini religiose di questa dottrina che si sarebbero secolarizzate nel corso dei secoli ‒ una tradizione che si potrebbe far risalire al Rinascimento, culla dell’umanesimo universalista ed epoca dell’ipotetica liberazione dall’oscuro giogo medievale. Al fine di abbattere l’egemonia «unitarista» della Cattedrale, la più celebre elaborazione teorica neoreazionaria propone una strategia di uscita dalle attuali formazioni statali, attraverso la costituzione di corporazioni e regioni autonome, accomunate da legami economici, etnici o religiosi ‒ fino a giungere alla fondazione di metropoli corporative governate da monarchi-CEO, consigli di amministrazione e corpi di polizia.

Riattivando concetti, valori e metodi d’indagine premoderni e adattandoli alla contemporaneità ‒ riuscendo a radunare attorno al medesimo obiettivo interessi e posizioni differenti o tra loro contrastanti ‒ la neoreazione fa efficacemente collassare il passato su un futuro pluri-distopico (ovviamente da una prospettiva democratica o anti-autoritaria). Come precisa lo stesso Land: «Se si traducesse il termine “neoreazione” come “nuova reazione” non si presterebbe il fianco a obiezioni di sorta. Essa è effettivamente nuova e aperta alle novità […] [La neoreazione] non promuove unicamente una drastica regressione ma anche una drastica regressione altamente avanzata. Come i termini retrofuturismo, paleomodernismo e cyber-gotico, la parola neoreazione racchiude in sé un vettore a doppia spirale che avanza verso il passato e retrocede verso il futuro […] la neoreazione è una crisi temporale che si manifesta attraverso un paradosso».

Avvalendosi del perverso genio filosofico e comunicativo di Land, la neoreazione, ben conscia del fatto che «nessuno è mai morto di contraddizioni», è riuscita a pensare con successo la pluralità ontologica, politica ed esistenziale, per di più senza degenerare nel rimpianto e nella nostalgia per un mondo incontaminato ‒ contribuendo a rovesciare il progetto illuminista nel tenebroso calderone d’olio bollente del nuovo Medioevo. Una vittoria pagata a caro prezzo. Di fatto, asserendo che l’ordine possa emergere solo dal caos e dalla violenza, l’NRx espone totalmente il fianco a forze ancor più caotiche e violente, ad antichi orrori morti solo in apparenza.

Per affrontare la neoreazione dovremo penetrare a fondo nel suo stesso campo, impiegando in modo differente le armi che essa ha elaborato. Forse, facendo nostri sia lo spirito reazionario che la sete di annientamento del black metal saremmo capaci di colpire trasversalmente questo avversario dalle mille teste e decapitarlo, come con un fendente di spada ben assestato.

Un’impresa più facile a dirsi che a farsi. Il gelido sound del metallo nero si agita, gracchia stridulamente e tenta di ghermirci con in suoi artigli: non ama essere analizzato, riassunto, glossato. In fin dei conti, non ama affatto… Non appena si pronuncia un verdetto esso lo rigetta, fuggendo nel passato, se interrogato sul futuro e lanciandosi nel futuro più remoto (l’apocalisse), se interrogato sul passato. Volando attraverso le ere come un corvo immortale, il black metal abbandona il presente, andando alla ricerca di crudeltà sempre più raffinate e sempre più immorali ‒ se il medioevo gli verrà a noia si lancerà sull’antica Grecia o sulle civiltà mesoamericane, oppure tornerà a infestare i miti norreni a lui cari o a contemplare la fine del mondo. La neoreazione dovrebbe temere questa nera creatura, poiché essa, pur possedendo le sue stesse capacità crono-paradossali, non desidera né costituire né liberare alcunché. In quanto spirito puramente negativo essa è costretta a negare, ancora e ancora, ogni teoria, ogni prassi, ogni istanza e ogni collettività terrena, spingendosi sempre oltre. Raramente il blackster riesce a impossessarsi di entrambe le facoltà della nera bestia, limitandosi a rimanere orbo come il vecchio Odino, imbambolato a fissare il vuoto anti-cosmico o gli splendori fantasy di epoche passate. Tuttavia, per divenire crono-guerrieri, dobbiamo sforzarci di acquisire entrambi gli occhi magici. 

Sebbene l’heavy metal e il rock abbiano trafficato con Satana, con i miti pagani e con la stregoneria fin dalle loro origini, il black metal primordiale di Venom, Mercyful Fate, Bathory ed Hellhammer/Celtic Frost ha trasformato questi labili legami in una sorta di fusione simbiotica. Dopo alcuni album incentrati su satanismo, negromanzia e provocazioni assortite, furono proprio i norvegesi Bathory, fondati dal leggendario Tomas «Quorthon» Forsberg, a dar vita a quello che sarebbe divenuto uno dei più celebri sottogeneri del black metal, il viking metal ‒ stile musicale contraddistinto da un ampio impiego di strumenti tradizionali e da tematiche pagane. La mutazione diviene ancor più appariscente se si confronta il primo album viking dei Bathory, Hammerheart, con la musica e i testi di altre formazioni precedenti, incentrate su tematiche molto simili, quali Manilla Road, Heavy Load, Manowar, Cirith Ungol, Omen, Virgin Steele, Brocas Helm, Warlord e Blind Guardian.

