Immaginare l’immaginabile

Abitare il corpo per uscire dal capitalismo

L’80% delle persone che conosco sta male, ha problemi mentali, problemi a relazionarsi con la realtà, con il cibo, con le altre persone. Ma la verità è che nessuna di queste persone vuole cambiare. Chi perché ha un approccio punk, chi frikkettone, chi complottista, chi disilluso, chi cinico, chi intellettuale, chi per ignoranza, la verità è sempre una: pochissime persone sono disposte ad affrontare una psicoterapia, a cambiare alcune abitudini o a superare i propri pregiudizi pur di uscire dal malessere in cui sguazzano da anni. Quasi nessuno è disposto davvero a mettere in discussione le proprie convinzioni, ad andare oltre le proprie solide credenze. Questo perché queste credenze formano il loro io, la loro identità, che è l’unica cosa che gli è rimasta, l’unica a cui ancora possono aggrapparsi.

Questo microprocesso si rispecchia nel macro, in una società incapace di cambiare, anche dopo una malattia pandemica che sembra architettata dalla natura apposta per mandarci un messaggio. Il messaggio che era arrivato il momento di un cambiamento totale di rotta. E invece niente.

Questo ti voglio dire

ci dovevamo fermare.

Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti

ch’era troppo furioso

il nostro fare. Stare dentro le cose.

Tutti fuori di noi.

Agitare ogni ora – farla fruttare.

Ci dovevamo fermare

e non ci riuscivamo.

Andava fatto insieme.

Rallentare la corsa.

Ma non ci riuscivamo.

Non c’era sforzo umano

che ci potesse bloccare.

E poiché questo

era desiderio tacito comune

come un inconscio volere –

forse la specie nostra ha ubbidito

slacciato le catene che tengono blindato

il nostro seme. Aperto

le fessure più segrete

e fatto entrare.

Forse per questo dopo c’è stato un salto

di specie – dal pipistrello a noi.

Qualcosa in noi ha voluto spalancare.

Forse, non so.*

La malattia è un segnale che il corpo ci manda per avvisarci che qualcosa non va. Ma la società del lavoro non lo ammette. Dice «Prenditi una medicina e vai a lavorare. Non c’è tempo di ammalarsi. Non te lo puoi permettere». La nostra economia funziona allo stesso modo. Non può permettersi di ammalarsi. Non può permettersi di fermarsi ad ascoltare il corpo sociale e la Terra, che ancora non viene concepita come un essere vivente ma come un enorme e inerte minerale da cui attingere tutto ciò di cui si ha bisogno (e dove infine scaricare gli scarti immondi e non più utilizzabili).

È potente la Terra. Viva per davvero.

Io la sento pensante d’un pensiero

che noi non conosciamo.

E quello che succede? Consideriamo

se non sia lei che muove.

Se la legge che tiene ben guidato

l’universo intero, se quanto accade mi chiedo

non sia piena espressione di quella legge

che governa anche noi – proprio come

ogni stella – ogni particella di cosmo.

«È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo», recita un adagio molto in voga. «È più facile immaginarsi di vivere un’intera vita in depressione che la messa in discussione delle proprie idee.» È la traslazione al personale della stessa ideologia solida e monolitica da cui non si esce. È del tutto inutile continuare a parlare del capitalismo come se fosse un oggetto estraneo ai nostri corpi: noi siamo gli ingranaggi che lo muovono, noi gli anelli della catena, e finché noi stessi non spezziamo l’incantesimo con i nostri stessi corpi, questo continuerà ad andare avanti, anche solo per inerzia.

Il problema è che in una società basata sulla razionalità e sul materialismo spiccio, la soluzione non si trova con il ragionamento, ma attraverso il corpo, anzi attraverso la «mente corporea». Nel febbraio 2017 ho scritto un testo dal titolo «Capitalismo e depressione. Il suicidio di Michele, quello di Mark Fisher e tutti noi», in cui citavo l’articolo scritto da Bifo in memoria di Mark Fisher dove scriveva che «Il nucleo profondo della depressione sta nella contrazione fisica, nell’incapacità del corpo di toccare il corpo dell’altro e di esserne toccato, traendo da questo toccamento la certezza del senso, che non è in nessun luogo, nel mondo, ma proprio e solo in questo toccarsi della mia pelle e della tua pelle. […] Perché la felicità non è una cosa della mente intellettiva ma è una cosa della mente corporea, dell’emozione che apre il corpo alla carezza. […] La sofferenza sociale si trasforma in depressione quando ottunde la carezzabilità. E la disponibilità alle carezze non è solo la condizione della felicità individuale, ma anche la condizione della ribellione, dell’autonomia collettiva, e dell’emancipazione dal lavoro salariato».

