Prima è arrivata DeepSeek. Poi, una dopo l’altra, Mianbi AI, Manus e Qwen di Alibaba. Il rilascio di AI a ripetizione, fomentato da una rinnovata attenzione all’open source, ha portato a tutta una serie di analisi e riflessioni dell’ecosistema tech cinese a proposito delle differenze tra Cina e Stati Uniti, delle peculiarità del sistema cinese e delle sfide che attendono Pechino al riguardo. Dato che si tratta di Cina, non è mancato un forte impulso governativo, con il Partito comunista che ha tentato di cavalcare questa ondata, sfruttando lo shock creato da DeepSeek nella comunità americana dell’AI (che non a caso ha parlato di nuovo “Sputnik moment”) e provando a inserire tutto questo all’interno dei propri obiettivi.

E questo hype si registra anche nella società, nella vita quotidiana: quando mi trovo in metropolitana o in autobus mi capita di dare un’occhiata ai miei vicini, quasi sempre impegnati a scrollare con lo smartphone. E non di rado stanno consultando l’AI (di solito DeepSeek, ma non manca Manus). Ma l’AI in Cina è ormai utilizzata ovunque in qualunque contesto, come dimostrano anche video diventati virali sui social nazionali, dove viene mostrato l’uso di DeepSeek per scegliere il melone migliore dal fruttivendolo. E alla vita reale, in Cina, si cerca sempre di dare una sistemazione, una coerenza, in modo che il flusso tra analisi, quotidianità e politica sia costante e sembri del tutto naturale.
Visti i tempi che corrono (quelli di una leadership che non vuole fare sfuggire niente al proprio controllo) il tema più rilevante da un punto di vista culturale, in materia di AI, è un mix ipnotico di idealismo e sistematizzazione di tutto quanto è nuovo all’interno del contesto culturale cinese. L’esperienza di DeepSeek nel campo dei modelli linguistici di grandi dimensioni, ad esempio, così come l’ha analizzata Yanjun Wu sul “Bulletin of Chinese Academy of Sciences”, non viene presentata solo come un esempio di successo tecnico, ma in quanto fenomeno in grado di esprimere le sfumature di una visione dell’innovazione che affonda le radici nella cultura e nella strategia nazionale cinese. In particolare si dà risalto a un elemento dirompente di DeepSeek, ovvero il rilascio delle sue “creature” attraverso licenze open source o “open weights”, eventualità che è stata considerata una specie di schiaffo ai rivali statunitensi. OpenAi non è “aperta” davvero. DeepSeek, sì.
L’open source, con la sua natura di “bene comune digitale”, troverebbe eco naturale nel principio di “天下为公” (tiānxià wéi gōng), “il mondo appartiene a tutti”
Questa novità è stata esplorata, tra gli altri, nell’articolo “开源的中国机会” (Le opportunità dell’open source in Cina) di Zhu Qigang, Zhang Guofeng, Zhu Caihua e Zhang Yi. Per gli autori il rilascio open source delle AI non va preso in esame solo come strumento tecnologico, ma come leva strategica, culturale e persino geopolitica. A questa prospettiva si aggiungono le voci di imprenditori e leader tecnologici come Liu Zhiyuan, fondatore di Mianbi AI e Liang Wenfeng, fondatore di DeepSeek. Siamo di fronte a prospettive che uniscono idealismo tecnologico, analisi di mercato, metodi di lavoro e rilascio in grado di delineare un percorso che, nel suo complesso, si discosta in modo significativo da quello occidentale. L’integrazione poi di player come Qwen di Alibaba Cloud, una famiglia di modelli potenti con una forte strategia open source, rafforza ulteriormente il quadro di un ecosistema cinese diversificato ma unito da alcuni filoni strategici distintivi.
Cina: chmod 777
L’articolo dal titolo Le opportunità dell’open source in Cina offre una bussola importante per allacciare tutti rivoli che si stanno sviluppando in Cina, perché fornisce una cornice teorica all’approccio cinese all’innovazione digitale e all’open source.
Gli autori argomentano che la Cina, avendo rapidamente attraversato le fasi di industrializzazione e informatizzazione, oggi si trova nell’era dell’economia digitale con “l’opportunità storica di sfruttare l’open source per formare un nuovo modello basato sulla combinazione di nuove forze produttive (AI), fattori di produzione non esclusivi (conoscenza) e relazioni collaborative (open source)”. In pratica, l’open source è visto come un pilastro per un nuovo paradigma economico digitale, non come un semplice dettaglio tecnico.