Prima di Hammerheart il metal si interessa per lo più al fantasy weird di R. E. Howard, all’high fantasy di matrice tolkeniana e agli universi GDR di Dungeons & Dragons, puntando ‒ come nel caso del satanismo ludico e dissacratore dei Venom ‒ a una spettacolarizzazione visuale e musicale dei temi trattati. Questa attitudine nerd assume, nel corso degli anni Ottanta e Novanta, due diverse forme: da un lato essa si esprime attraverso il panorama underground, confluendo gradualmente, grazie all’enorme influenza di Manilla Road e Cirith Ungol, nel sottogenere conosciuto come doom metal (in questo caso si parla di «epic doom metal»); dall’altro, essa diviene mainstream, dando origine al sound eternamente adolescenziale del power metal e agli eccessi iper-machisti dei Manowar di Hail to England. Dopo aver sperimentato rallentamenti, tematiche vichinghe e stacchi acustici su Blood Fire Death (1988) i Bathory, con Hammerheart, definiscono non una terza posizione ma una linea di fuga dalla dialettica epic/power metal: ancora troppo veloci e troppo poco «sabbathiani» per l’epic doom, troppo aggressivi e tecnicamente minimali per il nascente power metal. I Bathory, uno strano miscuglio di heavy metal e punk rock, hanno gettato le fondamenta storiche, musicali ed etnomusicologiche del black metal scandinavo, curandosi, al tempo stesso, di rifiutare anche questa quarta possibile categorizzazione, dando origine a un nuovo tipo di folk-music.

In un’intervista del 1996 con Sigurd «Satyr» Wongraven (membro dei seminali Satyricon), per la fanzine Nordic Vision, Quorthon racconta l’incontro con Randall J. Stephens, autore del libro The Devil’s Music (incentrato sul difficile rapporto tra musica rock, religione e nazionalismo): «Credo fosse il periodo in cui era appena uscito Blood Fire Death. Mi chiese perché stavo facendo questa roba sui vichinghi e se non pensavo che tutto ciò avrebbe condotto al nazionalismo o a roba del genere. Risposi che si trattava di fatti, di una serie di fatti storici. Per noi si tratta di fatti storici e di un modo per costruirci un’identità; se non si conosce la propria storia non si può affrontare il futuro. Fece dei commenti sul nostro simbolismo, perciò indicai il suo braccio, sul quale erano tatuate una stella rossa e una freccia nera […] Rispose che non si trattava di quello in cui credono le persone ma io dico che anche questa è ideologia. Il comunismo russo non era comunismo ma fascismo […] Dobbiamo giustificare la cultura e la storia nordiche, per far sì che non scompaiano. Se tutti arriveranno a pensare alla maniera in cui i governi desiderano che si pensi, allora tutto ciò che amiamo, tutto quello per cui lottiamo, svanirà rapidamente».

Sebbene Quorthon abbia, in seguito, preso le distanze da qualsiasi forma di tradizionalismo, non si può fare a meno di dare un certo peso alle sue precedenti affermazioni. Non si può neppure ignorare la carica affettiva di alcuni frammenti testuali dei Bathory, come nel caso del seguente passaggio tratto da «Baptised in Fire and Ice» ‒ brano aperto da feroci percussioni tribali che sembrano voler dichiarare guerra a tutto e tutti:

Proudly my Father took me in
his arms and walked outside
where for the first time
light struck me newborn child
and even though told when older
I can almost recall the scene
when he held me high up towards
the most beautiful sky ever seen

[…]

I grew and learned respectfully
the Earth, Wind, Water and the sky
the powers that decided the weather
and rules both the dark and light
I heard the voices of the spirits
of the forest call my name
I saw the Hammer way up high
cause lightning in the rain.

Bathory, «Baptised in Fire and Ice», Hammerheart, Noise Records, 1990.

Il sound dei Bathory del periodo folk è permeato da evocativi tappeti sonori che non lasciano respiro; la voce di Quorthon è una eco proveniente da epoche remote, mentre strumenti tradizionali, ballate acustiche e campionamenti di suoni naturali sembrano quasi irrompere all’interno del tessuto metallico dei brani, andandosi a stratificare per dar vita al continuum sonico dei brani. Nel bel mezzo di questo habitat spettrale, il folk, il metal e il punk si incontrano nella radura di un’era più distante della Londra post-bellica di Burial, ossia la Scandinavia delle popolazioni pre-cristiane.

È interessante notare come negli album dei Bathory successivi al 1987 non vi sia traccia né di posizioni anticristiane né di celebrazioni neopagane: le storie di vita quotidiana, le dettagliate descrizioni di sensazioni personali e paesaggi naturali sembrano emergere spontaneamente dall’atmosfera onirica, come frammenti di un unico, grande sogno collettivo. Quorthon è il canale sciamanico attraverso il quale si esprimono gli spiriti degli antenati e dei luoghi. Le caratteristiche spettrologiche del viking metal dei Bathory riguardano dunque il secondo tipo di discontinuità cronologica, quella dominata dalla nostalgia per un passato mai vissuto e per un futuro mai realizzatosi. Il tempo rievocato da brani quali «Foreverdark Woods» è quello in cui la cristianità medievale annegò nel sangue il mondo pagano (tra l’ottavo e il dodicesimo secolo), annientando e stigmatizzando quel mondo barbarico di cui il popolo vichingo è divenuto emblema nel corso dei secoli. Come suggerisce lo stesso Quorthon, conoscere il passato significa saper affrontare il futuro, impedendo che gli interessi economici e lo storicismo (l’idea, tipicamente occidentale e moderna, per la quale il divenire temporale e il progresso dell’umanità coinciderebbero) seppelliscano per sempre biografie, miti, pratiche e visioni del mondo. La prima spirale del black metal europeo, quella spettrologica, ha per protagonista un personaggio mitico e dai contorni indefiniti: il barbaro. 

