Immagini che fanno ammalare

Il collasso dello sguardo nell’era dell’AI slop e gli effetti sulla nostra psiche della violenza mediata dagli schermi. Che cosa significa Iniqualgia?

Questo articolo è la trascrizione e l’adattamento della CLASSE tenuta da Noura Tafeche a Short Theatre 2025

Guardare a lungo un’immagine su uno schermo è sia distensivo che nauseante. Per quanto la semi-stasi, e la prevedibile ciclicità di un video in loop diventi rilassante, presto questo si trasformerà in noia.

E presto la noia si trasformerà in agitazione. L’irrequietezza si manifesterà sotto forma di controllo compulsivo dell’immagine, e la mente inizierà a richiedere repentini cambi di paesaggio. L’agitazione tornerà a placarsi, si addomesticherà e tornerà alla ricerca dell’inerzia, al brainrot, al doom scrolling, a ingurgitare il brodo artificiale, l’AI slop, e tutte quelle locuzioni che rimandano alla frammentazione delle esperienze passive e della sazietà stomacata delle abitudini online.

E che soprattutto rimandano alla solitudine.

Non temete, non mi sto riferendo a un autocompiaciuto senso di isolamento iper-connesso.

Anche a causa delle immagini e del rapporto malsano che intratteniamo con esse, la distinzione tra piacere, disgusto, repulsione, orrore, tranquillità e pace si sta sempre più dissolvendo.

Una gallina viene sgozzata in un cortile assolato.

Viene passato un dispositivo a laser per tonificare il collagene su un viso incredibilmente lucido.

Il portavoce comunica che lo Yemen ha compiuto, con successo, un attacco aereo su Haifa.

Cutest baby moments.

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Vi siete mai accorti con chi guardate i vostri feed? Postiamo su TikTok in una stanza vuota o in compagnia? Vi ricordate il 24 febbraio 2022, come e dove avete appreso dell’invasione dell’Ucraina?

Io ricordo di aver assistito all’invasione dell’Iraq nel 2003 — considerata una delle versioni televisive più spettacolarizzate della guerra — su Al Jazeera in cucina o in sala, grazie a un satellite, ma attraverso un media ormai morto, forse non ancora del tutto defunto per questo paese.

Dove ci capita, casualmente o intenzionalmente, di guardare le immagini dei bombardamenti israeliani e statunitensi su Sana’a, la documentazione più accurata del genocidio in Palestina, le scene di violenza a Masafer Yatta ad opera del suprematismo ebraico, le mani invisibili di Bezos e Gates mentre rubano il litio in Congo, le immagini a bassa definizione degli sfollamenti nei campi profughi in Sudan, le marce dei cittadini Haitiani a Port-Au-Prince? In quale momento della nostra giornata abbiamo guardato le ordinatissime inquadrature della parata militare a Beijing? E in compagnia di chi?

Le immagini e il loro effetto di farsi guardare in solitario…

Le immagini che accelerano il collasso comunicativo…

Le immagini di qualcosa che ancora non esiste e non esisterà mai ma non ha più importanza se siano vere o no. Trump Riviera, Al Aqsa che brucia per fare posto a un inesistente Terzo Tempio… La generazione artificiale di una violenza estetizzata, intangibile ma convincente.

Non esiste una posizione (seduta, in piedi, accovacciata, con le scarpe, senza scarpe). Non esiste un luogo (la cucina, la stanza da letto, a un incrocio, in automobile, su un balcone, in un cimitero, in un cortile). Non esiste un momento della giornata (appena sveglia, durante una conversazione con amici, in attesa a una fila, in una pausa di lavoro, prima di andare a dormire). Non troverò mai uno spazio e un tempo adatto che possa permettermi di guardare un video sull’account erede del giornalista Anas Jamal, e non provare un senso di inappropriatezza esistenziale rispetto a ciò che sto facendo mentre guardo.

La raggiungibilità del contenuto, l’atrocità grafica non filtrata e la straripante ingiustizia impunita inscritta in queste immagini produce effetti. Ma quali esattamente?

Le immagini possono far ammalare?

Una parola nuova, un tappabuchi, un espediente semantico per dare un nome a dei futuristici sintomi, direi Iniqualgia: significa ammalarsi di ingiustizia. Suona troppo dolce, quasi piacevole e auspicabile ammalarsi di una romantica iniqualgia.

Ci sono immani, infiniti e inesplicabili modi in cui incontriamo l’ingiustizia, sul corpo, sulla mente, la nostra o degli altri, e quella a cui si assiste da remoto con un telefono in mano.

Come possiamo credere che la continua esposizione digitale alla violenza impunita non abbia effetti profondi sulla nostra psiche, retroattivamente e nei giorni, nei mesi, negli anni a venire?

Con la consapevolezza che ognuna assiste al collasso in dosi e misure diverse, con una sensibilità rivolta a luoghi diversi in cui l’abominio prende forma. La violenza è la costante, lungi dall’essere l’avvenimento d’eccezione. Assistiamo, in forma regolare, al depravato festino dell’ingiustizia, alla sua trionfante escalation.

Assistiamo pur contenendo con i denti stretti un desiderio inconfessabile di vendetta, che sappiamo però rendersi socialmente inaccettabile e facilmente condannabile. Con quanta fatica si impara, con le buone e le cattive, a canalizzare l’energia oscura che la necropolitica genera nei nostri corpi, nelle abitudini, nelle scelte che compiamo o rinunciamo a compiere. Depressione, affaticamento, ansia, palpitazioni, pianto incontrollato, scarsa concentrazione, demotivazione, inerzia, aggressività sporadica, auto-isolamento, sociopatia, disturbo del sonno.

