Il titolo recita Heat, new furry VR game lewd play!
I banner di Pornhub si animano sui contorni dello schermo, mentre il riquadro del video è diviso in due. Da un lato la sex worker @gummyghost è su una sedia da gaming a gambe aperte e si fa penetrare da una sex machine con un dildo equino, dall’altro lato vediamo ciò che vede lei nel visore Meta Quest 2, ovvero le sue interazioni con Emerson, una sorta di cavallo marino antropomorfo in “Anthro Heat”, un VR sandbox game in abbonamento su Patreon. È un video NSFW ma chi sono io per non darvi il link. Non credo che si possa annoverare tra le cose moderne che ucciderebbero un bambino dell’epoca vittoriana. Pur ignorando il nome dell’autore del romanzo My Secret Life, sappiamo da Steven Marcus che era un figlio della morale vittoriana che nel 1888 è comunque riuscito a concepire e pubblicare un libro che alternava sadomasochismo, zoofilia, rapporti a tre e così via, in più di 4000 pagine. Se vedesse questo porno furry non morirebbe, ma quasi certamente non avrebbe tutte le parole necessarie per dirlo.
Ciò che abbiamo sempre chiamato pornografia è in realtà una stratificazione di molteplici narrazioni della e sulla pornografia. Tutte le epoche hanno apportato i propri contenuti, le proprie forme e i propri modelli di consumo; un insieme di saperi situati che si sono diacronicamente complicati e intrecciati con gli sviluppi tecnologici e sociali. E ogni volta la lingua, arbitraria com’è, muta per dare un senso alle nuove forme che assume la realtà. Il video di Heat è un contenuto metanarrativo. La performer, prima di masturbarsi, guida gli spettatori tra le possibilità del gioco: la scelta dell’ambientazione, dei sex toys, dei personaggi, dei loro attributi (perfino il colore dei calzini) e del livello di umanità. Mentre prova lo spanking i controller vibrano, lei ridacchia sorpresa, cercando di rimandare verbalmente le sensazioni dei feedback aptici. C’è uno scambio continuo tra realtà fisica esperita e rappresentazione virtuale ipermediata, in un movimento bidirezionale necessario per consentire la partecipazione, la condivisione di una stessa condizione emotiva. È come se il racconto capillare della customization fosse un preliminare in forma di tutorial volto a costruire le strutture dello scenario fantastico pornografico, un momento per definire quello che Elizabeth Cowie chiama “a setting of desiring”, di permettere a chi guarda di ambientarsi e interpretare le regole di quello spazio.
I tubes, ovvero i distributori pornografici à la YouPorn, nel tempo hanno costruito un codice linguistico di riferimento in grado di garantire un’accessibilità semantica alle rappresentazioni delle fantasie sessuali. Hanno fornito un catalogo in cui i desideri-in-potenza hanno acquisito un nome, e quindi una legittimità, che in altri contesti sociali non avrebbero potuto ottenere. Determinate pratiche, corpi e situazioni si sono materializzate in contenuti con like e visualizzazioni, che le attestano continuamente come fruibili e desiderabili, in un tacito accordo peer to peer di confine. Ogni video ha un titolo, delle categorie e dei tag, un miscuglio di clickbait, SEO e parole in libertà. Come sintetizza Mariella Popolla, si tratta di “classificazioni basate su informazioni e relazioni tra contenuti generati dagli utenti stessi in un processo folksonomico che decentralizza il servizio di ricerca”.
Si normalizzano e si normano i desideri, con la rete, ridefinendo di volta in volta la linea di demarcazione tra accettabile/deviante e morale/immorale. Come in ogni anfratto del web, anche nel porno online esiste un ordine simbolico che, piano piano, viene introiettato dagli users e poi riproposto e declinato nelle specificità delle singole nicchie. Nel caso di Heat, i tag usati per inquadrare la scena riflettono il linguaggio utilizzato da una determinata community online (furry, furry hentai, gaming), presentando uno specifico contenuto pornografico (yiff, solo, lewd play, porn game) attraverso l’erotizzazione stereotipata di certe estetiche (nerdy, egirl, goth, lets play) e l’interazione con strumenti tecnosessuali (vr, fuck machine, bad dragon dildo, bad dragon).