Il termine «barbaro» deriva etimologicamente dalla parola greca βάρβαρος (bárbaros), che denota lo straniero balbuziente, ossia incapace di parlare il greco o capace di parlare unicamente lingue caratterizzate dalla ripetizione di sillabe simili tra loro. Nell’antica Grecia, l’esclusione dello straniero dalla sfera dell’intelligibilità linguistica si accompagna alla sua emarginazione dalla vita politica e sociale della città (lo stesso Aristotele, originario della città macedone di Stagira, non acquisì mai alcun diritto di proprietà, trovandosi costretto ad affittare l’edificio nel quale fondò la propria scuola).

Come è ben noto, abitudini di questo tipo si tramutano ben presto in fatti comunemente accettati: essendo privo di parola e incapace di partecipare alla politica ‒ un’attività essenzialmente fondata sul discorso ‒ il barbaro è più simile all’animale che all’umano, configurandosi come privo di diritti ed esterno alla storia. Giudizio che si inasprirà durante il medioevo, come testimonia la Summa Contra Gentiles (Somma Contro i Gentili,1269-1273) di Tommaso d’Aquino: il barbaro, in questo caso, è esemplificato dalla figura del «gentile», termine ombrello che, di volta in volta, designa il pagano, l’eretico, il musulmano o l’ateo. Lo stesso presupposto teorico della Summa è portatore di una certa violenza simbolica: per Tommaso, infatti, le verità fondamentali della fede cristiana sarebbero di per sé evidenti all’intelletto naturale, ossia alle capacità intellettuali di cui gli esseri umani sono universalmente dotati. Ne deriva implicitamente che coloro i quali si ostinino a negare o a confutare tali verità debbano essere necessariamente, se non dei peccatori in malafede, degli idioti, dei folli o delle creature sfortunatamente prive del lume naturale ‒ ancora una volta, delle bestie.

In occidente, il confine storico tra l’essere umano e l’animale non-umano si sposta seguendo pedissequamente questa serie di concetti: la parola, la partecipazione politica e la ragione. Trovarsi dalla parte sbagliata della linea di confine significa essere barbari o semi-barbari. Il termine «barbaro», dunque, designa quegli individui e quei gruppi che, in ogni epoca, divengono il principale bersaglio della violenza collettiva di chi si trova dalla parte «giusta» della linea di confine, ossia i civilizzati (coloro i quali hanno appreso a vivere in città). Tuttavia, per il civilizzato, il barbaro rappresenta anche le magmatiche e imperscrutabili moltitudini situate al di là di questo confine: miriadi selvagge, partorite dal caos, che si accalcano al confine per oltrepassarlo e invadere il mondo civile.

Negli incubi degli esseri umani il barbaro per eccellenza è perciò il «berserkr», il guerriero-sciamano che, vestito di sole pelli animali, cadeva in una sorta di stato di trance o di possessione spiritica, combattendo indisciplinatamente, fuori dai ranghi e persino a mani nude, senza accusare dolore o stanchezza. Come riporta lo storico e poeta islandese Snorri nella sua Saga degli Ynglingar: «Andavano senza corazza, selvaggi come dei cani o dei lupi […] forti come degli orsi e dei tori. Massacravano gli uomini e né il ferro né l’acciaio potevano niente contro di loro. Questo si chiamava furore di berserkir».

Il legame tra i berserkr e le bestie feroci quali orsi o lupi, tuttavia, non si limita alla metafora; secondo le leggende, questi guerrieri barbari sarebbero stati effettivamente in grado di assumere la forma del proprio animale totemico, annullando in modo weird (bizzarro o misterioso) il confine tra l’umano e l’animale ‒ un problema, quello dell’esatta distinzione tra «divenire-orso» e «divenire-come-un-orso», che non può non tormentare il civilizzato tracciatore di confini. Per dirla con il Land di «Spirit and Teeth» (testo presente nella raccolta intitolata Fanged Noumena), essere un berserkr, ossia essere un lupo o un orso mannaro o una qualsiasi belva-umana, significa «Essere inferiore ai più basilari criteri di civilizzazione: a essergli estranea non è solo la disciplina della responsabilità politica ma anche l’intera storia del lavoro, nella quale tale disciplina è inserita […] Se comparato con la pietà, la moralità e l’industriosità dei suoi superiori esso esibisce unicamente pigrizia, disobbedienza e una repressione particolarmente mal riuscita di quei tratti dell’inconscio che Freud descrive come “resistenti all’educazione”»; aspetti evidenziati anche dal poeta francese Arthur Rimbaud, che in Una Stagione all’Inferno scrive: «Ho dei miei antenati Galli l’occhio blu slavato, il cervello stretto e la goffaggine nella lotta. Trovo il mio vestire barbaro quanto il loro […] è ben chiaro che sono sempre stato di una razza inferiore».

Essendo restio all’educazione, al discorso e al calcolo razionale, il barbaro è alieno al logocentrismo occidentale, ossia a quella centralità della parola e dell’argomentazione che, fin dall’antica Grecia, domina i nostri paradigmi conoscitivi e relazionali. Esso, tuttavia, ha differenti modi di conoscere il mondo e rapportarsi con esso: «I heard the voices of the spirits of the forest call my name», scrive Quorthon ‒ o qualche spettro norreno attraverso di lui. Il barbaro non traccia confini permanenti, preferisce passare da una dimensione all’altra a seconda del bisogno: «Man and beast was one, and the gods of the sky walked the face of the earth» (Bathory, «Blood and Iron», Twilight of the Gods, 1991, Black Mark Production). La foresta parlava con voce non-umana, gli dei non erano stati relegati a un cielo irraggiungibile, gli umani non erano stati separati dai non-umani; la natura era una cosa sola e, al tempo stesso, molte cose costantemente impegnate a conoscersi, relazionarsi e interpretarsi a vicenda.