Le “nuove forze produttive di qualità” (新质生产力, xīnzhì shēngchǎnlì) – il nuovo mantra della leadership cinese – rappresentate dall’AI si fondono con la conoscenza, considerata un “fattore di produzione non esclusivo” che, a differenza della terra o del capitale, non si esaurisce con l’uso ma si accresce con la condivisione, e con le “relazioni collaborative” insite nell’open source.
Ciò che rende l’approccio cinese particolarmente distintivo, secondo gli autori, è la sua profonda “risonanza” con concetti chiave della cultura tradizionale cinese. L’open source, con la sua natura di “bene comune digitale”, troverebbe eco naturale nel principio di “天下为公” (tiānxià wéi gōng), “il mondo appartiene a tutti”, un ideale di società in cui il bene collettivo prevale sugli interessi individuali.
La condivisione della conoscenza e del codice, pilastro dell’open source, riflette questo spirito di mettere le risorse a disposizione di tutti per il beneficio comune. Analogamente, la natura collaborativa delle comunità open source si allinea con il principio di “和合共生” (héhé gòngshēng), “armonia e coesistenza” o “unità nella diversità”. Le comunità open source, composte da individui con background diversi che collaborano per un obiettivo condiviso, incarnano questa capacità di integrare prospettive differenti in un ecosistema armonioso. L’ideale confuciano del “大同” (dàtóng), “la grande armonia” che promuove equità e condivisione delle risorse, è citato proprio in relazione ai meccanismi di condivisione delle comunità open source, viste come espressioni moderne di questo ideale di beneficio collettivo.
Infine, il sistema di governance meritocratica che caratterizza le comunità open source, dove “la qualità del codice e il contributo determinano il diritto di parola”, viene collegato alla tradizione confuciana del governo basato sul merito, “选贤与能” (xuǎn xián yǔ néng), “eleggere i virtuosi e capaci” (un altro grande classico della vulgata cinese).
Questo sistema, che premia il contributo attivo e la competenza tecnica, pur essendo infuso di un nucleo moderno di “uguaglianza di fronte alla comunità” che garantisce a tutti la possibilità di contribuire, trova paralleli nella selezione basata sul merito auspicata dal Confucianesimo.
Questo quadro culturale, proseguono gli autori dell’articolo, si riflette nell’evoluzione del sistema di valori nell’economia digitale, con il passaggio da fattori di produzione tradizionali a dati e algoritmi che porta all’ “etica del contributo”, dove il valore di un individuo è sempre più legato al suo apporto alla creazione e condivisione della conoscenza. La reputazione digitale costruita attraverso i contributi all’open source diventa una forma di realizzazione del valore individuale, in cui “il contributo è esistenza”. Questa “etica del contributo” è vista come un’evoluzione moderna dei principi confuciani che valorizzano l’impegno e il contributo sociale.

L’Agent Xi Jinping
Dal punto di vista politico e geopolitico, l’adozione dell’open source è inserita in una strategia più ampia, quella della “Via della Seta Digitale”. In sostanza secondo molti osservatori cinesi, Pechino può trasformare questo suo momento storico in beni pubblici infrastrutturali digitali, aiutando i paesi in via di sviluppo a superare il “divario digitale” e rimodellando le regole della governance digitale globale attraverso principi di condivisione. Questo posiziona l’open source come uno strumento di politica estera e di costruzione di un ordine digitale globale più equo e collaborativo, dal punto di vista cinese, offrendo nuove opzioni per la “ri-globalizzazione” economica e sfruttando la “saggezza unica nella governance culturale” cinese.
In tutta questa new wave di AI cinese, infatti, non manca il tentativo dello Stato di provare a guidare questo processo. E questa presenza dello Stato (cioè del Partito) è un’altra grande differenza rispetto alla Silicon Valley americana, ad esempio. E qui serve, per forza, un contesto.
In Cina, l’AI è considerata una tecnologia strategica fondamentale per la trasformazione economica, la modernizzazione militare, la sicurezza nazionale e la competizione globale. Questa visione è sancita ai massimi livelli di governo ed è integrata in piani nazionali di vasta portata. Già nel 2017, il governo cinese ha pubblicato il “Piano di sviluppo di una nuova generazione di intelligenza artificiale” (新一代人工智能发展规划 – Xīnyīdài Rēngōng Zhìnéng Fāzhǎn Guīhuà), che ha fissato obiettivi ambiziosi per posizionare il Paese come leader mondiale nell’AI entro il 2030.
