Illusionismo critico per scatenare il contro-sortilegio

Tavoli che ballano e mantelli dell’invisibilità contro il Capitale!

Roma, circoscrizione V, seggio 420. Se mi affacciassi sull’aula, assisterei a uno spettacolo insolito. L’uomo che timbra le schede lo sta facendo in un modo strano. Col timbro stretto nel pugno, ha il movimento ritmato che ci si aspetterebbe: un colpo per inchiostrarlo, uno per bollare la scheda e poi – ed è qui l’assurdo – un terzo sul corpo. Invece del classico unò-due, unò-due, il tempo è ternario e i colpi scandiscono zum-pà-pà, zum-pà-pà. La t-shirt dell’addetto, di un bianco candido all’inizio della procedura, si sta coprendo di un cerchio tondo alla volta. Forzando un po’ la regola che vieta riprese, c’è chi immortala da lontano la scena.

Se ne ignorassi il contesto, potrei scambiare la foto per un fermo immagine da Brazil (1985), l’incubo distopico di Terry Gilliam sulla burocrazia e i suoi devastanti effetti psichici. Siamo di fronte a un pazzo o dietro al gesto c’è del metodo? Per scoprirlo, l’ho chiesto direttamente all’uomo autoinchiostrante: Matteo Locci è un architetto e artista romano, co-fondatore del collettivo ATI suffix.

Matteo, c’era del metodo in quella follia?
Matteo Locci: metodo strutturato non direi, più una metodologia tarata in anni di improvvisazione ludica nello spazio pubblico; la performance è nata quasi per caso a partire dalla tediosità del seggio. La noia, l’attesa, l’aspettativa – elementi fondamentali nella drammaturgia di un’azione collettiva – mi sono apparse mortificate nel rito laico del voto, poiché continuamente interrotte da firme, codici e dall’impressione ripetitiva dei timbri che umiliano le persone che ci lavorano e trasformano la democrazia in una distopia kafkiana. Come tutte le espressioni burocratiche di lunghe tradizioni, il seggio ospita una liturgia quasi neutrale, dove la democrazia si vive solo negli sguardi, nel sospetto, nei polpastrelli, sul corpo. Da lì, il passaggio all’azione è stato breve. Ed è una di quelle azioni liminali cui è facile attribuire scopi opposti. Era nei miei piani farla girare? Non esattamente, ma ora che mi chiedi spiegazioni, mi lusinga raccontarne i retroscena.

Muovendomi ai limiti della legalità, ero consapevole di non poterla “celebrare” come una performance pubblica, programmata e annunciata in anticipo: il suo racconto si presta, piuttosto, a una conversazione come questa; in un contesto come quello in cui ci troviamo, posso tranquillamente aggiungere cheda solo o in collettivoabbiamo organizzato azioni non autorizzate anche più complesse, senza documentarle, forse più interessanti, sicuramente più rischiose.

Se la performance è stata documentata è perché le fotografie rubate facevano parte del senso stesso dell’azione; è stato il presidente del seggio, preoccupato da eventuali complicazioni e perdite di tempo, a segnalarmi che fotografare non era autorizzato – innescando, di fatto, il mio desiderio di catturare immagini del momento. Di conseguenza, gli scatti rubati da persone conosciute (come Francesco Restuccia) e da numerose sconosciute sono diventati parte del processo interattivo.

Si è trattato di un’azione anomala, perché come collettivo artistico abbiamo sempre preferito lavorare su questioni sociali fuori contesto, evitando di aggiungere significato politico a luoghi già saturi (come un seggio elettorale), portando conflitti inattesi, proposte politiche improbabili, messaggi silenziosi o poco visibili. Qualche anno fa non avrei (e non avremmo) avuto la prontezza di immaginare una performance del genere – o forse, davanti all’idea di compierla, l’avremmo squalificata come ridondante o retorica. Oggi qualcosa è cambiato, e l’interesse da te dimostrato ci obbliga ad interrogare la nostra intelligibilità in contesti diversi da quelli cui siamo abituati.

Io e Matteo ci siamo conosciuti all’inizio del 2020, pochi mesi dopo la nascita della Società Essoterica di Illusionismo Critico (Esci), gruppo sorto in seno al collettivo ATI suffix. Ad avvicinarci è stata la sostanziale affinità tra i nostri approcci alla magia secolare: fascino per la figura del trickster, consapevolezza di poterne impiegare le tecniche fuori dal contesto teatrale, negli ambiti della politica e dell’informazione, fiducia nel suo potenziale destabilizzante, anche e soprattutto in ottica rivoluzionaria. Per meglio comprenderne le peculiarità, Matteo e compagnx avevano seguito un corso di avviamento all’illusionismo, mantenendo una curiosa postura: impadronirsi delle sue tecniche base non era servito a mettere in scena uno spettacolo, ma a investigare nel dettaglio la complessa relazione tra inganno, manipolazione della percezione e potere che a teatro assume tonalità ludiche, ma nella realtà quotidiana si presta a usi (e abusi) assai più inquietanti.