Si tratta di un paradigma mitico, non religioso, organizzato tramite coordinate piuttosto che attraverso una serie di comandamenti: le montagne, ad esempio, potrebbero essere giganti pietrificati, alludendo a un’epica battaglia tra le forze del caos primordiale e gli dei della natura; in questo caso, l’estrazione e la lavorazione del ferro dal ventre della montagna consentirebbe di attingere alla forza degli antichi giganti, ma anche alla sapienza divina, ossia tecnologica, della forgia.

La nostalgia pagana dei Bathory ha poco a che fare con il nazionalismo o con il reazionarismo; essa riguarda, piuttosto, il rimpianto per un mondo spezzato ‒ per la violazione della natura, per l’assoggettamento dell’Europa al diritto e alla cultura della «razza» dominante. Il mondo spettrale che la musica dei Bathory canalizza nella nostra epoca (il «Medioevo possibile» che essa incarna), è non cristiano, non razionalista, non umanista e non universalista. Tuttavia, a differenza degli amanuensi della neoreazione corporativa ‒ curvi sui loro codici sorgente ‒ per il barbaro nomade non civilizzato l’economia è una questione di saccheggio o di gestione domestica, non di produzione di massa. Lo storico romano Ammiano Marcellino asserisce, a proposito degli Unni, che: «Nessuno di loro ara né tocca mai la stiva di un aratro. Infatti, tutti vagano senza aver sedi fisse, senza una casa o una legge o uno stabile tenore di vita. Assomigliano a gente in continua fuga sui carri che fungono loro da abitazione […] Sono infidi e incostanti nelle tregue, mobilissimi ad ogni soffio di una nuova speranza e sacrificano ogni sentimento ad un violentissimo furore». E la guerra, il mezzo del saccheggio, rappresenta per il barbaro non una mobilitazione generale di ranghi, corpi e formazioni disciplinate (ossia una vasta operazione di polizia), né un impeto conquistatore animato dal desiderio di fondare uno stato o un impero, ma un assalto disordinato, per lo più seguito da una fuga o da una richiesta di riscatto.

Assieme ad antiche modalità di interpretazione del mondo e a un tentativo di riunificazione con la natura, i barbari portano nell’era cyber-gotica i furori della guerra e del conflitto. Scrivono Deleuze e Guattari in Mille Piani: «[Il campo di battaglia] è un insieme complesso: divenire-animale del [guerriero], mute di animali, elefanti e topi, venti e tempeste, batteri che seminano il contagio. Un unico, uno stesso Furor. La guerra ha comportato sequenze zoologiche, prima di farsi batteriologica. È proprio là che proliferano i lupi mannari e i vampiri, con la guerra, la carestia, l’epidemia». Ed è proprio là che stiamo per andare, a caccia di vampiri. 

Nati nel 1987 come band death metal, i norvegesi Darkthrone hanno abbracciato, fin dalla loro seconda uscita A Blaze in the Northern Sky (del 1991), il black metal di matrice norvegese. Saranno proprio i Darkthrone, con il seminale Transilvanian Hunger, del ’94 ‒ un album dedicato, come dichiara la copertina, a «tutto il male presente nell’essere umano» ‒ a segnare il passaggio da un black metal ancora ispirato al thrash e al death metal (nonché al sound degli stessi Bathory), a qualcosa di radicalmente nuovo. La produzione sembra quasi sconfinare nel rumore e le melodie estremamente ripetitive si fondono per tessere una trama malsana e spettrale. Il «blast beat», il tipo di percussione che caratterizza il black metal fin dalla la seconda ondata, fa da sfondo a tutti i brani, contribuendo a produrre un’atmosfera estremamente alienante. Il risultato è un capolavoro minimalista, giacché Transilvanian Hunger racchiude in poche decine di minuti l’essenza stessa del perturbante (eerie): una ripetizione infinita con minime variazioni, silenzi che stordiscono squarciando il rumore, nessuna traccia di elaborazione artistica o di pensiero intelligente.

Puro automatismo, anonimo, incosciente, impersonale; un’opera che potrebbe essere stata composta dal vento tra le rocce montane o da una macchina ‒ e che, per certi versi, ricorda la mistica drone di So, Black is Myself di Keiji Haino o di Flight of the Behemoth dei Sunn O))). Transilvanian Hunger si abbandona totalmente alla pulsione all’estremizzazione caratteristica dell’heavy metal, saturando totalmente il campo del possibile: giunti a un tale livello di staticità e dilatazione sonica non vi è alcun modo di andare oltre. Come scrive Hunter Hunt-Hendrix, della band americana Liturgy: «[Transilvanian Hunger] è un’intensità totale, massimizzata. Una completa inondazione di suono. Una pienezza assoluta […] un luogo morto e statico, una landa artica senza alcuna oscillazione tra il giorno e la notte […] ebbra di purezza, totalmente assoluta, identica a se stessa ed eterna». Nel brano d’apertura dell’album, l’omonima «Transilvanian Hunger», le urla disincarnate di Ted «Nocturno Culto» Skjellum articolano frasi e parole sconnesse, che sembrano quasi sorgere dalla mente di un predatore assorto nella caccia:

Transylvanian hunger, cold soul

[…]

The mountains are cold, soul, soul
Careful, pale, forever at night

[…]

Embrace me eternally in your daylight slumber
To be draped by the shadow of your morbid palace
Oh, hate living
The only heat is warm blood
So pure, so cold

[…]

Hail to the true, intense vampires

[…]

Beautiful evil self to be the morbid count
A part of a pact that is delightfully immortal

Darkthrone, «Transilvanian Hunger», Transilvanian Hunger, Peaceville Records, 1994.

