Il futuro non è morto

La musica degli ultimi dieci anni è davvero intrappolata nella ripetizione nostalgica del passato, oppure ci siamo persi qualcosa? Tra psichedelia vocale, drill e dancehall, un’intervista di Luke Davis a Kit Mackintosh dal libro Auto-Tune Theory.

LUKE DAVIS: Il tuo libro sembra opporsi frontalmente all’idea che l’innovazione musicale si sia fermata nei Duemila, un’idea alimentata da vari importanti commentatori musicali all’inizio dei Duemiladieci. È così?

KIT MACKINTOSH: Oh sì, assolutamente. Al 100%. Il punto è questo, io lo so che la nuova musica è futuristica. Lo so che è pionieristica. Lo so che è senza precedenti. Grazie a internet, ho praticamente sprecato la mia adolescenza a divorare l’intera storia della musica registrata. Se qualcuno ha scorreggiato davanti un microfono in un qualsiasi momento degli ultimi cent’anni, è probabile che l’abbia sentito. Ho ascoltato un’infinità di cose di ogni epoca, provenienza e stile, ma non ho mai sentito nulla di minimamente paragonabile alla musica che esce oggi. Ed è naturale che sia così, perché parliamo di musica in gran parte fondata su una tecnologia che non esisteva ancora quando molta di quella musica è stata fatta.

In passato ho visto critici dance più giovani di me sforzarsi di esaltare generi come la deep tech o nuove forme di house tribale o che so io. A me è sempre sembrata una forma di negazione o imbarazzo generazionale; sapevano di essersi persi l’età dell’oro della dance, e il loro era un disperato tentativo di spacciare la musica creata e ascoltata dalla loro generazione come qualcosa di rivoluzionario o interessante. Ciò detto, quando parlo di psichedelia vocale intendo qualcosa di completamente diverso. Un vero e proprio cambio di paradigma. Insomma, tutte quelle teorie sulla retro-stasi, sulla morte dell’innovazione e così via, io non me le bevo. So che sono sbagliate.

È possibile leggere l’idea della retro-stasi nel XXI secolo come riflesso dei baby boomers che arrivano alla mezza età e, per estensione, come un momento della loro vita in cui non sono troppo entusiasti del futuro e guardano con un pizzico di malinconia e nostalgia al passato.

LD: Ma se è così, come si spiega che quel pessimismo strutturale abbia fatto breccia in certi circoli di intenditori fino a diventare ortodossia?

KM: Be’, per essere onesti con molti di quei giornalisti bisogna riconoscere che, se da un lato non si può dire che il futuro sia morto nei primi Duemiladieci, dall’altro è vero che in quegli anni procedeva quasi a singhiozzo. Per cinque o sei anni buoni, la macchina si è fermata. La dance inglese – che in precedenza aveva prodotto stili come la jungle e il grime, i più sorprendenti degli anni Novanta e primi Duemila – è sprofondata nella demenza senile. Non riuscendo a immagazzinare nuovi dati, viveva nella nebbia di un passato ricordato a sprazzi. Un esempio era il dubstep – Memories of the Future e via dicendo –, ma il primo colpevole era indiscutibilmente la deep tech.

Ricordo persino un pezzo deep tech con un hook che parlava di «bringing ’88 back». Il problema però non era solo della dance britannica, c’era poca musica futuristica in ogni genere. Esaurita l’ondata di cose esaltanti alla fine degli anni Zero, quando il rap e in particolare la dancehall si erano autotunizzati, non rimaneva altro che il road rap, la trap periodo Lex Luger ecc. Tutto piuttosto divertente, ma in quei generi non c’era nulla di davvero strabiliante.

Insomma, questo è un elemento della cornice. Credo anche che in parte sia dovuto all’età di queste persone che diffondono l’idea che il futuro sia in declino. Ho una mia teoria al riguardo: la nostra storia culturale postbellica è stata scritta in gran parte dai baby boomers, e di conseguenza ricalca molto chiaramente la loro esperienza del mondo.Le nostre idee sugli anni Cinquanta e sui Sessanta pre-hippie (quando questi giornalisti erano bambini) sono puerili; in sostanza la dipingiamo come una fase idilliaca tutta incentrata sulla famiglia nucleare. Fra l’era hippie e il punk questi commentatori culturali sono diventati teenager, perciò associamo quel periodo alla ribellione, al disprezzo per l’autorità e alla scoperta di sesso e droga. Quanto agli anni Ottanta, quando questi giornalisti avevano venti-trent’anni e magari cominciavano a guadagnarsi da vivere, ne facciamo una caricatura in termini di yuppie e consumismo…

Mi sono scervellato per cercare di spiegarmi come mai così tanti nerd musicali – gente allegramente pretenziosa come me, interessata alla musica un po’ futuristica e un po’ fantascientifica e psichedelica – siano così riluttanti ad apprezzare quello che succede oggi.