Matteo Locci, Critical Conjuring

Trattandosi di un approccio alla materia praticamente inedito, non c’è da stupirsi se tu, Matteo, vesti con un certo disagio l’etichetta di “illusionista”.
Matteo Locci: mi lusinga essere chiamato illusionista, ma per maggiore chiarezza preferisco parlare in modo più generico di “gestione della distrazione e manipolazione dell’attenzione”. Uso questa espressione per evitare fraintendimenti. Trovo utile identificare l’illusionismo con l’incognita di un’equazione che – in realtà – parla d’altro, fuor di magia. Il nostro gruppo usa l’illusionismo come sfondo, come cassa di risonanza, forse anche come tecnica, ma quello che ci muove è esterno al discorso disciplinare. Il cuore del lavoro che portiamo avanti come collettivo, infatti, non è l’illusione in sé ma il modo in cui la magia dei prestigiatori informa il tessuto politico, sociale ed economico, supportando – con le proprie tecniche e retoriche – il capitalismo contemporaneo. Quella che abbiamo chiamato “Società Essoterica di Illusionismo Critico” è un’indagine aperta sulla relazione tra prestigiazione, società digitale e politica; un laboratorio che “in tempi di disinformazione, cospirazionismo dilagante, populismi carismatici, e paradigmi psicofisici di dipendenza del mondo digitale […] promuove l’illusionismo come l’arte marziale del dubbio e la forma di conoscenza più adatta per navigare nella post-verità [superando] l’estetizzazione della politica per attuare finalmente una politicizzazione della magia”.

Si tratta di un progetto complesso, concepito insieme a molte persone tra cui compagnx di vita e membri di ATI suffix: Natalia Agati, Maria Rocco, Francesco Restuccia, Panagiotis Samsarelos, Emanuele Caporrella, ma anche Maria Pone, Edoardo Fabbri, Marta Montevecchi e Ozge Sahin. La data di presentazione pubblica del progetto sarebbe dovuta essere la seconda settimana di marzo 2020. Diciamo che il Covid non ha aiutato…

Mentre ci si avvicinava alla chiusura di tutte le attività, il collettivo ha fatto in tempo a girare e distribuire due puntate di una webserie dedicata ai risvolti illusionistici di grandi avvenimenti storici – Magical History Tour. Con l’obiettivo di “riscoprire i fantasmagorici dispositivi illusionistici che da sempre segnano la storia dell’umanità”, ogni episodio è impreziosito da un’estetica ruvida che mescola i collage della mail art, le geometrie di Tron e il surrealismo di Terry Gilliam.

La rivendicazione di un immaginario visivo che rimanda ai video amatoriali e alle sgangherate fanzine cyberpunk è anche un modo per tenere aperta l’officina e rendere permeabili i confini del collettivo…
Matteo Locci: mi fa piacere che tu metta sul tavolo lo stile di quella serie bruscamente interrotta dal Covid; in generale la disattivazione – o quantomeno, la messa in discussione – della funzione estetica in campo artistico è un principio guida nelle nostre azioni collettive, di cui ci serviamo per testare l’incidenza nel reale dell’operazione stessa. Si tratta, però, di un aspetto delicato delle nostre attività, che in passato ha provocato tensioni nel gruppo e generato incomprensioni all’esterno; non abbiamo mai nascosto un certo gusto per l’incompleto, il goffo, l’abbozzato, lo sgangherato, ma ciò ha spesso minato la serietà percepita dei nostri interventi. Il nostro grado zero di performatività serviva a tenere aperte le maglie del gruppo, togliere enfasi ai momenti più performativi e così facilitare inclusività e partecipazione attiva; sempre in bilico tra il serio ed il faceto, ci siamo spesso servitx di una ricercata ambiguità per emanciparci, immunizzarci e autoescluderci dal paradigma creativo del capitalismo cognitivo. Siamo di fatto un gruppo ludico-amatoriale, che vive tale status a tratti con orgoglio, altre volte con rammarico, e che rinuncia all’autorialità del controllo estetico-formale per tenersi stretta la libertà e il diletto insito nel dilettantismo. Una scelta mai digerita fino in fondo, con ripensamenti continui e dubbi esistenziali, che però, a distanza di dieci anni dalla nostra nascita, resta una base solida su cui la nostra collaborazione prosegue virtuosa. Tra noi ci sono artistx, docenti, performer che nelle rispettive vite professionali concedono più o meno all’autorialità, ma che insieme contestano l’industria creativa con una postura politica.

Non è solamente una questione di soglia estetica e autorialità, ma anche di strumenti, budget, tempo e skill amatoriali, unite nel tentativo di individuare tra noi un minimo comun denominatore, per evitare il più possibile la divisione del lavoro secondo logiche professionali. 

Il lockdown è arrivato mentre eri impegnato nella stesura della tesi di laurea, che hai poi pubblicato con il titolo Critical Conjuring. Il libro compendia molte riflessioni nate nell’ambito di Esci, occupando in un colpo solo tre dimensioni difficili da armonizzare: il tuo lavoro è al contempo un saggio, un libro d’arte e un copione teatrale. Come hai tenuto insieme quei tre livelli e al servizio di cosa li hai messi?
Matteo Locci: Conjuring significa “Illusionismo”. La parola cela (o nega?) la matrice etimologica da conjurare; quasi nessun illusionista di lingua inglese sembra rendersene conto. Un rimosso bello e buono.