La capacità di toccare e di farsi toccare. Non è una cosa semplice, soprattutto di ’sti tempi. Non lo era prima e lo sarà ancora meno adesso dopo il virus. Come scrivevo infatti, già da tempo i nostri corpi sono diventati «solo un pesante, dispendioso e anche un po’ troppo molliccio, “device” da trascinare in giro», cosa che non permette di «trovare il punto di contatto con gli altri esseri umani, quel varco spazio-temporale da cui possono entrare e uscire stimoli, idee, energie (anche detta “VITA” nel linguaggio comune e per le anime semplici)» e che «la parte interiore, personale di questo processo, non è assolutamente meno importante della parte esteriore, pubblica, e quindi politica. Anzi, è proprio questo il momento del discorso, il culmine, l’apoteosi, in cui, come si dice, il personale viene a coincidere con il politico. È qui l’anello di congiunzione tra lo spirituale e l’utopia, tra le nostre speranze per il futuro e le nostre speranze per il mondo, tra la nostra gioia e la rivoluzione (usando termini un po’ demodé) e, imprescindibilmente, senza una parte non può esistere l’altra».

Riflettiamo la cultura dello sfruttamento e del dominio della Terra dentro di noi, verso noi stessi, non dandoci pace, non lasciandoci spazio né respiro. Obbligandoci continuamente a situazioni orribili, in cui non saremmo mai voluti finire. Chi ci sta puntando la pistola alla testa per continuare? Noi stessi. Le catene sono sicure, la gabbia è tiepida, la palude avvolgente.

E se state pensando «Ma in che senso? Io un corpo ce l’ho e cerco di usarlo bene», vi rispondo con le parole di Chandra Livia Candiani, che nel suo preziosissimo Il silenzio è cosa viva scrive:

Il fatto di essere incarnati, non è immediatamente essere corpo. Possiamo avere, essere, carne, senza avere, essere corpo. Il corpo è la nostra carne abitata, sentita, percepita con attenzione, precisione, profondissima intimità. Spesso la paura taglia il legame tra noi e il corpo, non permette accesso.

Non basta quindi avere un corpo per esserlo, per abitarlo. Io intorno vedo corpi contratti, corpi pallidi, corpi gonfi o anestetizzati, corpi pompati, corpi ipersessualizzati, ma chiusi. E se è vero che in questa epoca il confine tra proteggersi e chiudersi è sempre più sottile e quasi ormai irriconoscibile, è facile capire dove sta l’inghippo, dove rimaniamo intrappolati, ognuno contratto sulle sue posizioni. Senza il tocco non si apre nessun varco tra il sé e l’altro, tra il sé e la terra, non si esce dal proprio corpo, non si esce dal proprio io granitico, dall’idea solida e immutabile di sé, non si esce da questa concezione del mondo, non si esce dal capitalismo. In pochi sono disposti a mettere le mani nel fango che hanno dentro, ad accettare che esistano certe pratiche che appaiono ridicole o poco ortodosse, pochi sono disposti a concedersi il tempo e il permesso di farlo. Cose come dedicare tempo non produttivo a se stessi e a chi amiamo, camminare in un bosco, danzare, respirare, meditare, leggere o scrivere poesie, pregare, vedere amici senza che sia implicata una spesa di denaro (non solo per l’aperitivo o al ristorante o per fare shopping), creare aggregazione al di fuori di circuiti commerciali, esprimere la propria creatività attraverso parole, immagini, strumenti, ingredienti, movimenti, voce, fare l’amore con se stessi o con gli altri, sedersi con la faccia al sole, esprimere il proprio dissenso, trovare il tempo e la forza per prendere coscienza di un’ingiustizia e ribellarci, creare parentele al di fuori della famiglia biologica, uscire dalla città e contemplare gli esseri viventi non antropomorfi, pulire la riva di un fiume o una spiaggia dai rifiuti, andare in cerca di acqua o vapore, farsi un giro in bici senza meta, zappare la terra, fare merletti o ricamare, guardare le nuvole, il cielo, le stelle, i pianeti, curare le piante, curare le proprie ferite, condividere con qualcuno ad alta voce le proprie lacrime. Azioni che riescono a rompere il triste e grigio contingente, creare in esso spazi improvvisi di luce, all’occorrenza sovvertirlo.

