Il futuro che ci aspetta

Rocce, deserto, colonie e viaggi su Marte: una visita a Mitzpe Ramon, insediamento umano in un pianeta ostile

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La notte non è mai buia, e anche sulle strade senza lampioni riverbera una luce cinerea e bluastra, come se la Luna fosse grande il doppio o due volte più vicina. Durante il giorno invece il panorama diventa indistinguibile dalle foto che arrivano da Marte; pietre rosse, nere, arancioni, ocra e gialle, fino all’orizzonte.

Mitzpe Ramon è una città di cinquemila abitanti, un centinaio di prefabbricati, capannoni e edifici bassi nel deserto del Negev. Si affaccia sul ciglio di uno strapiombo profondo centinaia di metri dove inizia il cratere chiamato Makhtesh Ramon, una valle lunga quaranta chilometri e larga otto di cui è impossibile abbracciare i confini con lo sguardo. Sembra l’impronta lasciata da un immenso asteroide ma è una depressione naturale che si è formata grazie al peso del tempo, quando l’oceano ha lasciato spazio al deserto e il terreno ha iniziato a collassare su se stesso solo poco alla volta, roccia dura che preme su minerali morbidi per milioni di anni.

Lungo la linea che separa Mitzpe Ramon da un salto nel vuoto non c’è neanche uno steccato. Una persona molto distratta potrebbe semplicemente precipitare giù durante una passeggiata. Ma gli esseri umani che si avvicinano all’orlo sono pochi, ci si avventurano invece con più disinvoltura decine di stambecchi selvatici, che non è raro sentire zoccolare anche per le vie più centrali della città. I maschi hanno delle corna minacciose, semicerchi lunghi un metro decorati da nodi e rigonfiamenti che ricordano le vertebre della spina dorsale. Al tramonto i più spavaldi si fanno largo tra i tavolini dei pochi bar della città per rovistare tra i cestini. 

Dicembre e gennaio sono i mesi peggiori per i turisti, il cielo è spesso coperto e le temperature di notte scendono anche decine di gradi sotto lo zero. Io arrivo in una sera dei primi di gennaio, e lo stupore per il luccichio argenteo della Luna non riesce a ricompensarmi dal freddo che mi aggredisce appena scendo dall’autobus. L’ostello è essenziale ma non sgradevole, pulito e sobrio, più o meno gli stessi aggettivi che potrei utilizzare per descrivere Yotam, il ragazzo che mi accoglie alla reception. È vestito da montagna, con i pantaloni pesanti e un maglione di pile di una taglia più grande della sua. Mi chiede da quale tappa del viaggio vengo e rispondo solo Gerusalemme senza aggiungere che sono stato tre giorni in Palestina. Oltre a lavorare per l’ostello, Yotam ha un terreno, poco fuori il centro abitato, dove alleva alpaca, lama e una razza locale di asini selvatici che chiama asiatic wild ass. Mi dice che il giorno dopo ha mezza giornata libera e se voglio mi può scarrozzare un po’ in giro.

La mattina mi sveglio presto e prima di incontrare Yotam mi incammino per la città, inizio a spiare dentro ai negozi. Incontro: un discount, un negozio di abbigliamento sportivo; ristoranti, di cui uno indiano, uno messicano, uno caucasico e tre vegani; un supermarket bio, un supermarket per animali domestici, un piccolo McDonald, due palestre di yoga; le indicazioni per raggiungere un albergo di lusso con piscina e una decina di centri turistici che organizzano “esperienze uniche” nel deserto. Passo accanto a queste vetrine estranee e familiari durante una mattinata nuvolosa. Cerco di buttare un occhio anche dentro alle finestrelle che si aprono sulle facciate pallide delle abitazioni private ma non riesco a scorgere nessun dettaglio interessante delle stanze. Le strade sono ampie, l’asfalto è un po’ sconnesso. Tra gli edifici c’è qualche albero a basso fusto e dell’erba stenta.

Da qualsiasi punto della città, si vede la possente torre idrica comunale. È in cemento armato, con la testa a cono rovesciato. Per austerità e robustezza potrebbe essere stata catapultata lì direttamente dall’Unione Sovietica, una sensazione di leggera ucronia rafforzata dalle scritte in cirillico che appaiono a macchia sui cartelli per strada, cosa non rara in Israele dove il russo è la lingua madre non ufficiale più diffusa.

L’altro edificio degno di nota, che spezza la monotonia urbanistica di Mitzpe Ramon e intensifica però l’atmosfera extraterrestre, è il Visitor Center costruito a pochi passi dal dirupo del cratere. Ha la forma di un verme schiacciato che si attorciglia su se stesso. Si affaccia sul makhtesh con una grande vetrata curva che ricorda la visiera di un casco da astronauta. Mitzpe d’altra parte significa “punto di osservazione”. È un edificio bizzarro, ma messo lì, appena fuori dal centro abitato, in contrasto allo schema ortogonale delle case tutte uguali colpisce come un capolavoro dimenticato di Frank Lloyd Wright. 

Per entrare al Visitor Center devo schivare l’interesse inquieto di un gruppo di stambecchi che bivacca nei dintorni. All’ingresso, come se mi si rivelasse la parte più evidente di un mistero ostinato, scopro che quell’edificio, oltre a essere una sorta di pro-loco, è anche un piccolo museo dell’astronautica dedicato a Ilan Ramon, colonnello dell’aviazione israeliana, il primo ebreo a volare nello spazio, morto il primo febbraio 2003 nell’incidente dello Shuttle Columbia dopo una missione spaziale di due settimane. Nato con il nome di Ilan Wolferman, all’inizio della carriera militare, prima ancora di diventare astronauta, lo cambiò in Ramon proprio per rendere omaggio a quel pezzo alieno di deserto.