Anche se firmato a titolo personale, il lavoro è figlio dell’esperienza collettiva; senza ATI, non avrei potuto affrontare la complessità di un tema tanto vasto e spinoso. Proprio come dici, il risultato è uno strano ibrido tra libro d’arte e saggistica; in parte sceneggiatura di uno spettacolo di magia, in parte analisi critica della metodologia illusionista, è anche cronaca di una traiettoria di ricerca che evidenzia il potere della distrazione in politica, nella pubblicità e nella vita quotidiana, condensando il lavoro nella descrizione illustrata di settantadue strategie di manipolazione dell’attenzione; settantadue tecniche illusionistiche, coadiuvate da settantadue voci di un dizionario magico e da altrettanti collage analogici di supporto alle pagine del libro.

Nato nell’ambito della mia ricerca di dottorato, nei progetti iniziali si concentrava sull’economia della distrazione e lo studio dello “spettro attentivo”; con il tempo, ho capito che – volendo trovare un caso studio nel mondo dell’arte – gli esperti del campo erano gli illusionisti: sono loro a formalizzare e perfezionare le tecniche di manipolazione applicate sistematicamente nello show business, nella pubblicità e nella politica.

Ho iniziato la mia ricerca sulla distrazione in maniera piuttosto canonica, guidato da studi storici, filosofici, neurologici e psicologici sviluppati nell’ambito dell’accademia, ma molto presto poi mi sono lasciato entusiasmare dalla possibilità di considerare la filosofia alla base dell’illusionismo come uno strumento utile da utilizzare nella lotta per l’economia dell’attenzione. Dopotutto, chi meglio di un manipolatore professionale dell’attenzione delle persone può essere usato come riferimento in tempi di sovrastimolazione? Tra chi si occupa di arti performative, non sono forse gli illusionisti i più grandi esperti di attenzione?

Con il tempo, ho imparato ad apprezzare la magia; l’ho guardata, studiata, praticata, personalizzata, criticata, fino a incorporarla nella mia scrittura: mi interessava sperimentare un uso del “pensiero prestigiatorio” al servizio di una nuova forma di intelligenza politica, suggerendo l’uso di tattiche con cui invertire la manipolazione politica e attentiva; questo chiamo (e chiamiamo) “illusionismo critico”.

Io e Matteo viviamo distanti: io a Torino, lui a Roma. Invece di usare Zoom per intervistarlo, ho preferito invitarlo in uno spazio terzo, dalle architetture facili da riconoscere ma difficili da collocare nello spazio: l’ibrido di città che fa da sfondo al film Profondo rosso (1975). Dario Argento ambienta la pellicola nell’urbe capitolina ma tradisce il suo amore per la mia città, prendendo in prestito molte location da Torino. La nostra intervista si svolge nel teatro in cui Masha Merrill, nei panni della sensitiva Helga Ulman, entra nella mente di un killer e ne resta terrorizzata. Siamo a Roma nella finzione filmica, ma se usciamo dalla sala ci ritroviamo a Torino, in piazza Carignano: dando le spalle all’omonimo teatro che ospita il “congresso di parapsicologia”, abbiamo di fronte il vecchio palazzo del potere – la sede di quello che fu il parlamento italiano dal 1848 al 1867.

Collocando nel teatro Carignano una sensitiva alla fine dei suoi giorni, forse Dario Argento non sa di rievocare una figura dimenticata della scena illusionistica locale: tra il 9 e l’11 maggio 1853, Rosalie Lefèvre aka Josephine Mongruel aka la Sibilla moderna vi ha messo in scena una “grande seduta sopra i fluidi misteriosi”; è il suo ultimo spettacolo pubblico, prima di ritirarsi in un gabinetto magnetico e diventare veggente a tempo pieno. Sul palco con il marito, la Sibilla usa la cornice del magnetismo animale per dare credibilità ai giochi di prestigio che presenta, anticipando le retoriche pseudoscientifiche che nel Novecento caratterizzeranno la branca dell’illusionismo chiamata “mentalismo”.

Qualche settimana prima, un certo dottor Karl André ha documentato la possibilità di far ballare un tavolo senza dargli alcun impulso: la notizia fa il giro d’Europa e arriva a Torino l’8 maggio sulla prima pagina del quotidiano Il pirata. Cavalcando l’attualità, la Sibilla inserisce nel suo spettacolo la dimostrazione delle “tavole danzanti” e in città esplode la mania per il fenomeno; secondo il periodico satirico Il fischietto, “da qualunque lato vi rivolgiate, non vedete che magnetizzatori e magnetizzati. Andate a vedere un amico? Lo trovate occupato a formare una catena per far danzare le tavole. Entrate in un caffè? Ecco una comitiva che fa girare un cappello. Magnetismo di qua, magnetismo di là, e sempre magnetismo! E il peggio è che non solamente le tavole danzano, i cappelli girano, ma i cervelli svaporano!”.

Tra le pagine del libro di Matteo Locci c’è una riflessione illuminante, che introduco partendo dal teatro Carignano; qui è scoppiata la mania per i tavolini semoventi, per mano di un’illusionista con l’apostrofo. Non sono l’unico a lasciarsi sedurre dalla contiguità tra il luogo in cui si è consumato questo battesimo e la sede del parlamento subalpino, dove si concentra il potere della borghesia di quegli anni: tra le pagine del Capitale, dovendo scegliere un’immagine per spiegare il feticismo delle merci, Karl Marx sceglie proprio il tavolo danzante. Solo in apparenza quell’oggetto si riduce al legno da cui è composto: “Appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in tutt’altro oggetto, una cosa sensibile e sopra sensibile, allo stesso tempo afferrabile e inafferrabile. Non solo poggia con i piedi per terra, ma […] esso si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli […] e si abbandona alle più pazze bizzarrie, molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare”.

