Il futuro è una pietra

I destini ipotetici dell’opale nero: una storia dell’altro mondo

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Silvio Berlusconi, nella sua villa villaggio in Sardegna, può godere di quella che è stata battezzata Piazza dell’altro mondo, perché circondata da otto frammenti di un meteorite caduto in India, nel 2003: lo leggo in una scheda informativa dell’Associazione Parchi e Giardini d’Italia.

Secondo la nota deposizione del prof. Fagiolo alla redazione dell’Espresso, gli otto megaliti avvolgono uno spazio a cerchio, richiamando l’epitome delle “uova cosmiche”; così pare. E: gli otto megaliti specchiano il numero dell’infinito. Leggo di come il meteorite, ficcandosi nel pianeta, abbia ucciso un uomo in India, nella regione dell’Orissa. Di questo sacrificio umano, però, non trovo notizie.

Ogni pietra è un’organizzazione di ricordi; sulle pietre rimbalzano mani, cicli familiari… come nel giardino veneto, che non tornerà più, e in molti giardini, dove convivono peschi e lucertole, tartarughe e salvie: i piani del tempo combaciano solo per caso, a manate. 
  

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Ogni pietra anticipa il nostro sguardo, e chiede di essere guardata. La materia è la memoria delle conseguenze, la rete delle relazioni, dei destini ipotetici. I meteoriti, per esempio: precipitano nello spazio e raccontano finali, nascondono altre pietre. Che nascono incastrandosi secondo i suggerimenti del cristallo, che sono un’altra natura da noi; sono i sentimenti della pietra.

La pietra va dove deve. Poi gli schiavi la scovano, si leva il sangue, e messa all’aria diventa un gioiello: pronto al suo scopo: mettere all’aria quello che è nascosto da milioni di anni, tra combinazioni catalitiche e pressioni inaudite, cose al buio. Poi chi indossa i gioielli muore; carbonizzato, torna alla natura minerale; anche sotterrato è lo stesso, le gioie tornano nella loro catena, nel ciclo dell’azoto. Quale nostalgia si raccontano i gioielli delle persone amate, nel buio sottoterra? E cosa ci raccontiamo noi, sepolti in casa, a bofonchiare…

Ho letto un articolo in una vecchia copia di Frigidaire, un reportage su un villaggio di minatori di opali. Il villaggio si chiama Coober Pedy ed è in mezzo all’Australia Meridionale, a quasi mille chilometri da Adelaide. Nel dopoguerra Coober Pedy ha ospitato centinaia di immigrati italiani, che si sono adattati da subito all’urbanistica locale; per effetto delle temperature estreme, di giorno e di notte, nel villaggio si vive sottoterra.

Cercano opali, insomma. Il valore dell’opale fluttua nel tempo, e dipende dall’esemplare. C’è l’opale bianco, che non vale molto, e può spargere attitudini sinistre, come il ciondolo di Rutilio Valdarena, il nonno di Liliana che stava in via Merulana. Quell’opale portava addirittura il cancro.

C’è l’opale matrice, ancora da sgrezzare, l’opale di fuoco. L’opale nero, invece, è il più fortunato e porta la Luce nell’aura, dissolvendo i riflessi depressi e disperati, le paure di notte; amplifica l’intenzione e protegge da sé stessi, viaggia nel tempo dell’ego, legge gli sguardi, ricicla la morte.

L’articolo risale ai primi anni Ottanta, e racconta che tra questi italiani ce n’è uno, Daniele, a cui si accompagna una certa fama. È chiacchierato. Dicono che quando nel pomeriggio i minatori si stendevano per riposare, dopo la prima cena, Daniele vedeva in ogni nuvola una figura, e la raccontava; in ogni nuvola, mettendo tutti d’accordo. Nel tempo la cosa si è fatta strana – se non paurosa – tanto che gli italiani ne parlano a ogni occasione, anche ai giornalisti. Perché si scopre che Daniele, in ogni forma naturale, vede coincidere l’essere umano. È un ripetitore. Ogni pietra che gli capita ripete quel gioco delle nuvole, ma nella terra. Le pietre allora vengono selezionate, curate e – com’è ovvio – vendute. Alcune ricordano rituali di passaggio, sacrifici; altre il Duomo di Orvieto, altre delle ragazze intorno a un nocciolo. Non hanno altro significato, se non l’allusione alla propria forma. Nessun messaggio, se non che questo esiste, e quello pure. Nel giro di poco tempo, leggo, le pietre di Daniele superano il valore dell’opale nero. Si parla di milioni di dollari. 

Alcuni dicevano Daniele fosse una donna, perché qualche giorno al mese capitava che sanguinasse. E: Daniele scriveva poesie.

Lucine notturne in terra la gente
ricicla codici, il fiume s’ingrossa.
Mi chiedo quanti ne prende angoscia
nel poco respiro, sempre più niente.

I codici allora tornano in mente
sedersi in cerchio sulla terra smossa
e le droghe, gli zaini, la torcia
perché mai non dimentico niente?

So i resti di questo e le ossa di quello…
dove vanno ora, che respiro appena?
Si fanno distanti, piccole luci.

Anche lontano, ricordo, mi bruci.
C’è l’ultima immagine, tutta trema:
‘e il resto è storia…’, scritto sul più bello.

  

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Arriva l’antagonista, ovvio. Il fatto è che si trovavano ancora molti opali, anche se avevano sempre meno mercato. L’idea di Andrea T., che sarebbe l’antagonista, è che alla lunga questa cosa delle immagini nate dal caso, e così le pietre e ogni significato, non può funzionare. Le persone si illudono nelle direzioni, ne hanno una sete nascosta, che è eterna: e ogni opale nero nasconde il futuro, mappe astrali. Porta la Luce nell’aura. Insomma Andrea T. si inventa per gli opali delle storie che promettono un futuro radicato nel passato, che il tempo abbia senso e direzione, coreografie tarocche illuminate dai raggi delle pietre: è tutto finto, e non c’è nessun problema. Il valore dell’opale nero torna a salire.

Le pietre di Daniele invece sono cose che accadono e, da un giorno all’altro, si trovano senza valore. Amen. Daniele l’abbiamo cercato, ma non c’è più, da nessuna parte. Un tizio ha trovato una pietra che gli somiglia, residui della superstizione. Vicino alla pietra ce n’è un’altra, coperta dal calcare, spanto sulla linea dei versi:

Seguendo le disposizioni solite
della logica notturna del letto
dei muri maledetti fino al tetto
non so più se nell’ombra, nei rumori,

possa sentirlo e vederlo da fuori:
il cuore io lo vedo: sbatte nel petto.
Possa dimenticare ogni assurdo gesto
nel perdermi all’aria buia, nei vuoti…

Potendo ricorderei da dove entro
la forma iniziale di ogni partenza,
i lunghi cicli di mola e di tornio.

Potendo dormirei in fondo, contento
che dopotutto se sciupo è esistenza;
lunghi cicli di orrore, qualche sogno.