Attraverso un simile paradigma, è possibile leggere l’idea della retro-stasi nel XXI secolo come riflesso dei baby boomers che arrivano alla mezza età e, per estensione, come un momento della loro vita in cui non sono troppo entusiasti del futuro e guardano con un pizzico di malinconia e nostalgia al passato. Per essere un po’ cinici, in alcune di queste idee sulla fine del futuro c’è un atteggiamento da vecchi bisbetici che agitano i pugni, stile «ai miei tempi le cose andavano meglio».

Scherzi a parte, credo che il punto sia che questi giornalisti si muovevano ancora dentro cornici elaborate negli anni Novanta. È questo che intendo quando parlo di Metal Machine Music; una prospettiva che (spesso inconsciamente) analizza ogni cosa attraverso il filtro del filone più fantascientifico di hardcore rave e jungle (quella che io chiamo «Blade Runner jungle»). Per un po’ ha funzionato a meraviglia: è un meccanismo concettuale nel quale puoi infilare di tutto – da Timbaland al Miles Davis anni Settanta – tirandone fuori idee brillanti. Ma nell’era dell’autotune, a conti fatti, più che uno strumento utile si rivela un ostacolo alla percezione degli elementi nuovi ed esaltanti della musica.

Ecco perché insisto tanto sulla necessità di emanciparci da questa concezione dance-centrica del futuro basata sulle innovazioni nell’uso di synth e sampler. Mi sono scervellato per cercare di spiegarmi come mai così tanti nerd musicali – gente allegramente pretenziosa come me, interessata alla musica un po’ futuristica e un po’ fantascientifica e psichedelica – siano così riluttanti ad apprezzare quello che succede oggi. Il mio era innanzitutto un tentativo di comprendere la mentalità dei partigiani della dance, dei raver e dei fan del grime più grandi di me (la coalizione che forma il commentariat musical-futurista, in sostanza), e poi di invitarli a mettere da parte quel paradigma per poter comprendere tutta questa nuova musica pazzesca.

Oggigiorno, le cose più ruvide tendono a essere il vistoso prodotto dei caricamenti usa e getta e della cultura dello, il che significa che queste caratteristiche amatoriali hanno perso quasi tutto il fascino e le connotazioni ribelli di una volta.

LD: Ma perché questo vecchio paradigma impedisce alla gente di apprezzare la nuova musica? Perché non riescono a godersela e a capirla come fanno con la jungle, il grime o Timbaland?

KM: Non voglio sopravvalutare l’importanza della teoria. Agli albori della psichedelia vocale, me ne sono innamorato senza bisogno di una cornice teorica. Non appena l’ho sentita, mi ha lasciato sbalordito, perplesso ed esaltato a livello profondamente viscerale, come mi è successo la prima volta che ho sentito Dark Magus di Miles Davis, le vecchie cassette hardcore rave e qualsiasi altra straordinaria musica del futuro. La concettualizzazione è nata dopo, dal mio sconcerto per la gente che continuava a parlare di retro-stasi e a rimpiangere la dance degli anni Novanta nonostante le ondate di psichedelia vocale rivoluzionaria che ci travolgevano una dopo l’altra.Ma per rispondere alla tua domanda, credo che uno dei maggiori ostacoli sia il fatto che la gente continua a concentrarsi sugli strumentali più che sulla voce. Cercano gli equivalenti moderni dell’«hoover synth» o dello «squelch» della acid house nelle basi, quando è più facile trovarli in quelle voci post-umane.