Nel 2014, nel post che inaugurava la nostra collaborazione sul tema dell’illusionismo, Wu Ming si era chiesto: “Se «magico» è ciò che si distingue dall’ordinario, si staglia dal fondale del quotidiano e produce meraviglia, come mai è tanto raro vedere la magia associata alla contestazione dell’esistente, al pensiero critico sul mondo, alle prassi che aboliscono lo stato delle cose presenti?” Più in generale, si resta sempre impressionati dall’efficacia degli strumenti illusionistici negli ambiti del marketing e della comunicazione politica.

Credo sia lo stesso Marx ad abbozzare il contributo dell’incipiente classe illusionistica alla restaurazione. Esiste, infatti, un indissolubile rapporto tra illusionismo moderno e capitalismo che passa per il controllo dei mezzi di distrazione.

Interrogandoti sull’ingrediente magico alla base del capitalismo, tu attingi allo stesso immaginario del tavolo che balla, individuando il colpevole nel “mystical status of money, of course”. Ti va di approfondire questa risposta, nel contesto del tuo lavoro?
Matteo Locci: Il tavolo di legno è un riferimento esplicito del filosofo al periodo storico della restaurazione europea successiva ai moti del 1848. Il Capitale viene pubblicato nel 1867, quindi gli anni torinesi del parlamento italiano sono effettivamente l’orizzonte temporale del tavolo danzante. Questo per dire che, pur senza farvi un riferimento esplicito, credo sia lo stesso Marx ad abbozzare il contributo dell’incipiente classe illusionistica alla restaurazione. Esiste, infatti, un indissolubile rapporto tra illusionismo moderno e capitalismo che passa per il controllo dei mezzi di distrazione.

Forse non sarà il centro della riflessione del Capitale, ma il tavolo traballante allude anche allo spiritualismo e alla magia, con tutto il suo potenziale di contestazione dello status quo e che – da metà Ottocento in poi – hanno via via lasciato spazio all’Illusionismo di e da Palazzo.

Non volendo però esasperare il détournement di Marx, nel mio libro ho elaborato un apparato estetico linguistico ad hoc, utile a comprendere la metamorfosi dell’illusionista e il suo passaggio dal congiurante al performante, dal sovversivo al produttivo. Bisogna fare uno sforzo trans-istorico durante la lettura del libro, ricordandosi che un tempo le caratteristiche destabilizzanti, femminili, politicamente sensibili e congiuranti (conjuring) della magia erano complanari all’idea di illusione; seppur distinte, erano concezioni che appartenevano alla stessa dimensione, allo stesso universo sensibile e politico, come il cacio con le pere.

Oggi, invece, esiste una distanza intergalattica tra le sue anime: un abisso oceanico le separa come placche alla deriva; l’illusionismo del tardo capitalismo guarda nel senso opposto e preferisce presentarsi sotto gli ingannevoli abiti dell’intrattenimento spettacolare del discorso aziendale-patriarcale. Corollario: all’illusionista non devi far sapere quant’è  bona la congiura col potere, ma l’affiliazione della prestigiazione al capitalismo non è eterna né tantomeno originaria e può pertanto essere confutata e poi sfidata. 

Un obiettivo ambizioso che ci poniamo è quello di retroingegnerizzare la magia, per ritornare a un’illusione congiurante che non sfrutti e speculi sui trigger evoluzionistici e sui meccanismi pavloviani che il capitalismo sfrutta per soggiogare, ma li collettivizzi; invece di diventare il Darwin della prestigiazione, il nostro collettivo aspira a dare vita alla sua versione plurale e contraria – le “Darloss”.

Sarebbe utile differenziare tra modelli illusionistici in base alle reazioni indotte in un pubblico ignaro, tra forme e modi eticamente diversi con cui manipolare l’attenzione, indurre false aspettative e regolare i flussi dopaminergici degli spettatori. Collettivizzare il controllo di tali effetti e concepire la pauperizzazione della moneta dopamina è l’utopia a cui aspira Critical Conjuring.

Il testo che ho scritto e il progetto che porto avanti con Esci sottolineano l’importanza della figura dell’illusionista (in particolare nella sua declinazione mentalistica) nella messa a sistema capitalistica degli strascichi evolutivi degli animali umani; attraverso uno studio interdisciplinare della misdirection, il libro evidenzia la complanarità del mentalismo all’ecologia dell’attenzione, evidenziando il potere della distrazione in politica, nella pubblicità e nel misticismo finanziario.

L’incanto fornisce una comoda metafora sin dalla prima rivoluzione industriale: come hai fatto notare tu stesso, Marx stesso descrisse la mercificazione come un processo magico. Esiste, quindi, una lunga linea di pensiero che certifica l’isomorfismo tra le tecniche di illusionismo e le strutture del capitale.

Tra i fondatori di ATI Suffix c’è anche Francesco Restuccia, filosofo e ricercatore che di recente ha portato i temi illusionistici nel cuore del mondo accademico, nell’ambito di un progetto presso l’Istituto Italiano di Studi Germanici. 