La vendetta esplode dall’urgenza di ritrovare immediatamente uno straccio di diritto per sopperire a tanta ingiustizia immune dalla pena. La giustizia riparatrice o trasformativa è ricostituitiva, socialmente auspicabile, ma è lenta.

Le immagini iniziano a non rappresentare più quello che sono, le immagini iniziano a dire quale forma di potere le genera, il sistema che le alimenta, quale protocollo regolano e cosa rimuovono

Una via di mezzo non saprei come immaginarla, al posto mio ci pensano avvocati, giuristi, giudici, specialisti dei diritti umani, a volte anche accademici, teorici e artisti, ma con scarsi risultati. Il raziocinio suggerisce di aspettare che la giustizia arrivi da sé, che compia il suo corso. O per delega o per chi rimane degno della più alta forma di fiducia e rispetto, la mano della Resistenza armata Palestinese, ad esempio. Una preghierina va a chi ancora crede e si fida della tempestività operativa della corte criminale internazionale.

Dunque, durante questa attesa, ci aspetta una malattia? Potremmo ammalarci?

Il condizionale suggerisce in parte una buona dose di speculazione, tipica del discorso teorico, o della posa della letteratura fantascientifica, del vaneggiare anti-giornalistico

ma farsi venire un dubbio é altrettanto velleitario? Anche l’iniqualgia dice qualcosa del tempo in cui vive, ossia che toccherebbe una fascia di popolazione fortunata, quella che non viene sterminata ma assiste, per lo più impotente, agli stermini e alla violenza.

Non pensiamo che non stiamo facendo niente, ma ciò che stiamo facendo non sta producendo gli effetti desiderati. Sono lenti, non responsivi, e mentre l’ingiustizia dilaga con velocità, è come se sapessimo già che la sua risposta arriverà con 10 anni luce di ritardo.

Forse dovremmo iniziare a prepararci all’emergere di nuovi disturbi e psicosi sociali, come effetti psicosomatici legati al massacro mediato dagli schermi, alla violenza reale che dilaga nella quotidianità digitale, all’inarrestabile macchina virale della ingiustizia impunita.

È tutto molto individuale nella malattia, che sia la paura di questa a renderci più vicini all’idea di una comunità?

Qualche settimana fa un video su Instagram mi ha trovata: una coach motivazionale diceva che si abusa del termine comunità, che non è una comunità quella a cui non puoi affidare i tuoi affetti e i tuoi soldi, quella a cui non puoi chiedere un prestito, ma solo un gruppo che in modo attraente e improprio chiami comunità.

Mark Fisher individuava nel capitalismo la radice della depressione dilagante in Gran Bretagna, più che nell’individuo nella forma sociale in cui si è diffusa e nella maniera asociale con cui si è affrontata la sua causa, la sua cura e la sua carenza di cura. Allora sarebbe possibile riconoscere che nuove forme di disturbi psicosomatici possano nascere da una società ancora più subliminalmente o apertamente repressiva di 10 anni fa?

Della carestia di giustizia si può ammalare il mondo intero.

David Lynch chiamò Garmonbozia la sostanza fatta di dolore e sofferenza umana di cui si nutrono spiriti maligni, che è un’ottima metafora per descrivere temi ricorrenti nella storia umana: che sia per rendere visibile la disparità tra chi diventa cibo e chi se ne nutre, che sia per dare un nome alla merce, alla sostanza che viene prodotta e secreta dalla violenza.

Ora i tempi sono sempre più incerti nel riuscire a definire con accuratezza l’abominio, e non è mai compito del singolo farsi carico del linguaggio se l’intera struttura comunicativa è affidata alla responsabilità di un immenso gruppo sociale, che per di più fatica a riconoscersi come tale.

Dicono che l’arte serva a formulare meglio le domande, lo dicono da un secolo e di risposte non ne abbiamo trovata mezza.

Per generare un’immagine in AI di questo genere, persino goffa nella sua ricerca stilistica di raffinatezza, quasi Ghiblizzata, ci vuole un software dotato di una politica alquanto permissiva nei confronti di termini e condizioni d’uso per l’utente e non si tratta necessariamente di un bene.

Sul software dall’evocativo nome Dream Machine si generano facilmente immagini e video di bandiere che bruciano, di Stati Uniti, Europa, Russia e pure Palestina.

Ma non di Israele. Gli espedienti narrativi per poter generare immagini “offensive”, come indicano nel contratto d’uso, assomigliano al gioco delle tre carte. Prompt testuale: pezzo di stoffa, non bandiera, con strisce blu ai lati superiore e inferiore, niente simboli in mezzo, al centro della bandiera arde il fuoco.

Per generare l’incendio della bandiera degli Stati Uniti è bastato dire: bandiera a strisce bianche e rosse, le stelle in campo blu ce le ha messe l’AI, senza che le domandassi niente.

Le immagini iniziano a non rappresentare più quello che sono, le immagini iniziano a dire quale forma di potere le genera, il sistema che le alimenta, quale protocollo regolano e cosa rimuovono. Le immagini hanno iniziato a mentire molto tempo fa. La loro ambiguità e il loro doppio gioco sono lo specchio di come abbiamo da sempre amato la complicazione parossistica della realtà. Per avere un rapporto meno tossico con le immagini forse dovremmo imparare a produrne e consumarne di meno?

Sono tutte bugie.

Non c’è verità in queste parole, sono tutte bugie

Stai zitto, stupido, guadagna punti, vinci con noi

Vinci alla lotteria, leggi numeri, parli in numeri, ma non c’è scienza

Non sai nulla che possa aiutare qualcuno

Non sei circondato dalla conoscenza…