Dal titolo dell’album, fino al riferimento testuale al «macabro conte», i Darkthrone celebrano l’alleanza con una delle più celebri forze del male, il vampiro: «Careful, pale, forever at night […] A part of a pact that is delightfully immortal». Transilvanian Hunger materializza sonicamente l’eternità, riuscendo a rappresentarne la dimensione temporale ‒ un’impresa quasi impossibile per l’arte figurativa.

Ma come accade al vampiro, condannato a vivere per sempre senza poter mai più rivedere la luce del sole, il prezzo da pagare è il gelo e la totale assenza di vita. Per comprendere questo tipo di condizione negativa, la filosofia medievale scolastica ha elaborato una bizzarra ontologia dell’assenza, secondo la quale il freddo sarebbe assenza di calore, la morte assenza di vita e il male assenza di bene. Una serie di assenze che, paradossalmente, fanno percepire la propria presenza (quel «non-essere» che percepiamo quando qualcosa viene a mancare, nella malinconia e nella nostalgia). A partire da questa intuizione teorica, possiamo vedere come il tempo che si manifesta attraverso opere d’arte quali Transilvanian Hunger sia un tempo inumano o addirittura inorganico: il tempo della «non-morte» ‒ della misteriosa presenza dell’assenza ‒ un mondo popolato da forze e da entità impersonali che, pur non essendo vive, non possono dirsi morte, ossia prive di agenzia (golem, vampiri, spettri, cadaveri od oggetti animati, nebbie, divinità, fenomeni atmosferici, minerali, microorganismi, virus, macchine senzienti, ecc.).

Come evidenziato anche dai vari riferimenti a vampiri, troll, demoni e castelli, Transilvanian Hunger è un’opera prettamente gotica, incentrata sui temi dell’oscurità, dell’inconoscibile e dell’orrore soprannaturale. Oltre a un tipo di architettura medievale, il termine «gotico» si riferisce anche un genere letterario, originario del diciottesimo secolo, comprendente autori quali Walpole, Radcliffe, Polidori, Maturin e Lewis, nonché gli esponenti del cosiddetto «revival gotico» (o neogotico), come Mary Shelley e Bram Stoker. Nelle storie di questi autori il male, sotto forma di creature soprannaturali, irrompe nella vita quotidiana di individui innocenti, tormentando i protagonisti o facendo riemergere raccapriccianti verità sepolte ‒ è l’eterna lotta gotica tra le tenebre e la luce, tra la verità e la menzogna, egregiamente rappresentata in film come Nosferatu (1922).

Nel romanzo gotico il Medioevo, sempre presente sia a livello architettonico sia in quanto substrato storico, rappresenta la superstizione e la crudeltà delle epoche premoderne. È proprio l’apparizione nel presente di creature e forze ritenute frutto della perversa fantasia medievale, a suscitare nei protagonisti il dubbio o, meglio, la certezza, che l’epoca moderna abbia scelto di rimuovere dal proprio orizzonte conoscitivo orrori oltre ogni immaginazione. Il tempo gotico, dunque, non è isomorfico al Medioevo, trattandosi, piuttosto, di un tempo eterno e immobile, sospeso al di sotto del velo del presente ‒ pronto a ghermire quegli esseri umani abbastanza ingenui da andare a curiosare nei tenebrosi anfratti in cui il male si nasconde (sotterranei, castelli, cimiteri, cripte e chiese in rovina). 

Nessun romanzo appartenente a questo genere ha segnato l’immaginario collettivo quanto Dracula (1897) di Bram Stoker. Questo romanzo horror, ambientato nel 1890, narra le vicende del giovane avvocato Jonathan Harker, inviato in Transilvania per curare l’acquisto di alcune proprietà immobiliari in Inghilterra per conto dell’anziano aristocratico Dracula. Com’è noto, ben presto, Harker scoprirà che Dracula è un antico vampiro che, desideroso di prolungare la propria vita eterna e saziare la propria sete di sangue, ha deciso di trasferirsi nel cuore pulsante dell’Europa moderna. Jonathan, riuscito a fuggire dal castello del conte, torna in Inghilterra per affrontare il vampiro e salvare l’anima e la vita della sua sposa.

Se nel romanzo gotico le forze della luce sono solitamente rappresentate dalla morale cristiana, all’interno della cornice neogotica di Dracula si può assistere alla nascita di una nuova alleanza: quella tra religione, borghesia, scienza e capitale. Il vampiro, difatti, si ritroverà a essere ostacolato da uno strano asse che, più che simboleggiare le misere e tuttavia incrollabili forze dell’umanità, sembra rappresentare alla perfezione i valori della moderna società europea. In Dracula la squadra dei «buoni» ‒ armata di croci, corone d’aglio, acqua santa e ostie consacrate ‒ è composta da un vecchio scienziato superstizioso, il dottor Abraham Van Helsing, dal ricco texano Quincey Morris, dal dottor Seward, un noto psichiatra, dal nobile Lord Arthur Godalming, e, infine, dai due protagonisti, Johathan e Mina Harker ‒ il cavaliere senza macchia e la fanciulla in pericolo.