Francesco, come hai gestito quello che si potrebbe definire uno spin-off individuale di un progetto collettivo e da che prospettiva hai analizzato i temi di Esci nell’ultimo anno di studi?
Francesco Restuccia: il progetto collettivo Esci, come tutti i progetti ATI, è una maglia che intreccia i percorsi individuali di ciascuno di noi. Anche il mio progetto, come un filo, si è immerso in Esci, lo ha attraversato e ne è riuscito arricchito. Facendo un passo indietro, la mia tesi di dottorato in estetica (da cui è nato un libro che ho appena pubblicato con Meltemi, Il contrattacco delle immagini) era dedicata all’idolatria nell’epoca dei nuovi media. Mi interessavano quegli autori (primo tra tutti Vilém Flusser) che hanno visto nella società occidentale contemporanea il ritorno di un “pensiero magico”. La cultura scritta, lineare, razionale che ha dominato la modernità è in crisi, a vantaggio di nuove forme di pensiero e di comunicazione di tipo non lineare – emotivo, visivo, tattile, sensitivo-motorio (ci convince più un’immagine efficace che pagine di dati scientifici). La domanda che mi ponevo – e continuo a pormi – è: esiste un’alternativa tra la difesa reazionaria della cultura lineare e razionalista, e l’abbandono alle derive superstiziose e idolatriche del nuovo pensiero magico? È possibile sfruttare le potenzialità delle nuove forme di comunicazione non-lineare in modo critico? Puoi immaginare il mio entusiasmo quando con ATI è venuta fuori l’idea di lavorare sulla magia. L’illusionismo mi è subito parso un ottimo laboratorio per proporre un pensiero non-lineare critico: in altri termini, per salvare la meraviglia senza cadere nella superstizione. 

L’anno scorso ho vinto un assegno di ricerca all’Istituto Italiano di Studi Germanici: incuriositi dal progetto ESCI, mi hanno affidato una pista di ricerca sul concetto di illusione. Il mio compito era di tradurre due saggi di Konrad Lange e Karl Groos, che a cavallo tra XIX e XX secolo hanno elaborato il concetto di “illusione come autoinganno consapevole”. Ho subito pensato ad alcuni studiosi di prestigiazione come Gustav Kuhn e Jason Leddington, che distinguono tra l’esperienza della magia (intesa come pratica rituale) e dell’illusionismo (la magia come arte performativa) a partire dal carattere consapevole di quest’ultima. Così ho scritto un articolo in cui ho ripreso e approfondito questi temi, analizzando affinità e differenze tra il concetto di magia e quello di gioco, partendo da Huizinga e Caillois e concludendo con un riferimento a due tra i nostri illusionisti preferiti: Penn & Teller. Quello dell’illusione è un tema sempre più attuale nel pensiero contemporaneo, soprattutto riguardo alle nuove tecnologie: l’illusionismo offre ottimi case studies per comprendere esperienze al limite tra consapevolezza e autoinganno, come quella che si prova con la realtà virtuale.

ATI è anche ricerca collettiva e quindi tanto si nutre dei nostri percorsi individuali, quanto li arricchisce e li ispira. 

Le riflessione di Matteo e Francesco sono maturate nell’ambito di un collettivo multidisciplinare che ha l’architettura tra i suoi perni principali ed è attivo da molti anni, ben prima che l’illusionismo entrasse nella sua orbita. Del lavoro di Natalia Agati mi sono occupato in occasione della festa della liberazione 2020, raccontando Carcerrario: un progetto di ricerca sul sistema carcerario che ne propone una mappatura critica e cerca di rispondere a interrogativi sugli aspetti sociali, filosofici, territoriali, spaziali e sensoriali della detenzione. Carcerrario è stato realizzato a sei mani come tesi di laurea in architettura nel 2012, insieme a Serena Olcuire e Olimpia Fiorentino. Nel 2016 Natalia era presente alla Biennale di architettura di Venezia, essendo anche lei tra le fondatrici del collettivo ATI suffix, e ha preso parte a un’azione che coinvolgeva un oggetto magico – un mantello che rende invisibili.

Come riusciste a sfruttare un padiglione della Biennale di Architettura per mettere in scena un’azione di stampo anticoloniale, sfruttando le potenzialità della misdirection e della distrazione?
Natalia Agati: Dobbiamo ammetterlo: l’inconscio gioca strani scherzi, e nel 2016 – ben prima di iniziare a lavorare sull’illusionismo – eravamo già ricorsi a un oggetto magico per l’intervento installativo-performativo Rebootati. Il contesto ce l’aveva offerto la Biennale di Architettura dove l’equipe curatoriale dell’Uruguay, diretta da Marcelo Danza, ci aveva invitato a sviluppare un progetto site specific a partire dal tema centrale del padiglione: l’eredità Tupamaros. Iniziammo studiando gli avvenimenti storici e ci ispirammo – per l’installazione – alla bandiera dei Treinta y tres Orientales. Il vessillo, che nell’Uruguay del 1825 era stato simbolo del movimento d’indipendenza nazionale, era stato rubato nel 1969 dal gruppo OPR 33, una costola del movimento guerrigliero moderno.

Ricomparsa all’improvviso nel 2016 dopo oltre quarant’anni, quella bandiera divenne per noi un riferimento simbolico attraverso cui interrogare e provocare il contesto della mostra in cui eravamo stati invitati. 

Nei giorni dell’inaugurazione, proponemmo ai visitatori della Biennale di raccogliere oggetti dagli altri padiglioni e portarli nel nostro rifugio. Se il curatore Alejandro Aravena aveva intitolato la mostra Reporting from the front, ci sembrava sensato coinvolgere il pubblico nella creazione di un report comune e transnazionale da archiviare, imballare e infine esporre a Montevideo.