Questo piano ha rappresentato una specie di tabella di marcia per decidere dove piazzare investimenti, ricerca e sviluppo. L’ultima iniziativa si chiama “AI Plus” (人工智能+ – Rēngōng Zhìnéng Jiā) e prova a mettere in pratica il piano del 2017 promuovendo l’integrazione dell’AI in tutti i settori dell’economia reale per stimolare la crescita e l’innovazione industriale.
La Cina ha una struttura statale, per quanto meno rilevante di quella del Partito. Dobbiamo immaginarci due livelli: il Partito che decide, lo Stato che mette in atto le decisioni. In tema di AI quindi lo Stato, via Partito, definisce la strategia e gli obiettivi nazionali e sceglie le aree prioritarie per la ricerca e lo sviluppo dell’AI. Ovviamente non c’è solo l’aspetto decisore, c’è anche quello economico. Lo Stato si fa carico di finanziamenti pubblici diretti, sia a livello centrale che locale, per supportare progetti di ricerca all’avanguardia, costruire infrastrutture computazionali su larga scala e investire in aziende considerate strategicamente importanti per il raggiungimento degli obiettivi fissati.
Un’altra componente cruciale del ruolo statale è la spinta verso l’autosufficienza tecnologica, nota anche come “innovazione indigena” (自主创新 – zìzhǔ chuàngxīn): siamo di fronte a un tema che è stato sempre presente nelle politiche economiche e industriali del Partito e che nel contesto della guerra commerciali con gli Stati Uniti diventa determinante. Basta guardare dentro la propria casa, se si vive in Cina: quanti prodotti non cinesi ci sono in una casa a Pechino? Probabilmente zero. Siamo di fronte a una politica “autarchica” in preparazione di tempi burrascosi, come questi che viviamo, e che ha trovato nella tecnologia uno dei suoi campi di applicazione più rilevanti.
Su questo aspetto di recente ha scritto Peng Yijie, professore della Peking University. L’articolo si intitola “从DeepSeek看人工智能自主创新的战略价值” (Il valore strategico dell’innovazione indigena nell’intelligenza artificiale di DeepSeek) ed è stato pubblicato sul 学习时报 (Xuexi Shibao) il 26 marzo 2025. Peng Yijie inquadra l’intelligenza artificiale non solo come un campo tecnologico in rapida evoluzione, ma come un indicatore cruciale della competitività nazionale in un contesto globale sempre più teso. L’AI diventa così uno strumento indispensabile per potenziare lo sviluppo, promuovere l’aggiornamento industriale e guidare l’innovazione a tutti i livelli.
Secondo il professor Peng, il modello linguistico di grandi dimensioni DeepSeek-R1, lanciato all’inizio del 2025, rappresenta un esempio emblematico del valore strategico dell’innovazione indigena nell’AI cinese. E ne dà una spiegazione quasi sociologica, perché definisce la strategia di DeepSeek una “vittoria ottenuta con l’ingegno” (以巧取胜 – yǐ qiǎo qǔ shèng), un approccio che dimostra come sia possibile ottenere successi anche senza un vantaggio assoluto di risorse, semplicemente attraverso l’innovazione nelle tecnologie sottostanti e nelle metodologie di ricerca e sviluppo. Peng Yijie nota inoltre come la scelta di DeepSeek di aprire e condividere parte dei suoi risultati di ricerca rifletta una crescente importanza attribuita alla collaborazione open source nell’industria cinese dell’AI.
Peng la mette giù così: se le imprese riescono a combinare il possesso di un maggiore controllo autonomo sulle tecnologie chiave con una partecipazione attiva nelle comunità open source e una collaborazione con i partner della catena industriale per costruire ecosistemi applicativi, “si possono creare meccanismi di iterazione robusti e solidi per l’evoluzione dei modelli e le loro applicazioni”. Peng è in ogni caso un realista e nonostante i progressi e i vantaggi unici della Cina (dovuti alla dimensione del mercato, ai dati e agli scenari applicativi) riconosce onestamente che “permangono lacune in alcuni campi tecnologici chiave e fondamentali”, specificamente i chip di fascia alta, il grande tallone d’Achille della Cina.
Ma per accelerare l’innovazione indigena in questo campo Peng Yijie propone alcuni percorsi strategici, tra i quali la necessità di “incoraggiare ulteriormente la ricerca congiunta focalizzata sulle tecnologie core, come i grandi modelli, i chip intelligenti e i sistemi operativi, attraverso meccanismi di integrazione tra industria, università e ricerca, supportati da progetti statali e finanziamenti” e l’integrazione dell’AI con l’economia reale. Siamo di fronte a un punto fondamentale: l’AI deve essere, e questa è un’altra grande differenza con gli Usa, al servizio delle necessità nazionali. Dunque deve essere inserita nei processi di governance e in settori come la manifattura, la logistica, la medicina e l’istruzione. Peng definisce questo approccio come “promozione della ricerca attraverso l’applicazione” (以用促研 – yǐ yòng cù yán), dove l’applicazione su larga scala in scenari tipici valida le tecnologie e ne accelera la maturazione.