Le esperienze di spettatorialità pornografica sono infinite, come le vie del Signore, perché sono individuali. Per viverle basta rompere l’unidimensionalità del piacere proposta dagli algoritmi sulle prime pagine dei tubes, e cercare più a fondo
Ogni comunità linguistica arreda la sua backroom lessicale del sesso, che spesso rimane interdetta ai non esperti del settore. Sono termini precisi, abbastanza comprensibili per chi mastica l’internet culture, forse meno per chi viene da altri contesti e sta imparando ad abitare gli spazi digitali, sia in ottica relazionale sia nei singoli percorsi di formazione identitaria. Penso a questo gruppo di Facebook, Le Econome, che conta centinaia di migliaia di membri che si scambiano consigli e dubbi sul risparmio e la vita quotidiana. Tra i post ogni tanto capita qualcosa sulla pervasività ubiquitaria del porno online, spesso in relazione a come comportarsi con l’uso che ne fanno i figli o i mariti. C’è chi chiede come eliminare da YouTube l’annuncio per “VIP lesbiche irresistibili” sotto al video di una canzone di Rapunzel, chi parla di un bambino di 9 anni che ha cercato online “vignette porno disegnate” e chi sostiene che tutto il porno che passa da Facebook arrivi da Pinterest. Una utente, nel 2019, chiedeva: «Domandone…. Perché tutte le chat di uomini 🚹 sono colmi di filmati porno???». Sotto al post uno commentava che «Noi uomini queste cose spesso le facciamo semplicemente per manifestare nel branco il nostro lato animale. Come un gorilla che si batte il petto… È molto stupido e difficile per voi donne da comprendere, ma ti assicuro molto più innocente di quello che pensate».
Teorie “creative” come queste sono all’ordine del giorno anche in altre community. Nell’agosto 2023 il sito russo Rozetked è stato il primo a riportare la notizia per cui Pornhub aveva introdotto una nuova funzione per mobile (ancora in beta) chiamata Shorties, un’esperienza di scorrimento senza pubblicità che promuove video girati in verticale, ideali per il consumo porno dei tubes che vive della frammentazione. In sostanza l’algoritmo, tra i contenuti presenti sulla piattaforma, estrae delle clip che aggrega in una nuova sezione che funziona come TikTok. Sui social si possono trovare diversi commenti a riguardo, da chi nota come il termine “scroll” in questo contesto acquisti una nuova connotazione, a chi non è particolarmente sorpreso dalla novità, dato che esistono già diversi siti così impostati, come FikFap. Su Looksmax, invece, uno dei portali di riferimento della maschiosfera, è comparso un thread blackpill in cui degli incel sostengono che l’apertura di Shorties sia un’altra tessera del piano “degli ebrei” per friggere i recettori dopaminergici dei coomers e indurre una depressione di massa.
Mentre alcuni discorsi sulla pornografia sono ancora caratterizzati da ingenuità e complottismo, il processo di specializzazione linguistica dei tubes copre un arco di quasi vent’anni, durante i quali ha delineato un canone di contenuti, stili e modelli interpretativi. Come nella teoria letteraria, il canone non è di per sé uno strumento rigido, bensì un campo di tensione in cui si attua un meccanismo selettivo di inclusione/esclusione, che riflette le caratteristiche delle narrazioni dominanti. È infatti uno strumento di potere, espressione dei gruppi che hanno autorità e che operano in una determinata cultura, rappresentando i valori – e le ipocrisie – del sistema di riferimento. Se aumentiamo la consapevolezza dei posizionamenti che l’hanno prodotto, scopriamo anche come la nostra relazione può modificarlo, di volta in volta, attraverso la lettura interpretativa. Nel maggio 2007 il sito di Pornhub era in costruzione ma era stata avviata una prima tassonomia in cui figuravano delle niches (“nicchie”): anal, asian, big tits, black (che diventa ebony dopo qualche mese), blonde, blowjob, double penetration, facial (che evolve in bukkake), POV, straight sex, 2 girls 1 guy. Non erano ancora vere e proprie categorie, e alcune di queste si sono perse per strada, ma possono essere una buona sintesi di quella che, poi, è stata definita «pornografia mainstream», la vera causa di tutti i mali della società, per come è continuamente raccontata.