Per facilitare la sottrazione degli oggetti dalle altre installazioni, fornivamo – a chi avesse voluto servirsene – dei mantelli dell’invisibilità. Le istruzioni da noi stilate facevano appello alla coscienza personale di chi si fosse prestato nell’impresa: poiché il furto individuale è considerato criminale, spronammo a una sorta di accumulazione collettiva, intesa come forma di espressione sovversiva. Qui la provocazione: all’interno di una Biennale densa di esempi di architettura para-formale e para-legale, ci sembrava importante evidenziare la componente illegale dell’informalità con il fine di scardinare quella percezione edulcorata e ipocrita che tralascia la matrice criminale della sovversione.

L’asticella della provocazione venne rapidamente alzata dal pubblico che, coinvolto nel flusso del gioco collettivo, spontaneamente tradusse la pratica di sottrazione in un reale atto furtivo. Ci fu chi si nascose tra le installazioni dei padiglioni nazionali, chi corse a mimetizzarsi sotto il mantello tra i cespugli, chi si mise al centro di una sala col telo plastico indosso, ostentando la convinzione di essere invisibile; per non parlare di chi usava una persona investita del mantello per distrarre il resto del pubblico e compiere le operazioni furtive, approfittando dello sconcerto. Insomma, assumendo le configurazioni più surreali in modo creativo, impiegando il mantello nei modi più originali e osservando in maniera pedissequa le regole del gioco da noi tratteggiato, il pubblico del nostro padiglione reagì attivamente alla proposta ludico-sovversiva, riempiendo il nostro deposito di refurtiva. La partecipazione fu talmente massiva che ci costrinsero rapidamente a interrompere il progetto: il nostro rifugio nel padiglione venne chiuso e, con esso, anche la possibilità di realizzare effettivamente la mostra a Montevideo. Senza realmente averlo previsto, il gioco si fece duro – e ci piace pensare che fu proprio l’intervento delle forze dell’ordine il “vero” risultato dell’intervento, la prova che la nostra proposta artistica aveva funzionato.

Il mantello dell’invisibilità è uno strumento di lotta che sembra uscire da un armadio di Wile Coyote e che subisce una torsione surreale quando viene inserito in un contesto politico drammatico come quello a cui alludeva il collettivo ATI: ci voleva un certo tempo per processare lo strano incrocio proposto, dove alto e basso, tragico e ridicolo collidevano apertamente. Come in un gioco di prestigio, l’effetto sorpresa sfidava la razionalità e costringeva la mente ad attivarsi per trovare un brandello di ragionevolezza in quell’assurdo accostamento. Le regole di ingaggio premiavano uno sguardo vigile ai contenuti del padiglione e la disponibilità a mettersi in gioco, ostacolando una lettura annoiata e superficiale. La cornice di riferimento di tale strategia è la cosiddetta “frivolezza tattica”, quella modalità di lotta che mira a destabilizzare le normali logiche machiste, impiegando armi non convenzionali che fanno esplodere lo sconcerto e contrappongono il disordine carnascialesco alle cosiddette “forze dell’ordine”; ma se è facile riconoscerla in azione nelle Clown Army (che irrompono alle feste delle forze armate con l’intento di “ammazzarle dalle risate”) o nelle danze samba nei cortei del collettivo Rhythms of Resistance, l’intuizione del collettivo ATI è che si può portare una scintilla di follia critica anche nei paludati ambienti di una Biennale di Architettura.

Riconoscete nella “frivolezza tattica” una cornice efficace per descrivere la forza simbolica e performativa delle vostre azioni?
Natalia Agati: è un sintagma in cui ci riconosciamo e immagino non sia un caso se ti sei focalizzato su questo progetto nello specifico; esso ha in sé alcune tra le principali modalità attraverso cui la nostra pratica artistica si configura, qui come anche in altri contesti: la creazione di un contesto ludico, la provocazione, la ricerca della libertà di accedere ai mondi simbolici del divertimento, trascendendo le strutture imposte dal contesto sociale, l’uso di un oggetto di scena emancipatorio per il pubblico, l’anti-spettacolarizzazione, il desiderio di squarciare la tela dell’intrattenimento per accedere a uno spazio di relazione reale, l’abbassamento consapevolmente ironico della soglia estetica, il coinvolgimento e l’immedesimazione. Un set di filtri visivi per un invito ad osservare la realtà con occhi diversi, più critici ma forse anche più criticamente reincantati, alla ricerca di un’esperienza di flusso che turnianamente riesca a liquefare la struttura in un senso di collettività, non più solo visiva ma soprattutto corporea.