In Israele sorti ostili e memorie inconciliabili si trovano a dover sopravvivere convivendo, e così per un museo che celebra un eroe nazionale ce n’è probabilmente un altro che chiede di raccontare una storia differente. Non fatico a scoprire che quella di Ilan Ramon è una figura dibattuta, anche se di questo nei pannelli del Visitor Center non c’è traccia. Nei suoi anni di aviazione militare prese parte alla prima guerra in Libano, bombardando la popolazione civile, e partecipò all’attacco aereo del 1981 sul reattore nucleare di Osirak in Iraq.

L’esposizione museale è spoglia e tristarella, ci sono delle teche che conservano le tute pressurizzate usate da Ramon, molte foto e qualche modellino di sonda spaziale. Una stanza del museo è dedicata poi alla storia geologica unica della zona: tre campioni di roccia – arenaria, calcare e granite – sono esposti sotto una teca di plexiglass. Su un pannello leggo che, grazie alle sue condizioni meteo e alla conformazione del terreno, Mitzpe Ramon è stata effettivamente scelta dall’agenzia spaziale israeliana per simulare missioni umane su Marte. I partecipanti faranno piccoli esperimenti, raccoglieranno dati sui rischi di contaminazione biologica e i loro comportamenti saranno studiati per testare la tenuta psicologica di un gruppo di persone in condizioni di isolamento quasi assoluto.

Torno all’ostello per incontrare Yotam. Lo trovo che mi aspetta al volante di una jeep. Mi racconta che con quella, in alta stagione, porta i turisti in giro per il deserto. È il suo terzo lavoro, se non ho perso il conto, e il numero è destinato subito ad aumentare: da qualche mese per due o tre giorni alla settimana aiuta anche un amico nella sua azienda vinicola. È lì che stiamo andando. 

Mi chiedo che cosa significhi per lui essere nato e vivere in questo avamposto della civiltà ricco ma desolato, tra le rocce e gli stambecchi, dove le case sono cubi e parallelepipedi bianchi di uno, due o tre piani. L’effetto che fa a chi la visita è che Mitzpe Ramon non sia mai riuscita a diventare una città, che sia rimasta un insediamento. Il suo spirito è ancora quello della fondazione, negli anni Cinquanta, quando in mezzo al nulla furono costruite lì le prime case di un campo operaio, durante i lavori per la strada statale che porta al mar Rosso. Oggi, vista da lontano, non può che far pensare a una colonia umana in un pianeta ostile. Vorrei dirlo a Yotam, ma decido che in fondo la musica nella jeep è troppo alta e il mio inglese troppo pigro perché io possa parlare di “coloni” con un ragazzo israeliano senza essere sicuro che questo non porti a una sciarada di fraintendimenti, spiegazioni e magari anche litigi. Sto zitto e guardo fuori, finché non arriviamo.

Dal punto di vista meteorologico questa terra è un disastro, mi dice Yotam, l’aria è secca, d’estate fa un caldo infernale, tutto l’anno non piove quasi mai e quel poco che piove non resta perché viene spazzato via nelle inondazioni lampo tipiche del Negev che trascinano giù a valle fiumi di fango. Ma proprio per queste caratteristiche Mitzpe Ramon è diventato un laboratorio. Il futuro del pianeta è Mitzpe, mi dice. L’azienda vinicola del suo amico, che fa parte di una rete di vigneti costruiti in zona, è una piccola surreale vivace macchia verde in mezzo ai colori pallidi del deserto. I filari delle viti mi sembrano troppo esigui per ricavare un numero dignitoso di bottiglie, e Yotam mi spiega che in effetti quelle aziende sono utilizzate soprattutto come luoghi di sperimentazione per capire come l’uva possa crescere in condizioni estreme. In fondo tra non molto anche le campagne italiane e francesi potrebbero ritrovarsi immerse in un clima simile a quello del Negev. Così dal punto di vista economico queste imprese si sostengono soprattutto grazie ai finanziamenti delle università, delle grandi aziende vinicole europee e dalle società di irrigazione che stanno testando lì le loro tecnologie.

Yotam si avventura in molti dettagli tecnici, e io che sono in vacanza non ho intenzione di seguirli. Li dimentico subito ma provo a ricostruirli: con il caldo l’uva va a maturazione più velocemente, e questo scombina ovviamente l’intera filiera, i vini diventano più zuccherosi e troppo poco acidi, escono fuori con colori sbagliati e soprattutto degradano in sapore e gradazione alcolica. Ma, aggiunge Yotam, adesso, dopo anni di duro lavoro, stanno riuscendo a ottenere, e addirittura mettere in commercio, le prime bottiglie buone. Anche nel deserto, anche in queste condizioni climatiche.

Mi fa assaggiare il loro Chardonnay, senza però versarsene anche lui un goccio. È troppo presto di mattina ma non posso rifiutare. Per quello che ne capisco mi sembra un vino terribile, molto intenso e terroso, minerale, troppo alcolico. Mi dà subito alla testa. This is future that awaits us all, mi dice Yotam con un tono di voce indecifrabile. Cerco di sorridere e finisco il bicchiere.