Quegli undici comandamenti iniziali oggi si sono decuplicati, perché le piattaforme si basano su logiche aggregative ed economiche che seguono gli interessi degli utenti e hanno la necessità di ampliare la propria offerta per attrarre nuovi pubblici. Un po’ di dati. La categoria fisting è comparsa già nell’ottobre 2007, mentre fingering è arrivata solo nel 2019, con romantic. Tra quelle rimosse negli anni ci sono: dancing, camel toe, sex, uniforms, scissoring, trans male, trans with girl, trans with guy. Se nel 2009 c’erano large ladies, group e public, nel 2010 si sono trasformate rispettivamente in bbw (big beautiful women), orgy e outdoor. Nello stesso anno è arrivata anche female friendly, che nel 2015 è diventata for women e nel 2018 popular with women. Tra 2022 e 2023 la sezione delle categorie era stata divisa in dieci aree (ethnicity, scenario, partners, LGBTQ, actions, attributes, language spoken, age, production, miscellaneous), una ripartizione che evidenziava alcune contraddizioni per cui, ad esempio, nella macrosezione sull’etnia era presente una categoria euro distinta da british, french, german e italian. C’è ancora questa separazione confusionaria, ma l’ordine alfabetico la rende meno flagrante.
La categorizzazione serve, in teoria, a facilitare il nostro orientamento; nella pratica riproduce dei criteri di pensiero della desiderabilità. Come fa notare Alice Scornajenghi, spesso sulle piattaforme streaming lo stesso video può essere presentato con titoli diversi, per cui l’attrice una volta è la cugina, un’altra è la babysitter o l’amica della sorella. Il titolo funziona come “eroticizzazione di quella scrittura col corpo che hai nel video”, stabilisce il patto narrativo entro cui godere della rappresentazione, che di frequente ha anche effetti grotteschi, come ben dimostrano i post dell’account Instagram @cumsibell_. La pornografia è infatti “un teatro di tipi, mai di individui”, scriveva Susan Sontag in The Pornographic Imagination. Si preferiscono convenzioni preconfezionate di personaggi, ambientazioni e azioni, utilizzando degli archetipi per minimizzare la differenza e massimizzare lo scambio sessuale. E dato che nelle pornotopie vige un’alterazione delle convenzioni sociali, è possibile che adulti consenzienti si ritrovino a identificare dei corpi come teen o milf più in base alla singole fisicità che per un’età o una gravidanza effettiva. Anche se a partire da gennaio 2022 è comparsa, tra parentesi, la specifica (18+) in tutte le categorie che potevano sottendere un’aura di pedofilia: babysitter, college, old/young, school, teen.
“L’erotico è stato spesso confuso dagli uomini, che lo hanno usato contro le donne”, scriveva Audre Lorde in Uses of the Erotic: The Erotic as Power; è innegabile. Persistono tropi problematici che rispecchiano modalità di visione retrograde, proponendole come trasgressioni eccitanti, specie per ciò che concerne i corpi razzializzati e le persone trans*; d’altronde l’evoluzione delle categorie pornografiche si attiene ai discorsi sociali e culturali, come accade in qualsiasi altra industria mediatica. Ma le soggettività escluse dal canone si sono riappropriate tanto dell’erotico quanto del pornografico da almeno quarant’anni, avanzando nuove pratiche di produzione e sguardi liminali, così che la varietà dei contenuti pornografici è sempre esondata, anche nei tubes, rompendo gli argini delle categorie. Ora non ci sono più le porn compilation bisex in split screen come una volta (banalmente perché la maggior parte dei materiali lì proposti era piratata); però, dieci anni fa, su Pornhub si trovavano agilmente profili di utenti che riuscivano a incastrare le scene più disparate: mormoni gay che si segavano in cerchio, orge ceche amatoriali in bassa risoluzione, clip di autoerotismo maschile e femminile, qualche threesome mmf brutal ma patinata. A volte in un riquadro comparivano anche “figure di mezzo”, futanari in forma hentai o donne trans (ancora chiamate shemale fino al 2018, quando la categoria diventò transgender) intente in qualche processo di sissification di uomini cis sub.
