Il digital detox è una trappola

La nuova economia del digiuno digitale intermittente

Digiuni forzati dalla rete, periodi di disintossicazione naturalistica new age e pratiche ascetiche di analogizzazione. Digital mindfulness, collari elisabettiani per esseri umani e dispositivi di auto-monitoraggio elettronico. Pagine e pagine di guide e manualistica, ore e ore di tutorial YouTube realizzati dai guru del marketing, ora convertiti in guide spiritual-motivazionali.

Se ancora stai leggendo questo articolo, avrai intuito che mi sto riferendo a quel promettentissimo fenomeno nato in California e battezzato col nome di digital detox, che sta proliferando tanto nel discorso pubblico quanto in quello accademico. Sebbene sembrerebbe affondare le radici già nel lontano 2010, l’istituzionalizzazione e la conseguente esplosione del fenomeno sarebbe avvenuta solo di recente grazie al dilagare di una diffusa stanchezza cognitiva, e di retoriche deterministiche sugli effetti dei media digitali promosse dal giornalismo e da autori come Janor Lanier e Sherry Turkle. Il digital detox rappresenterebbe non tanto una via univoca e definitiva per l’abbandono degli ambienti digitali, bensì un coacervo di attività dietetiche e disconnettive di stampo neoliberale che promettono di ottenere un miglior rapporto col mondo online, una diminuzione/eliminazione dei presunti effetti patologici che provoca e, infine, il ritrovamento di una perduta quanto incerta dimensione umana.

Le ambizioni sono grandiose, i rimedi miracolosi, le narrative apocalittiche.

Come vedremo, però, il detoxing digitale – sebbene risponda a un concreto e interrogabile stato di malessere e disagio largamente condiviso – consiste in realtà in una forma mercificata e ideologicamente predeterminata di distanziamento dagli ambienti online, finalizzata alla riorganizzazione dell’economia dell’attenzione e all’ottenimento di una maggiore prestanza produttiva negli individui.

Dualismo digitale

L’analisi del discorso e delle pratiche disintossicanti fa emergere in primo luogo come il digital detox intrattenga un rapporto tanto ambiguo quanto problematico con la realtà. Possiamo infatti constatare come emerga costantemente una tendenza a produrre quello che Nathan Jurgenson ha definito digital dualism: una cesura immaginifica, improbabile e solo apparentemente ingenua fra mondo online e mondo offline, fra realtà analogica e realtà digitale. Assistiamo così a uno slittamento valoriale che attribuisce, forse per la prima volta nella storia dei nuovi media, una connotazione positiva alla disconnessione dagli ambienti digitali, omettendo ogni riferimento all’ancora diffusissimo digital divide. La fuga dalla rete o la mancanza di una connessione diventano eccezionalmente l’orizzonte a cui mirare, ma soltanto in maniera temporanea.

Il dualismo digitale viene quindi innescato mediante la proiezione sull’online di assiologie corrispondenti all’inautenticità e alla freddezza relazionale, alla freneticità e al caos esperienziale. Diversamente il mondo reale sarebbe un luogo privo di conflittualità, in cui risiedono comportamenti sociali genuini, routine giornaliere placide e per niente ansiogene. In tal senso il discorso dietetico elude goffamente l’impossibilità di separare le due sfere ambientali, ma la tenuta di questa visione è fortemente instabile.

È stato osservato attraverso l’analisi etnografica, per esempio, che il successo del fenomeno disintossicante deriva anche da un’intensa attività di promozione social, realizzata da chi offre prodotti e servizi dedicati; ma anche che gli individui che intraprendono tali percorsi hanno la tendenza a postare tra i propri contatti l’esperienza una volta conclusa. Molte pratiche di depurazione inoltre – nel caso in cui non prevedano paradossalmente il vero e proprio utilizzo di applicazioni di automonitoraggio, dedicate alla quantificazione del tempo speso online – trasportano alcuni linguaggi mediali nel mondo analogico, al fine di rendere meno doloroso il distacco.

Come sottolineano Urs Staheli e Luise Stoltenberg, Camp Grounded (un campus di disintossicazione californiano) favorisce l’utilizzo di media analogici quali macchine fotografiche e mappe, creando una bizzarra remediation (Bolter e Gruisin) che simula l’esperienza digitale in forma analogizzata. L’edizione 2014 del Tap Project – iniziativa lanciata da Unicef e finanziata da Giorgio Armani – prevede invece una applicazione che promette di distribuire acqua potabile in paesi in via di sviluppo, per ogni dieci minuti passati senza interagire col proprio smartphone.

In questa prospettiva si determina una sorta di regressione mediale, o gamification del reale, che più che ottenere una scissione fra mondi produce una inquadratura totale delle vite all’interno di pattern mediatici; una contaminazione rafforzata dell’online sull’offline. La cecità consapevole con la quale vengono costruiti tali scenari oscura il fatto che molte delle problematicità proprie della sfera digitale – e in particolar modo degli ambienti social – non sono altro che il frutto dell’esasperazione di dinamiche già presenti nelle società pre-digitali. L’appropriazione del tempo libero da parte dell’industria culturale (già annunciata da Guy Debord nel 1967), l’accelerazione forsennata e ansiogena dei ritmi vitali, il narcisismo dilagante unito al bisogno sfrenato di riconoscimento sociale, sono infatti solo alcuni degli effetti della tarda modernità neoliberale, che ora subiscono un ingigantimento ipertrofico grazie alle capacità pervasive, amplificatorie, emotiviste della rete. Theodora Sutton, non a caso, al termine della sua etnografia realizzata a Camp Grounded, osserva che la comunità di detoxer non sta fuggendo tanto dal digitale quanto dagli stili di vita contemporanei.