«Il nostro attuale modo di vivere è congegnato in maniera tale da incoraggiarci a credere che le nostre uniche capacità valide siano quelle che ci mettono in grado di acquistare merci. Tutto il resto è subappaltato», scrive Zadie Smith.

Le risponde ancora Candiani: 

Seminare la meditazione, come pure la poesia a scuola, tra i bambini, significa innanzitutto invitare a tollerare di non capire, per imparare ad ascoltare e ospitare nel corpo. Incorporare è portare umilmente al corpo ancora e ancora quello che ascoltiamo, finché l’io si stanca e allora noi cambiamo, ci apriamo al non conosciuto. Abitando il corpo e ascoltandolo profondamente riportiamo a galla una memoria comune a tutti. Il sacro respiro che ci allaccia al mondo intero.

A scanso di equivoci lo ripeto: le vie non sono solo quelle della psicoterapia o della meditazione (anche se indubbiamente sono alcuni dei metodi più a portata di mano, potenti e utili in questo senso) ma tutte quelle attività che portano ai momenti di «mistica selvaggia», come la chiamava il filosofo Michel Hulin, o come la definiva Romain Rolland in uno scambio epistolare con Freud, un «sentimento oceanico». Quei momenti di luce, di infinito che nutrono lo spirito, che il quotidiano riserva a ognuno di noi e non solo ai santi, ai «mistici di professione» o agli illuminati. Ognuno può trovare la propria via. Un po’ di psicoterapia di massa non farebbe male, tipo terapeuti sguinzagliati nei quartieri all’inizio della Fase due, ma si sa che il pregiudizio verso la psicoterapia in Italia è ancora molto forte e la maggior parte delle persone non sono minimamente pronte a mettersi in gioco, preferendo metodi più veloci per anestetizzare il proprio dolore.

Le persone dicono «non ho tempo», «non ho soldi» e si creano in continuazione motivi per avere sempre meno tempo e soldi. Trovano continuamente scuse per non affrontare la realtà dei fatti e per non cambiare. È, come al solito, una questione di priorità. La nostra cultura, per quanto «egotica» non è una cultura gentile con noi stessi e il nostro corpo. Come in tutti gli altri aspetti dell’esistenza tende a riprodursi in noi attraverso la violenza, la severità, il dominio. Riflettiamo la cultura dello sfruttamento e del dominio della Terra dentro di noi, verso noi stessi, non dandoci pace, non lasciandoci spazio né respiro. Obbligandoci continuamente a situazioni orribili, in cui non saremmo mai voluti finire. Chi ci sta puntando la pistola alla testa per continuare? Noi stessi. Le catene sono sicure, la gabbia è tiepida, la palude avvolgente.

«Gli indigeni, loro, funzionano insomma solo a colpi di bastone, conservano questa dignità, mentre i bianchi, perfezionati dall’educazione pubblica, fanno da soli», scriveva Céline. Esattamente come in qualche modo troviamo il tempo per andare negli uffici a sbrigare pratiche burocratiche, fare ore di straordinario, passare ore a mandare curriculum cercando lavoro, dobbiamo pretendere tempo in più per dormire, mangiare bene, ascoltare il nostro respiro, prenderci cura di noi stessi, leggere, guardare vecchie fotografie, immaginare e organizzare nuove utopie, godere della solitudine e del silenzio, della musica, nutrire la nostra anima e il nostro spirito in modo che questi siano abbastanza ampi da potersi permettere non solo di aprirsi a se stessi ma addirittura di accogliere l’altro e lo sconosciuto. E se non ce l’ha insegnato una pandemia globale nella quale per contrappasso non possiamo toccarci, allora non so cosa ce lo potrà insegnare.

A quella stretta

di un palmo col palmo di qualcuno

a quel semplice atto che ci è interdetto ora –

noi torneremo con una comprensione dilatata.

Saremo qui, più attenti credo. Più delicata

la nostra mano starà dentro il fare della vita.

Adesso lo sappiamo quanto è triste

stare lontani un metro.

Alice Diacono è autrice di poesie, prose, articoli, saggi e insegna letteratura e storia in un liceo. Ha collaborato con Jacobin, Vice, Il Fatto Quotidiano e Doppiozero scrivendo di subculture e antifascismo. Nel 2019 ha pubblicato Veniamo dal basso come un pugno sotto il mento con Battaglia Edizioni.