Un’altra cosa che allontana la gente credo sia la presunta perfezione della produzione musicale moderna. Se devo essere sincero, secondo me esagerano. Le registrazioni vocali di Vybz Kartel e Shawn Storm in prigione, per esempio, sono molto lo-fi, così come tanti dei pezzi rap diffusi online. La complessità dell’autotune fa sì che le voci siano caotiche e anche imprevedibili. Ma l’enfasi sulla musica «rough and tough like leather» (per citare Raekwon) la trovo un po’ superata nell’era di internet. In precedenza, quell’estetica sporca e DIY era associata all’underground e al suo bisogno di evitare la raffinatezza del mainstream.

Se questi artisti autotunizzati si dessero nomi simili a quelli dei vecchi artisti techno (Cybotron, Model 500), forse per la gente sarebbe più facile accorgersi che stanno facendo musica cyborg futuristica.

Ma i tentativi di resuscitare quell’estetica oggi, nell’epoca della produzione digitale, sembrano quasi un’estensione dell’ossessione fetish per il recupero delle aree dismesse e l’«upcycling»: una rappresentazione borghese e romanzata della povertà. Parlo di cose come Burial o Yeezus di Kanye West. Inoltre, questa è ormai diventata un’estetica tipica del web. Oggigiorno, le cose più ruvide tendono a essere il vistoso prodotto dei caricamenti usa e getta e della cultura dello streaming (quel flusso ininterrotto di contenuti stupidi o ironici che trovi online), il che significa che queste caratteristiche amatoriali hanno perso quasi tutto il fascino e le connotazioni ribelli di una volta.

LD: Come si collega quella che tu chiami «immaginazione musicale industrializzata» alle vecchie cornici di cui parli?

KM: Be’, immagino che per alcuni sia un altro ostacolo potenziale all’apprezzamento della nuova musica. Se questi artisti autotunizzati si dessero nomi simili a quelli dei vecchi artisti techno (Cybotron, Model 500), forse per la gente sarebbe più facile accorgersi che stanno facendo musica cyborg futuristica.

Le frontiere tecnologiche odierne più entusiasmanti e clamorose non rientrano più nella vecchia estetica robotica e metallica. Probabilmente la musica non fa che riflettere questa nuova prospettiva.

LD: Ma come si spiega questo allontanamento da un futurismo più incentrato sull’hardware?

KM: Di fatto, è il riflesso di una sorta di democratizzazione del futuro. Nel Novecento avanguardia tecnologica significava razzi spaziali, armi nucleari, magari automazione industriale. Tutte cose che richiedevano potere e patrimoni enormi per essere utilizzate, perciò il futuro era nelle mani del governo e delle grandi aziende, in un certo senso. Oggi non è più così. Ormai parliamo tutti con l’AI. Quegli strani personaggi che realizzano video deepfake porn con le celebrità sembrano conoscere la tecnologia meglio dei governi. QAnon, l’ISIS e gli hacktivisti di Anonymous sono emblematici di un futuro non più controllabile e non più in mano ai potenti. Le frontiere tecnologiche odierne più entusiasmanti e clamorose non rientrano più nella vecchia estetica robotica e metallica. Probabilmente la musica non fa che riflettere questa nuova prospettiva.

LD: Parli di un futuro che si manifesta attraverso particolari sottoculture. Se la gente ha la sensazione che al momento non ci sia molta musica futuristica, forse è perché non l’ha sentita e di conseguenza non ha esperienze personali o culturali significative legate a questa musica. Con la jungle, l’avanguardia sonora andava in onda ogni giorno sulle radio pirata, dove i set dei DJ contenevano i successi del momento. Sbaglio o la nuova musica devi invece cercarla e decidere di cliccarci sopra? Non è più la colonna sonora di una cultura o dello Zeitgeist come la musica di un tempo, o no?

KM: Oh, questa musica è decisamente viva e accessibile. Quando dico che viene ignorata, mi riferisco ai cosiddetti intenditori (sproporzionatamente bianchi, borghesi e di mezza età). I fruitori comuni sono assolutamente in sintonia con la musica. Tommy Lee Sparta, Alkaline e Vybz Kartel sono gli artisti più famosi delle rispettive generazioni in Giamaica. Alcuni dei rapper di cui parlo hanno raccolto centinaia di milioni di visualizzazioni su YouTube. A Londra Sud non passano quindici minuti senza sentire qualcuno che ascolta un pezzo drill. Non sto rovistando negli angoli bui del web né portando alla luce una qualche oscura regione locale. Questa è tutta musica che ha fatto breccia nella cultura.