We are the champions
Ora veniamo ai protagonisti. Dobbiamo per forza dedicare un paragrafo al fondatore di DeepSeek, Liang Wenfeng, utilizzando una sua (rara) intervista del 2023 (il titolo è 疯狂的幻方:一家隐形AI巨头的大模型之路 e la potete trovare cercando sul sito 36kr). In quella circostanza Liang aveva chiarito che l’obiettivo primario di DeepSeek non è l’acquisizione di utenti o il profitto rapido, ma il perseguimento dell’AGI (Intelligenza artificiale generale). Questo obiettivo ambizioso richiede di “esplorare nuove strutture di modello per ottenere capacità superiori con risorse limitate” un approccio che considera una ricerca fondamentale per lo scaling (il processo attraverso cui i modelli di intelligenza artificiale migliorano le loro prestazioni in base alle risorse a loro disposizione). Liang aveva criticato la pratica diffusa di copiare semplicemente la struttura di modelli esistenti, definendola ragionevole per lo sviluppo di applicazioni rapide ma insufficiente per la ricerca di frontiera sull’AGI.
Insomma Liang è un idealista e ha rivoluzionato anche i metodi di lavoro delle imprese tech cinesi. Liang Wenfeng è nato in una città del Guangdong negli anni ’80. Ha raccontato che a casa sua girava un sacco di gente, di genitori amici dei suoi, che nel tempo ha fatto i soldi. Gli anni ’80 e ’90 sono stati gli anni ruggenti in Cina, quelli durante i quali in tanti hanno svoltato. L’economia che si apriva al mondo, nuove opportunità, un mercato interno tutto da creare e l’aumento della ricchezza: era la Cina che via via si apprestava a diventare potenza economica mondiale. Liang ha raccontato che quelle persone che raccontavano le proprie gesta, avevano una certezza: che studiare non servisse a niente.
Anni dopo però, ha raccontato Liang, hanno tutti cambiato idea. Perché fare soldi non è più facile come un tempo. Liang dice che ha studiato con un obiettivo molto chiaro: cambiare radicalmente il modo di fare dei cinesi. Perché si era reso conto di una cosa: che la Cina rincorreva modelli di intelligenza artificiale statunitensi, specializzandosi poi in applicazioni. Secondo lui questa strategia nazionale non è corretta, non ha funzionato: da un lato è pigra, perché si attende l’innovazione e poi si procede a sfruttarla, dall’altro è una strategia che mira a fare soldi subito. E non innova. Per lui, ha detto, questo meccanismo non solo non funziona, ma finisce anche per deprimere i più giovani. Secondo lui infatti i giovani ricercatori cinesi vogliono l’impossibile, sono attratti da progetti di ricerca ambiziosi: se sono messi a rincorrere, ha detto, non esprimono tutto il loro talento.
Insomma, secondo Liang, bisogna puntare sull’innovazione, quella grossa. E così, grazie a un fondo di investimento con cui ha iniziato a collaborare, ha via via messo insieme una squadra di giovanissimi, neo laureati e dottorandi e gli ha detto: noi dobbiamo cambiare tutto, dobbiamo pensare alla cosa più importante: alla General Artificial Intelligence, quella forma di intelligenza artificiale che può eguagliare o addirittura battere gli umani in una serie di compiti. Quella che noi conosciamo con l’acronimo di AGI.
Il team di Liang, ad esempio, è orizzontale, non è gerarchico: procediamo dal basso verso l’alto ha spiegato. E ha scommesso su alcuni fattori: matematica, codice e linguaggio. E così per avvicinarsi al grande obiettivo è partito dal modello linguistico, puntando molto in alto: rivoluzionare l’architettura, entrare in concorrenza con gli Stati Uniti sul campo più delicato, quello dell’innovazione, quello del “modello” vero e proprio, non dei suoi corollari.