Le forze del male, al contrario, appaiono più esigue e più improvvisate: la squadra dei «cattivi», infatti, seppur capitanata da un Dracula nuovamente giovane e vigoroso, è formata solo da uno dei pazienti più gravi di Seward, lo zoofago schizo-paranoide Renfield, dalle «spose» vampiriche del conte e da un gruppo di nomadi che scortano Dracula e ne favoriscono gli spostamenti. Il rapporto duale che si viene a instaurare tra i due gruppi non è unicamente fondato su concetti appartenenti alla religione e alla morale (il bene contro il male), ma anche su distinzioni economiche, storiche e sociali: i pazzi contro i sani, l’erotismo contro il vero amore, i poveri contro i ricchi, l’aristocrazia contro la nobiltà, il passato contro la modernità. Questa marcata contrapposizione di ruoli fa sì che il lettore si immedesimi spontaneamente nella tragica figura del vampiro, che diviene così una delle più importanti figure dark della modernità ‒ consentendone la graduale trasformazione nell’antieroe reso celebre dai romanzi di Anne Rice. Tali nette distinzioni, tuttavia, contribuiscono anche a mettere in evidenza l’immoralismo e l’antimodernismo che caratterizzano il personaggio di Dracula.

A questo proposito, è interessante notare come il Dracula di Stoker possieda delle caratteristiche che rimandano immediatamente a un retaggio barbarico: gli animali selvatici sono suoi alleati naturali ed egli stesso può trasformarsi in un lupo o in un pipistrello; in più occasioni, inoltre, Dracula invoca le divinità norrene Thor e Odino, in nome dei propri antenati unni e vichinghi.  Una connotazione consapevolmente ricercata dall’autore che, non pago di far rivivere il sanguinario Vlad III «Tepes» («l’Impalatore») Dracul, ne ha al tempo stesso riscritto la genealogia, tracciando una simbolica linea di discendenza tra i feroci barbari sottomessi dai cristiani e il predatore demoniaco protagonista del romanzo.

Benché il vero e proprio Vlad III fosse già reputato dai suoi contemporanei un tiranno «selvaggio» e disumano ‒ al punto da essere ritratto mentre banchetta all’ombra di una pila di cadaveri ‒ è proprio il ritratto effettuato da Stoker a restituire il conte o, meglio, il principe di Valacchia, alla stirpe alla quale appartiene di diritto, quella barbarica. Nel corso della seconda metà del 1400, Vlad l’Impalatore è il guardiano dei confini orientali dell’Impero: difende la Valacchia dalle continue invasioni dei turchi ‒ dei quali è stato ostaggio da bambino ‒ spingendosi in più occasioni in territorio turco per sterminare i propri nemici senza alcuna pietà. In questo periodo, diviene tristemente noto in tutta Europa per la sua efferata crudeltà, che si esprime in atti non privi di una certa componente creativa: fa impalare senza distinzione ricchi e poveri, religiosi e infedeli (avendo la sola cura di far impalare i nobili su pali ricoperti d’argento e posti un po’ più in alto degli altri); chiede agli emissari del sultano, venuti per riscuotere dei tributi in arretrato, di togliersi il turbante al suo cospetto, ricevendo un secco rifiuto fa inchiodare i turbanti alle teste dei diplomatici; nel 1459 invita a cena due mercanti che hanno manifestato disprezzo nei suoi confronti, lascia che i due mangino per poi far sventrare uno dei due e far servire al secondo le interiora ancora colme di cibo del primo, fa infine sgozzare anche il sopravvissuto, lo fa cucinare e lo da in pasto ai suoi cani; nel 1460 fa impalare 10.000 persone ricoperte di miele, affinché muoiano tormentate dagli insetti.

La folle parabola di Vlad III si conclude all’incirca nel 1476, in circostanze misteriose, in seguito a un tradimento da parte del fratello minore Radu e dei nobili valacchi ‒ alleatisi con il sultano Maometto II al fine di stipulare una pace che avrebbe consentito di riaprire le rotte commerciali e di restituire alla nobiltà gli antichi privilegi. Alla traiettoria iperbarbarica di guerra e sterminio di Vlad, la nobiltà e la classe mercantile oppongono una pace di comodo o, meglio, una guerra a bassa intensità ‒ seguendo uno schema che, ben presto, si diffonderà in tutta l’Europa rinascimentale. La resurrezione vampirica di Vlad in Dracula ‒ presagita anche in diverse leggende popolari di poco successive alla sua morte ‒ può essere letta alla luce del macabro trattato seicentesco Sulla Masticazione dei Morti, secondo il quale il non-morto scava, gratta e ringhia dall’interno del proprio sepolcro, tentando di liberarsi, per poter camminare ancora una volta sulla terra e seminare morte e distruzione. Ci troviamo, com’è evidente, di fronte a una discontinuità cronologica del primo tipo, quella delineata da Benjamin, in cui il passato irrompe nel presente in forma alterata. La seconda spirale temporale del black metal è vampirica e riguarda il ritorno del non-morto, un evento che tronca di netto il tempo lineare, producendo effetti imprevedibili, caotici e inafferrabili da un punto di vista razionale.