Le nostre idee sulle sottoculture non sono quelle del Novecento. Prima c’erano gli hippie, i punk, i b-boys, i raver… Da quando sono nato, non sono sicuro che sia mai esistito niente del genere.

Mentre scrivevo il libro, mi capitava regolarmente di uscire a fare una passeggiata e sentire gli stessi brani di cui avevo scritto quel giorno o quella settimana dai telefoni o dalle auto della gente che incrociavo. Un giorno ero particolarmente fiero di me: durante una di quelle passeggiate, nello stesso momento avevo alla mia destra un tipo che si riparava la macchina sentendo trap dancehall a tutto volume, alla mia sinistra qualcuno che ascoltava Brooklyn drill nel suo appartamento e di fronte a me qualcun altro che parcheggiava con i Migos a palla sull’autoradio. Era come se tutto il mio libro mi si fosse materializzato davanti in un attimo. Insomma, questa è musica che esiste davvero nel mondo, è la colonna sonora della nostra cultura.

Ma tu hai ragione quando dici che le nostre idee sulle sottoculture non sono quelle del Novecento. Prima c’erano gli hippie, i punk, i b-boys, i raver… Da quando sono nato, non sono sicuro che sia mai esistito niente del genere. Probabilmente la drill è associata alla dimensione del «roadman», che può essere vista come una sottocultura. Ha una sua uniforme, uno slang è così via. Ad Atlanta potrebbe senz’altro esistere una cultura psichedelica simile al mumble rap con dreadlock colorati e via dicendo, di cui gli outsider non sanno granché. Un elemento simil-sottoculturale della nuova musica è una sorta di cyber-criminalità che si manifesta nella presenza online della drill e anche nelle truffe telefoniche internazionali esaltate nella trap dancehall. Tendo a usare l’espressione «cultura di internet» come uno spregiativo, non mi va particolarmente a genio, ma il fatto che la tecnologia digitale si stia infiltrando nelle o interfacciando con le culture del mondo reale lo trovo molto fico e futuristico.

La nuova musica suscita una reazione del tipo «ah, i ragazzi di oggi», come quando i meno giovani dicono «è tutta uguale». Sono sicuro che i miei nonni dicevano lo stesso del rock negli anni Settanta, forse anche i tuoi genitori riguardo al rap dei Novanta, quando eri ragazzo. È un meme mentale che si reincarna in diversi avatar concettuali ogni dieci o vent’anni.

LD: Tornando alla musica, la tua idea centrale è che con l’autotune si possa fare di tutto, il che va contro la visione caricaturale secondo cui sarebbe uno strumento omogeneizzante.

KM: È curioso, vero? La nuova musica suscita una reazione del tipo «ah, i ragazzi di oggi», come quando i meno giovani dicono «è tutta uguale». Sono sicuro che i miei nonni dicevano lo stesso del rock negli anni Settanta, forse anche i tuoi genitori riguardo al rap dei Novanta, quando eri ragazzo. È un meme mentale che si reincarna in diversi avatar concettuali ogni dieci o vent’anni. E l’incarnazione più recente sembra essere lo scetticismo verso l’autotune. L’autotune non omogeneizza affatto le voci, cosa che invece secondo me facevano il vocoder e la talk box. Il suono di Tommy Lee Sparta in «Target» è completamente diverso da quello di Future in «I Got the Keys».

Negli anni Novanta si usava l’idea di «scenio» elaborata da Brian Eno (gli exploit collettivi frutto del groupthink e non del genio individuale) per descrivere i progressi della musica dance. L’autotune, invece, dà risalto all’individuo. I nuovi suoni di oggi nascono dai vezzi vocali degli artisti, e l’autotune li incoraggia a puntare sulle proprie qualità uniche per ottenere suoni ancora migliori e più strani. Insomma, la tecnologia sta in qualche modo incentivando l’espressione individuale. In sostanza possiamo paragonare l’autotune alla chitarra elettrica. Wes Montgomery, Jimi Hendrix, Johnny Marr e i My Bloody Valentine usavano tutti la chitarra elettrica, ma ne ricavavano suoni completamente diversi. Lo stesso vale per gli artisti autotunizzati.