Se questo flusso avesse sempre avuto un che di mesmerico e se il mantello dell’invisibilità già parlasse il linguaggio della misdirection, è una domanda lecita ed è una rilettura che oggi – con il senno del poi – risuona con il nostro percorso. In questo senso Esci è stato un progetto chiave-di-volta, a proposito del quale mi ritaglio un piccolo antro da Sibilla per fare del revisionismo storico e della vaticinazione futuristica. Dentro la ricerca sull’Illusionismo sono circuitati, e hanno preso spessore, alcuni “perché” profondi del nostro agire artistico. C’erano elementi, in svariati lavori passati, che preannunciavano inconsciamente quello che avremmo chiamato Esci. Non mi pare neppure casuale che la pandemia e la conseguente crisi sanitaria abbiano intercettato – e letteralmente bloccato – la nostra ricerca artistico-illusionistica. Oggi il nostro collettivo cerca una rinascita attraverso nuove intuizioni e progetti che trascendono l’Illusionismo, portandone comunque un segno indelebile, una “firma” che influenza tacitamente quello che sentiamo essere il senso profondo dell’esperienza artistica. L’elemento indelebile, l’ingrediente stabile che non smettiamo di cercare, è il “senso di meraviglia” che abbiamo attraversato in modo critico grazie a Esci. Se oggi più che mai la meraviglia è il petrolio su cui l’industria culturale neoliberista sa di dover investire, chiunque desideri rianimare immaginari rivoluzionari sopiti non può sottrarsi a una sua rielaborazione attiva, continua e critica. Riflettere sull’uso della magia resta, dunque, un passaggio obbligato. Come pharmakon, veleno e medicina da assumere e coltivare per rigenerarsi e ricostituirsi. Mi diverte l’immagine della “retroingegnerizzazione” della magia a cui si riferisce Matteo: torna spesso nelle nostre conversazioni il desiderio – a volte espresso in maniera sarcastica – di valorizzare le matrici ingegneristiche della nostra formazione. È un percorso su cui coltivare un’alleanza che ti coinvolge in prima persona, visto che sul tuo biglietto da visita ti presenti come un “tecnico della meraviglia” – una definizione solo in apparenza paradossale. Ma questo tema ci consentirebbe di aprire una parentesi talmente grande che possiamo rimandarla alla prossima occasione di dialogo!

Quel misto di spinta gentile e contenimento subliminale è lo stesso che, nei supermercati, ispira la disposizione dei prodotti sugli scaffali.

I Pink Floyd hanno una cosa in comune con il collettivo ATI Suffix: entrambi nascono in seno alla facoltà di Architettura – in un caso al Politecnico di Londra, nell’altro all’Università Roma Tre. L’elemento curioso è che tale disciplina non richiama né il rock progressivo, né tantomeno la prestigiazione. Eppure la riflessione sugli spazi e il loro impiego oculato gioca un ruolo chiave nell’illusionismo, spesso in forme che restano ben celate.

Nel Cinquecento, per leggere nel pensiero una carta se ne distribuivano tre sul tavolo e si sbirciava segretamente la direzione dello sguardo dello spettatore: maggiore era la distanza tra le carte, più facile era “leggere” negli occhi l’indizio chiave. Quattro secoli più tardi era nata l’idea di vincolare le scelte usando una strategia spaziale più raffinata, oggi molto diffusa: invitando una persona a prendere una carta qualsiasi tra quelle sul tavolo, si sfruttano principi di prossemica per occupare una parte del tavolo con il proprio corpo e scoraggiare il pubblico a sconfinare in quello spazio, escludendo in modo discreto una porzione delle carte dalla scelta. È buona norma capire se la persona coinvolta userà la destra o la sinistra, in modo da mettere la carta da forzare alla giusta distanza, in una posizione che segue la naturale traiettoria del braccio; se lo spettatore dovesse allungare eccessivamente lo stesso, se ne ostacola il tragitto, schermando con le mani la porzione di carte proibita e assicurandosi che il gesticolare sembri non intenzionale.

Quel misto di spinta gentile e contenimento subliminale è lo stesso che, nei supermercati, ispira la disposizione dei prodotti sugli scaffali: quelli indispensabili si trovano in punti più difficili da raggiungere, mentre le cose inutili si trovano all’altezza degli occhi per aumentare la probabilità di vederle (e lasciarsi tentare dall’acquisto). Nell’ambito dell’economia comportamentale si parla di nudge (“pungolo”): Richard Thaler e Cass Sunstein hanno proposto il termine per abbracciare “ogni aspetto nell’architettura delle scelte che altera il comportamento delle persone in modo prevedibile senza proibire la scelta di altre opzioni”.

Confrontandomi con Maria Rocco, architetta ricercatrice in Studi Urbani e co-fondatrice del collettivo ATI Suffix, mi sono reso conto di quanto sia cruciale, nell’ambito dell’architettura, la riflessione sul binomio “spinta e contenimento”. Per impedire a un bambino di entrare nello sgabuzzino basta usare le parole e raccontare che vi si nasconde il Lupo Cattivo. Oggi, per scoraggiare l’uso di una panchina pubblica come giaciglio, basta installare semplici barriere che la trasformano in un luogo inospitale; le nostre città sono mostre a cielo aperto di architetture ostili, pensate per proteggere il “decoro” ed escludere alcune categorie di persone dai “quartieri alti”. Quando i pungoli architettonici vengono usati in questa direzione, siamo di fronte a una forma di magia nera, una strategia che unisce alla massima efficacia repressiva un’elegante discrezione: lo spietato trucco deve restare nell’ombra, perché – come società – dobbiamo continuare a raccontarci come accoglienti e plurali.

Occupandosi di controllo degli spazi, di segregazione e di confini, Maria si interroga da tempo sulla possibilità di concepire strategie di segno contrario, principi di magia bianca architettonica in grado di produrre sistemi spaziali inclusivi e aperti. Dal 2019, sta sperimentando pratiche di questo tipo con il Laboratorio di Città Corviale, un progetto che, con la sua attività di ricerca-azione, accompagna un’esperienza di rigenerazione urbana in un quartiere di edilizia economica e popolare di Roma.