Oltre all’amplificazione dei caratteri barbarici già manifesti nel Dracula storico, Stoker ha un’altra brillante intuizione: il vampiro può tramutarsi in un banco di nebbia (una metamorfosi che utilizza per introdursi nelle stanze delle proprie vittime, rendersi invulnerabile o fuggire lontano). Si tratta della trasformazione più bizzarra e più radicalmente correlata alla natura non-vivente di Dracula; un divenire-atmosferico che riporta alle mente le gelide atmosfere di Transilvanian Hunger. Il tempo gotico, il tempo inorganico del vampiro, è racchiuso nel corpo di Dracula, ne è, per così dire, l’oscura essenza, la doppia negazione dell’unità individuale: egli è e non-è Vlad III e, nel medesimo istante, è e non-è Dracula. Per questo motivo, Dracula potrebbe essere definito come il romanzo gotico «definitivo», un’opera di pura atmosfera (complice anche la struttura narrativa, formata da fogli di diario e lettere sparse, ricordi e vaghe impressioni). In questo senso, la sete di sangue di Dracula è una pura pulsione alla dissoluzione atmosferica ‒ un desiderio che ha origine nel mondo anonimo, impersonale e inorganico da cui proviene il vampiro: l’aldilà.

Si tratta, dunque, di una minaccia proveniente da una linea temporale alternativa o persino da un’altra dimensione. Il Medioevo di Dracula non è un futuro perduto, né un futuro possibile, ma una catastrofe aliena sospesa nel tempo: la pura possibilità che il mondo umano possa essere annientato da forze al di là della comprensione degli esseri umani. Lo stesso Vlad storico ha incarnato, agli occhi dei suoi contemporanei, la negazione dei valori medievali e della morale cristiana, e, nel giudizio dei suoi posteri, l’antitesi dell’umanesimo e dell’universalismo rinascimentali ‒ caratteristiche che, per certi versi, anticipano gli aspetti anti-umani e apocalittici del Dracula letterario.

Sebbene anche la neoreazione faccia riferimento a un tempo inumano, indifferente e catastrofico, essa si illude di poterne controllare o attenuare gli effetti cataclismatici ‒ tramite l’impiego coordinato di microstrutture sociali, tecniche governamentali fondate sui saperi scientifici e il massiccio ricorso ai mezzi della violenza poliziesca. A testimonianza dell’illusorietà di tale convinzione, Marx, nel primo libro del Capitale, paragona la macchina di accumulazione capitalista a un vampiro ‒ inaugurando, di fatto, l’era cyber-gotica. Un’analogia, questa, che ci aiuta a comprendere il finale del romanzo di Stoker.

Nelle ultime pagine Dracula viene messo alle strette e pugnalato al cuore, si tramuta in polvere ma, per un breve istante, un’espressione di pace solca il suo viso. Il narratore interpreta questa espressione in senso morale, attribuendola al sollievo per essere stato liberato dalla sua tormentata esistenza, fondata sul crimine e sulla dannazione eterna. Tuttavia, l’analisi marxiana e quella finora condotta sembrerebbero indicare come più appropriata una diversa interpretazione: il vampiro è tornato al suo luogo d’origine, il mondo atmosferico-inorganico, solo per reincarnarsi nel complesso sistema cibernetico di macchine e flussi di denaro che dà forma al capitale ‒ in attesa di poter scatenare ancora una volta la sua furia annientatrice. L’Antropocene, l’era della catastrofe ecologica, è l’era lungo la quale l’epoca cyber-gotica si snoda come un serpente. 

Il viaggio che dall’epoca precristiana ci ha condotto al termine del Medioevo è infine giunto a conclusione; siamo tornati al preciso istante in cui stavamo tentando di colpire a morte ogni forma di reazionarismo e retro-progressismo. Saltando schizofrenicamente da un’epoca all’altra abbiamo visto come sia la modernità che la neoreazione, checché esse ne dicano, siano fondate sul medesimo errore di valutazione: entrambe sono state troppo ottimiste, entrambe hanno sottovalutato la possibilità che possa esistere «qualcosa» di più grande e più spaventoso di loro.

Questo qualcosa è l’Insurrezione Gotica, il primo prodotto dell’ingresso nell’epoca cyber-gotica. Abbiamo visto come, a differenza della doppia spirale neoreazionaria descritta da Land (la quale avanza verso il passato e retrocede verso il futuro), la doppia spirale vampirico-spettrologica faccia avanzare il passato e retrocedere il futuro, stritolando il presente. Laddove la prima marcia verso la restaurazione di un antico ordine, la seconda è improntata alla brutale rimozione di un’epoca dal continuum temporale ‒ le orde barbariche cavalcano verso il futuro, mentre l’apocalisse avanza dalla fine del tempo.  Più simile a un tritacarne che a una macchina del tempo, la doppia spirale black metal è un congegno crono-abolizionista: se la neoreazione guarda alla modernità come a una deviazione che condurrà, a passo di gambero, a un «ri-presentarsi» del Medioevo, l’Insurrezione Gotica riconosce il Medioevo cristiano, mercantile, coloniale e logocentrico come la radice dalla quale è sorto il moderno occidente capitalista.

La nascente era cyber-gotica non corrisponde, dunque, a un semplice ritorno al Medioevo storico o a un effettivo tribalismo barbarico (significherebbe davvero cavarsela con poco), ma a una perversa resurrezione vampirica del Medioevo, effettuata tramite la riattivazione di un passato mitico. Una tendenza scomponibile in tre processi metabolici fondamentali: la riscrittura di genealogie barbariche, una proliferazione licantropica e una metamorfosi atmosferica. Una triade che, a sua volta, può essere ulteriormente suddivisa in tre diadi gemellari, nelle quali il primo elemento rappresenta la fase di incubazione (il dato presente) e il secondo il risultato di un processo globale: frammentazione e autonomia; mescolanza e ibridazione; indeterminazione e impersonalità. Trascinati dal doppio vortice orario-antiorario della spirale, veniamo scomposti, decomposti e nuovamente ricomposti secondo nuove, bizzarre configurazioni ‒ che stupore scoprirsi umano-animale-pianta-linguaggio-archivio-macchina-colonia batterica!