“Negli ultimi 30 anni, ha detto Liang, abbiamo enfatizzato solo il fare soldi, trascurando l’innovazione. L’innovazione non è interamente guidata dal business; richiede anche curiosità e desiderio di creare. Siamo solo vincolati da vecchie abitudini, ma questo è legato a una particolare fase economica”. Non è facile trovare un ragazzo cinese parlare così. Eppure negli ultimi mesi la sua creazione è diventata un elemento disruptive, come si dice in questo caso, cioè capace di modificare per sempre l’esistente, creare un prima e un dopo.
la Cina sembra puntare su un modello più apertamente strategico, che lega l’innovazione tecnologica a obiettivi sociali, culturali e geopolitici
Anche sull’open source ha la sua idea: ha detto di non credere nei “fossati” basati sul codice chiuso in un settore come l’AI, poiché anche i modelli proprietari finiscono per essere raggiunti dai concorrenti. Il vero “fossato” per DeepSeek risiede nella “crescita del team, nell’accumulazione di know-how e nel promuovere una cultura innovativa”; l’open source è un fattore “culturale, non solo commerciale”, e “dare indietro è un onore”.
A questa prospettiva si affianca quella di Liu Zhiyuan, fondatore di Mianbi (startup cinese che si occupa di modelli linguistici di grandi dimensioni). In una intervista ha raccontato la storia del suo modello. Riassumiamo: Liu Zhiyuan ha spiegato la decisione di commercializzare il suo modello di AI già nel 2021, perché era convinto che i modelli linguistici di grandi dimensioni avessero raggiunto la maturità tecnica per l’applicazione pratica e stessero avanzando verso l’intelligenza generale (AGI).
Questa scelta si basava su due giudizi: primo, che l’IA fosse pronta per il mercato, paragonando la situazione attuale alla transizione dei motori di ricerca dall’accademia all’industria; secondo, che i LLM fossero un’ingegneria di sistema complessa che superava le capacità tipiche dei laboratori universitari. Questi giudizi portarono alla fondazione di Mianbi AI nel 2022. Riguardo al vantaggio competitivo di Mianbi, Liu ha sottolineato l’importanza dell’innovazione continua e la capacità di integrare rapidamente le tecnologie all’avanguardia, distinguendosi da chi crede bastino solo denaro e potenza di calcolo.
Ha inoltre motivato la decisione, presa nella seconda metà del 2023, di spostare il focus dallo sviluppo di modelli molto grandi (centinaia di miliardi di parametri) ai modelli per l’edge computing. Questa strategia è stata adottata prevedendo che altri team cinesi avrebbero rapidamente raggiunto livelli simili a GPT-4, innescando una guerra dei prezzi. Ha criticato la strategia di semplice replicazione dei modelli occidentali in Cina data l’alta concorrenza interna e ha ribadito che l’innovazione originale è cruciale per guidare lo sviluppo dell’AGI. L’azienda si concentra quindi sull’essere un passo avanti rispetto agli altri e sull’essere efficiente con meno risorse.
Insomma a chi ritiene che ora nel mondo, anche grazie a DeepSeek, si scatenerà una “guerra dei prezzi”, è bene far presente una cosa: in Cina siamo già all’era “post” guerra dei prezzi, a sottolineare un mercato interno sottovalutato in Occidente e in grado di stritolare aziende e portare anche i big (vedi Alibaba) ad alzare in continuazione l’asticella.
未来 (wèi lái) – Futuro
Nonostante l’impeto e la diversità dell’innovazione cinese descritta, le sfide permangono. Ad esempio, i rischi legati alla dipendenza da componenti e infrastrutture straniere sono reali e strategici, come sottolinea Yanjun Wu, aggiungendo la necessità di sviluppare alternative autonome. Per mitigare questi rischi e rafforzare l’autonomia, le raccomandazioni di Wu includono lo sviluppo di un “sistema operativo per grandi modelli”, il rafforzamento della “governance della supply chain del software open source”, la costruzione di “infrastrutture open source paragonabili a GitHub” e l’intensificazione della “collaborazione software-hardware open source”.
Le due strade però appaiono ormai tracciate: se la Silicon Valley continuerà a spingere i confini con modelli proprietari e servizi a valore aggiunto, spesso partendo da una posizione di forza nelle risorse, la Cina sembra puntare su un modello più apertamente strategico, che lega l’innovazione tecnologica a obiettivi sociali, culturali e geopolitici, sfruttando l’open source come strumento per costruire alternative, ridurre le dipendenze e promuovere un diverso tipo di ordine digitale globale basato sulla condivisione. La presenza di attori come DeepSeek, focalizzato sulla ricerca AGI e sull’innovazione strutturale, Mianbi AI, che cerca percorsi differenziati nell’edge computing con un tocco di idealismo, e colossi come Alibaba (con Qwen) che abbracciano l’open source su larga scala ha in ogni caso un grande pregio: offre visioni alternative per il futuro dell’innovazione e apre nuovi punti di osservazione sulla Cina, il suo futuro e quindi anche il nostro.