Notturno Corviale

Come si reincanta un luogo che nell’immaginario è diventato simbolo del degrado delle periferie della capitale?
Maria Rocco: nel 2017 la prima azione a cui ho preso parte a Corviale è stata collettiva: con ATI suffix abbiamo trasformato per una notte la facciata chilometrica di Corviale in una partitura musicale ispirata all’intermittenza delle sue luci notturne. L’interazione tra gli abitanti che – giocando con noi intenzionalmente o meno – accendevano e spegnevano la luce, le vedette disposte lungo l’edificio che trasmettevano il segnale luminoso e la sua elaborazione analogica diffusa da Radio Impegno hanno prodotto un concerto che abbiamo chiamato Notturno Corviale. Oltre a riprendere alcune delle modalità di sperimentazione e dei temi ricorrenti del nostro lavoro già citati da Natalia, l’azione ha provocato un piccolo ma significativo spostamento di senso nel modo in cui Corviale era percepito – da serpentone emblema del disagio delle periferie romane a uno strumento di co-creazione polifonica.

Oggi il mio lavoro nel quartiere affianca l’attività di accompagnamento sociale del Laboratorio di Città Corviale al programma di trasformazione del Piano Libero, una strada interna all’edificio che avrebbe dovuto ospitare uffici, negozi e altri servizi rivolti agli abitanti del quartiere e che invece, come molti altri spazi del quartiere, è rimasta in stato di abbandono ed è stata occupata: una situazione di informalità durata oltre trent’anni, finalmente affrontata dal programma di trasformazione in corso, che prevede il trasferimento delle famiglie in nuovi alloggi e la transizione dallo stato di occupanti a quello di inquilini regolari.

Il Progetto delle Memorie, attraverso fotografie, rilievi e interviste con gli abitanti, documenta le case occupate e le storie di chi le ha abitate prima che vengano demolite dal cantiere, per conservarne traccia e costruire una cartografia visuale dell’abitare informale a Corviale, parallelamente al processo della sua regolarizzazione. Anche questo progetto, attraverso l’ibridazione degli strumenti disciplinari dell’architettura con il linguaggio poetico delle arti, punta a generare una rappresentazione alternativa ai discorsi criminalizzanti o vittimizzanti sugli occupanti attualmente prevalenti nella sfera pubblica. Invisibile ma potente, questa narrazione ha contribuito alla stratificazione nel tempo di quell’immaginario negativo su Corviale che, come una profezia che si auto-avvera, ha influenzato negativamente le opportunità di vita della comunità di abitanti del quartiere.

Il linguaggio artistico è inteso dunque dal progetto come modalità di ricerca-azione sui temi della rigenerazione della città pubblica e soprattutto come strumento per offrire uno sguardo critico sulla trasformazione in corso, esaminando e al contempo trasformando narrazioni, rappresentazioni e pratiche di abitazione. Decostruire la percezione pubblica di un processo complesso e conteso come quello in corso nel quartiere significa cercare di aprire un campo inedito di relazioni tra abitanti e istituzioni in cui possano emergere prospettive marginali, alternative alla narrazione egemonica su legalità e decoro, che differenzia le possibilità di accesso agli spazi della città per diverse categorie di persone.

Per restare nella metafora da te proposta, sì: ho sperimentato in prima persona forme di magia bianca agita dal basso; collaborando con alcune occupazioni dei movimenti per il diritto all’abitare, ho osservato che questi contesti informali non si limitano a svolgere un ruolo di sussidiarietà in risposta alla contrazione delle politiche di welfare pubblico, ma agiscono producendo un immaginario estremamente potente – una sorta di “contro-sortilegio” che rovescia le narrazioni dominanti e prefigura un nuovo modo di costruire la città, più inclusivo, giusto e aperto.

Descrivendo lo stato d’animo di chi abbraccia la magia come possibilità critica, in Favole del reincanto (2020) Stefania Consigliere evidenzia uno strano contrasto: quello tra la consapevolezza dell’imminente apocalisse e la mancanza di disperazione. Il collettivo ATI ospita la stessa fertile contraddizione. “Una vena ironica, allegra, è ben percepibile: il cinismo è il rischio di ogni passo, ma i nostri se ne tengono a distanza. Allargano lo sguardo. […] Forse perché sanno, come altri hanno già saputo prima, che paura, risentimento e passioni tristi sono il brodo di coltura del peggio”. Trattandosi di una postura facile da giudicare con sufficienza, “la paura è comprensibile, tanto più che non ci sono strade, nessuna garanzia, neanche dal ridicolo”.

E allora tanto vale abbracciarlo apertamente, quel ridicolo. Nel 1853, quando la Sibilla moderna faceva volare i tavoli a Torino, la Russia stava contendendo alle potenze occidentali la Crimea. Invocando la diserzione e il disarmo, l’onorevole Brahohiloff aveva proposto di schierare Joséphine Mongruel sul campo di battaglia: la Sibilla avrebbe messo i due eserciti in stato di sonnambulismo e li avrebbe disarmati nel sonno.

Citata in un articolo satirico, la soluzione non è meno surreale del corpo a corpo che Elon Musk ha proposto a Putin per risolvere il conflitto ucraino. Eppure, tra un ridicolo e l’altro, preferisco quello della veggente francese; dolcemente stralunato e orgogliosamente antimachista.