L’Insurrezione Gotica prende alla lettera il detto demoniaco «Io sono Legione», propagando e accelerando in ogni direzione questo vettore di molecolarizzazione spazio-temporale, psichica, corporale e concettuale del mondo moderno.

Tale avvenimento sembra esser già stato registrato da uno dei più noti e malfamati teorici politici occidentali. Nel Leviatano, nel capitolo «Delle Tenebre Spirituali», Hobbes analizza attraverso le Sacre Scritture l’arrivo del «Regno delle Tenebre»: «Oltre a questi poteri sovrani, il divino e l’umano […] si menziona nella Scrittura un altro potere, cioè quello dei reggitori delle tenebre di questo mondo, il regno di Satana, il principato di Belzebù sui demoni, vale a dire, sui fantasmi […] il regno delle tenebre, come è esposto in questi e altri luoghi della Scrittura, non è nient’altro che una confederazione di ingannatori», ossia una moltitudine di profeti, poeti, oracoli visionari, stregoni, streghe e sciamani che, in opposizione all’unica Verità di Dio e dello stato, professano dottrine enigmatiche, spesso contraddittorie o addirittura incompatibili tra loro, contaminando il corpo politico e causandone la frammentazione (sotto forma di guerra civile). 

Nel suo Tra le Ceneri di Questo Pianeta, Eugene Thacker (sulla scorta di Carl Schmitt) mostra come il paradigma che sostiene e alimenta gli ordinamenti politici, stabilendo di volta in volta la Verità, sia l’analogia, ossia la presupposizione che vi sia o che vi debba essere un certo grado di somiglianza tra l’ordine cosmico e l’ordine politico. Si tratta dell’Immagine del Mondo, una rappresentazione immaginaria della realtà, attraverso la quale gli esseri umani tentano di circoscrivere le forze del caos, allo scopo di stabilire un ordine ‒ in sostanza, come asserisce lo stesso Thacker, l’ordine cosmo-politico assicurato dalla Verità avrebbe lo stesso valore pratico di un cerchio protettivo in un rituale magico.

Per Thacker, tuttavia, l’analogia si scontrerebbe con dei limiti evidenti: «Il modello analogico presuppone alcuni fattori chiave: primo, che “là fuori” vi sia un mondo accessibile, rivelato e ordinato, che possa fungere da modello o da guida nello sviluppo di un sistema politico “qua dentro” […] Secondo, si presume che tale relazione analogica sia una strada a senso unico, ovvero che l’ordine discernibile del mondo fluisca direttamente nella costituzione della politica, laddove, evidentemente, vi sono un gran numero di modi attraverso i quali tale senso si inverte […] Infine, il paradigma analogico di Schmitt è decisamente antropocentrico, giacché dà per scontato che la politica – come la teologia – abbia soprattutto e prima di tutto a che fare con l’umano (e, in questo senso, l’analogia hobbesiana del corpo politico è l’esempio più esplicito di tale proprietà antropomorfica del politico)».

È proprio l’orrore soprannaturale propagato dagli araldi del Regno delle Tenebre a propagare il dubbio che l’ordine del mondo sia falso, ed è per questo che per Hobbes, come per ogni difensore dell’ordine costituito, è necessario che essi siano smascherati come «ingannatori» e corruttori della Verità. Il modello cosmo-politico, tuttavia, palesa tutta la sua fragilità dal momento in cui, alla proliferazione dei falsi profeti, si aggiunge l’inaspettata distruzione causata dalle catastrofi naturali: oltre ai «figli delle tenebre», Hobbes annovera tra le principali minacce per l’incolumità dell’unità statale la volontà divina, ossia il caso e l’indeterminazione. È proprio perché la politica non ha unicamente a che fare con l’umano, che la catastrofe ecologica dell’Antropocene appare come la più concreta manifestazione di una volontà enigmatica e malevola o, peggio ancora, della gelida indifferenza di un cielo vuoto; il cosmo rimarrà silente mentre la terra franerà sotto i nostri piedi ‒ assieme a tutte le certezze e le credenze alla quali ci siamo finora aggrappati.

Come sarà ormai divenuto evidente, il Regno delle Tenebre (Babilonia) non è un luogo ma un tempo: il tempo del pericolo e della dissoluzione. Questo è il tempo dell’Insurrezione Gotica, nel quale la moltitudine dei morti, situata al di là del tempo, si scatena sul mondo, facendolo a pezzi, canalizzata e propagata dalle voci degli oracoli posseduti. Questo è il tempo in cui il mondo o, meglio l’Immagine del Mondo, va in frantumi ‒ ci si augura senza alcuna possibilità di ricomposizione ‒ e le visioni del mondo più «devianti» proliferano indefinitamente. L’Unità si dissolve in un oceano di singolarità, l’universale nel particolare.

Parafrasando Marx: «Da ciascuno secondo la propria insurrezione, a ciascuno secondo il proprio desiderio». Soddisfatto del suo operato, il nero corvo black metal, appollaiato ai confini del tempo, vede ciò che noi possiamo solo anticipare: osserva il pianeta piombare nel caos, arso vivo dai nuovi barbari. 

Claudio Kulesko Si occupa principalmente di filosofia delle scienze e pessimismo filosofico. Ha tradotto Eugene Thacker e il Salvage Collective ed è stato tra i fondatori del collettivo di demonologia rivoluzionaria Gruppo di Nun. L’abisso personale di Abn Al-Farabi e altri racconti dell’orrore astratto (NERO 2022) è la sua prima antologia di narrativa speculativa.