Credo che il paragone con Jimi Hendrix sia particolarmente adatto alla trap dancehall. Hendrix faceva un assolo di chitarra con la distorsione che si trasformava in feedback, per poi aggiungere il pedale wah wah e darci dentro all’improvviso con la leva del vibrato. Faceva trucchi di ogni genere per modificare i suoni nel corso di una canzone o di un concerto. Qualcosa di simile a quello che faceva uno come Rebel Sixx, per esempio.

LD: Di fatto l’autotune è il nuovo sintetizzatore. Ha quell’aspetto infantile stile specchio deformante del luna park, ma lo fa con la voce.

KM: Sì, hai perfettamente ragione!

LD: Ma allora cosa fa di questi esperimenti un nuovo macrogenere? Non possiamo definirli semplicemente dei nuovi sviluppi di stili preesistenti?

KM: Questo è un punto centrale. Il rock è nato negli anni Cinquanta o Sessanta, a seconda di come la vedi, e ha aperto la strada a decenni di musica nuova. Lo stesso si può dire di hip hop e dancehall nei tardi Settanta, di house e techno negli Ottanta, di tutta quella dance inglese dei Novanta che a volte viene chiamata «hardcore continuum». Insomma, quando dico che la psichedelia vocale è un nuovo macrogenere intendo davvero che è una svolta paragonabile a quella di altre forme musicali.

Se possiamo dire che, malgrado le somiglianze, «Acid Tracks» dei Phuture non appartiene allo stesso genere di «I Feel Love» di Donna Summer, allora è giusto ritenere la psichedelia vocale un mondo a sé. Come minimo, Tommy Lee Sparta, Big Voice e così via sono diversi dagli artisti dancehall precedenti tipo Elephant Man quanto «Acid Tracks» lo era da «I Feel Love». Altrettanto vale per la differenza tra qualcosa come «Blue Cash» di Playboi Carti e Waka Flocka Flame o qualunque altro artista di dieci anni prima. È francamente impossibile sostenere che si tratti dello stesso genere.

C’è sempre qualcosa di straordinario che bolle in pentola. A volte devi avere la pazienza di aspettarlo, ma se qualcuno ti dice che il futuro è morto, ricorda che sta mentendo. Come dici tu, il futuro è un meraviglioso orizzonte irraggiungibile.

Ho fatto sentire un po’ di questa psichedelia vocale a gente che conosce piuttosto bene il rap e la dancehall degli anni Novanta, ma quando ascoltano questa nuova musica per la prima volta faticano persino a individuare il continente da cui proviene, per non parlare del genere a cui appartiene. La prendono per indiana o qualcosa del genere. Il che secondo me la dice lunga su quanta strada ha fatto la musica rispetto a un tempo. Un paragone efficace potrebbe essere quello fra «I Ain’t No Joke» di Eric B & Rakim e «The Boss» di James Brown. Non mancano i punti di contatto – i fiati, il parlato –, ma l’asse della musica e le emozioni e gli umori suscitati dai due pezzi sono, a conti fatti, troppo diversi per accomunarli. La stessa differenza secondo me è riscontrabile fra la psichedelia vocale da un lato e rap e dancehall del passato dall’altro.

[…]

LD: In conclusione, dove pensi che andrà la musica del futuro?

KM: Chi può dirlo? Nessuno lo sa. Mentre scrivevo il libro, stava emergendo un filone di Jamaican drill. Sarebbe stupendo se si evolvesse in qualcosa di veramente nuovo ed esaltante. Il Regno Unito non si è ancora cimentato nella psichedelia vocale. Negli anni Novanta i musicisti inglesi facevano cose con sintetizzatori e sampler che erano chilometri più avanti di tutto ciò che arrivava da Giamaica e USA. Insomma, non si sa mai, potrebbero fare la stessa cosa con l’autotune e ricavarne la musica più sorprendente dei Duemilaventi.

Qualunque cosa succeda, però, sono sicuro che sarà straordinaria. Già una volta ci siamo sentiti dire che dovevamo smettere di credere nel futuro, salvo essere travolti da un’ondata musicale fra le più incredibili di tutti i tempi. Evitiamo di ripetere lo stesso errore. C’è sempre qualcosa di straordinario che bolle in pentola. A volte devi avere la pazienza di aspettarlo, ma se qualcuno ti dice che il futuro è morto, ricorda che sta mentendo. Come dici tu, il futuro è un meraviglioso orizzonte irraggiungibile.

Traduzione di Michele Piumini