Se la produzione è etica, la fruizione è potenzialmente infinita. ognuno può desiderare inaspettatamente al di là delle norme e mantenere i propri luoghi eccentrici di fantasticheria
Erano tutte lì, che cambiavano continuamente, in un unico video, su una piattaforma nata per e abitata principalmente da un pubblico maschile cisgender, eterosessuale e bianco. Capitava che gli utenti nei commenti utilizzassero un linguaggio feticizzante contestuale, ma quei mosaici di corpi e concerti ansimanti ribaltavano qualsiasi prospettiva essenzializzante e convalidavano la possibilità di godere della non-conformità. Guardavo quelle compilation multiple ai tempi del liceo, senza soffermarmi su nessuna immagine in particolare, adottando una modalità di visione complessiva. Non avevo una base teorica per descrivere quella sensazione, e mi chiedevo dove guardassero gli altri. C’è un punto focale in cui effettivamente mettono a fuoco il loro desiderio? Si concentrano sui genitali? Aggiungono altro con l’immaginazione, o anche i loro occhi si perdono nell’insieme? Gli occhi, tra l’altro, sono l’unica parte del corpo che non compare tra gli attributes fisici classificati su Pornhub. Ci sono dei titoli che enfatizzano se l’attrice ha occhi verdi o indossa occhiali, oppure dei tag sull’eye rolling o sulle eye contact JOI. Ma non c’è una categoria ad hoc sugli occhi. È curioso se si pensa che il porno è sempre una questione di sguardi e di riflessi.
Comunque, più tardi, Eliza Steinbock avrebbe risposto alle mie domande, sviluppando le teorie di Mulvey e proponendo l’esistenza di una cross-identification potenzialmente aperta a chiunque, in grado di scardinare i presupposti cis-sessisti, in nome di un w/hole imperfetto, esitante, non riducibile ai genitali. La rappresentazione pornografica, essendo una “textualized fantasy”, non fornisce a chi guarda un singolo e unico punto di identificazione; perciò questi incroci comportano, citando Judith Butler, “a kind of gender trouble”, uno sguardo obliquo rispetto al senso che abbiamo di noi stessi fuori dalla fantasia pornografica. Potendo identificarsi al di là delle linee del binarismo di genere e delle demarcazioni genitali della soggettività sessuata, lo spettatore condivide questa qualità con le possibilità delle identità trans*. In Girls Who Like Boys Who Like Boys: Women and Gay Male Pornography and Erotica, Lucy Nevill l’ha chiamato “sguardo genderfucked”, per cui il sé immaginato è capace di muoversi, ha la libertà di mutare in manifestazioni alternative. È così che i desideri sono proiettati negli scenari più inusuali, dove i soggetti possono essere presenti nella fantasia anche in forma de-personalizzata, vedi i cavalli marini di cui sopra, ma anche in quanto calze di nylon e sex-toys fluttuanti, oppure seguendo solo i movimenti tra le diverse posizioni sessuali performate. Le esperienze di spettatorialità pornografica sono infinite, come le vie del Signore, perché sono individuali. Per viverle basta rompere l’unidimensionalità del piacere proposta dagli algoritmi sulle prime pagine dei tubes, e cercare più a fondo.
La formula “porno mainstream”, dunque, presenta dei confini più sfumati di quanto si possa pensare, e ha sempre incluso nel suo canone normativo anche elementi ab-normi, con forme e contenuti anomali rispetto all’orizzonte d’attesa. Nelle narrazioni offline, ancorate a una concezione monolitica della pornografia, tra i tubes Pornhub è stato erto a villain principale da alcuni schieramenti femministi anti-porno, i monoteismi religiosi e i partiti politici più conservatori. È indubbio che esistano ancora contenuti prodotti e interpretati attraverso uno sguardo normativo fallocentrico che gode di prospettive sessiste, razziste, esotizzanti, transfobiche, ageiste e abiliste. Ma quei gruppi non pensano attraverso questi concetti, bensì adottano la censura e la morale come pratiche politiche, informando con bias tradizionalisti le decisioni istituzionali, che finiscono col penalizzare e vittimizzare chi si occupa di lavoro sessuale. Così, la ricchezza dei desideri che deviano dalle (presunte) norme è demonizzata e appiattita.
La coalizione censoria propone un dibattito che ancora segue le direttrici comunicative impostate negli anni Ottanta, un decennio che si era aperto con l’esortazione apostolica Familiaris Consortio, in cui Giovanni Paolo II inseriva la pornografia tra le “offese alla dignità della donna”, come fosse Andrea Dworkin o Robin Morgan. Le stesse posizioni sono state reiterate senza particolari modifiche, legandole ad altre “aberrazioni” quali la “teoria gender” e le adozioni gay, come sentenziano alcune foto “inoltrate molte volte” di volantini del Gruppo evangelizzazione e testimonianza di Lecco. Papa Francesco, in un discorso ai seminaristi nel 2022, ha detto che la pornografia digitale “è un vizio che ha tanta gente, tanti laici, tante laiche, e anche sacerdoti e suore. Il diavolo entra da lì. E non parlo soltanto della pornografia criminale come quella degli abusi dei bambini […] ma della pornografia un po’ normale“. Chissà a quale categoria si riferiva.
Nel Catechismo della Chiesa Cattolica si legge che la pornografia “immerge gli uni e gli altri nell’illusione di un mondo irreale. È una colpa grave”. Per la prima parte non mi sento di dissentire. Le pornografie attingono ai desideri che si formano nel reale e nel virtuale (come vuole la rule #34) inscenandoli in visioni ideali. Il porno, come il genere fantastico per Todorov, “dura soltanto il tempo di un’esitazione”, risolta nei secondi dopo l’orgasmo, e ciò che vediamo può essere meraviglioso o strano. Ogni testo pornografico, in senso lato, può essere nominato, inteso e vissuto a seconda del posizionamento di chi lo osserva, lo legge, ci interagisce. Così, se la produzione è etica, la fruizione è potenzialmente infinita. Ognuno può desiderare inaspettatamente al di là delle norme e mantenere i propri luoghi eccentrici di fantasticheria. Per la seconda parte, quindi, credo più a Charles Fourier, per cui la nostra colpa grave “non è, come si è creduto, di desiderare troppo, ma di desiderare troppo poco”. Un po’ perché le grammatiche di base dei territori pornografici non sono distribuite trasversalmente, un po’ perché stiamo assistendo a delle continue porno enclosures che ci offrono un vocabolario confezionato e pronto all’uso, che limita le nostre esplorazioni. Lo fanno, ognuno a modo loro, i tubes, le correnti abolizioniste e anche alcune recenti pubblicazioni che si vedono progressiste ma rimuovono agency alle sex worker senza condividere neanche una bibliografia.
Con l’espansione dell’online abbiamo pornograficamente letto molto, ma forse abbiamo perso tanto il senso etimologico di scrittura, quanto la comprensione vera e propria. Da un lato dobbiamo trovare nuove immagini e sguardi da abbinare alle parole che già circolano, configurando scritture situate e relazionali, sbirciando altri paradigmi liquidi per pensare il futuribile. Dall’altro c’è da ricordarsi che, come soggetti incarnati, dobbiamo distinguere i contesti in cui leggiamo e interagiamo con i desideri: le eccitazioni del fantastico da quelle nel mondo, la materialità del corpo dalle strutture della tecnologia. Il che significa imparare a incorporare e giocare con diversi linguaggi. La durata media di permanenza su Pornhub, in Italia, è di dieci minuti. Se resistiamo qualche secondo in più, al minuto 10:30, @gummyghost prova a leccare il cavallo, imbattendosi in qualche bug. In un futuro non troppo lontano, proveremo nuove sensazioni sulla lingua e starà a noi trovare parole inedite per descriverle, da legare a ciò che esperiamo personalmente nelle nostre fantasie.