Lungi dal voler scadere in un becero tecno-ottimismo, andrebbe quindi ribadito che i prodotti culturali (media e tecnologie comprese) non sono mai neutrali ma al contrario portatori di un chiaro orientamento ideologico, e per questo componenti di un più ampio sistema che produce stanchezza e senso di sopraffazione ansiogena.

Economia della stanchezza

Nonostante le continue omissioni discorsive, il digital detox continua la sua attività mitopoietica attraverso la diegesi di scenari offline paradisiaci privati dalle insidie tecnologiche, e di fughe naturalistiche di decadente memoria, funzionali alla rigenerazione fisica e spirituale. Lo sviluppo di tali costellazioni immaginifiche non è casuale, ma al contrario sapientemente finalizzato all’instaurazione di un nuovo circuito di mercato che offre artefatti, esperienze turistiche, sportive e ricreative, rispondenti a crescenti bisogni di autenticità e di «staccare la spina». Riprendendo di nuovo Staheli e Stoltenberg possiamo costatare che il digital detox offre la soluzione a una connettività bulimica, proponendo però alternative mercificate e intrappolate all’interno di chiari selciati ideologici.

La disintossicazione dal digitale occupa e contemporaneamente espande quel contenitore economico-estetico-esperienziale che definiremo slow & low, e che a partire dagli anni Ottanta ha iniziato a generare un’esaltazione dell’analogico, della bassa qualità formale, della lentezza e infine della nostalgia per un passato mai vissuto. Assistiamo infatti alla proliferazione di prodotti culturali, di luoghi del consumo e di pratiche ricreative che trasportano il consumatore verso la riscoperta di scenari, gusti e sensazioni veraci ormai perdute. Gli influencer raccontano le tipicità arcaiche o nascoste del globo, i locali interdicono volontariamente la connessione alla rete internet invitando al dialogo, il turismo magnifica itinerari esotici e selvaggi, il fast-food si trasforma in slow-food. Questa svolta emotivista, notano Pine e Gilmore in The Experience Economy, è appropriata a un’era in cui la domanda di prodotti e servizi tende a essere saturata da un’offerta più ampia a costi decrescenti.

È quindi evidente l’insorgere di un’incombente necessità di creare mercati alternativi, che sopperiscano all’attuale difficoltà delle piattaforme e degli inserzionisti pubblicitari di catturare l’attenzione deflagrata e dispersa dei pubblici connessi per monetizzarla. Sorge la necessità di fondare un’economia della stanchezza che accolga e prometta di curare lo stato di esaurimento generale.

Il marketing ha particolarmente a cuore la disintossicazione dal digitale, senza contare che il fenomeno sorge in California come frutto di quel mélange ideologico anarcocapitalista che unisce liberismo di mercato e strascichi della controcultura hippie.

Decelerazione acceleratoria

Come già accennato, la dieta digitale – specie nella sua forma turistica – si manifesta come periodo di disintossicazione che immerge l’individuo all’interno di routine lente o per meglio dire, decelerate. Slowness & lowness si impongono come valori fondamentali del percorso riabilitativo. La fuga dagli ambienti digitali è infatti indirizzata verso oasi naturalistiche (e non negli spazi metropolitani, per esempio), dove vigono ritmi contemplativi e dove le attività privilegiate sono lo yoga, la meditazione, il climbing. Parlare della propria professione e utilizzare device tecnologici è strettamente proibito. Tali retoriche e modalità di disconnessione che inquadrano il digitale come unica realtà frenetica e separata dal suo sistema sociale non sono però convincenti. Urge ribaltare la prospettiva.

Hartmut Rosa sostiene che l’accelerazione ansiogena dei ritmi vitali sia una caratteristica strutturale della temporalità tardo-moderna, che confluisce inevitabilmente nella rete e si infiltra capillarmente nella quasi totalità dell’esperibile umano. Nel suo Accelerazione e Alienazione, Rosa ci invita a osservare che le ruote motrici capaci di avviare l’accelerazione temporale contemporanea sono da individuarsi nella logica competitiva del mercato capitalistico e nella secolarizzazione della società. Da un lato, infatti, la necessità di primeggiare nella sfera commerciale rende necessario l’aumento della velocità dei ritmi produttivi e della circolazione delle merci; dall’altro, la scomparsa dell’orizzonte post mortem induce l’individuo ad accumulare e vivere quante più esperienze possibili, in un arco temporale limitato come quello della vita terrena.

Competizione e secolarizzazione travalicano – nel passaggio dalla modernità settecentesca alla contemporaneità – i propri campi d’azione, innescando un loop autopoietico di accelerazione dei ritmi vitali, dei mutamenti sociali e infine delle innovazioni tecnologiche. Gli ambienti online, e i social in particolare, accolgono, intensificano e distribuiscono parossisticamente tali dinamiche di socialità umana, rafforzandone l’onnipresenza ma non in maniera univoca e deterministica. Il clima ansiogeno, sopraffattorio e di debito temporale che genera soggettività competitive, iperattive e dedite al multitasking non sarebbe (solo) un prodotto del digitale ma un attributo delle società capitalistiche contemporanee, rintracciabile nella quasi totalità delle attività vitali. Dalla sfera lavorativa a quella dei rapporti umani; dal mondo dell’istruzione a quello della creatività. La logica dell’auto-imprenditorialità che si estende alla totalità degli individui e dei loro percorsi biografici, genera quindi un senso di stanchezza fisica e spirituale, una iper-frammentazione dell’attenzione, un incremento di breakdown mentali e una flessibilizzazione costitutiva delle vite.

Il digital detox in quanto fuga momentanea dalla rete e dalla società non sembra offrire soluzioni convincenti, ma può anzi essere inteso come una decelerazione acceleratoria. Una «forma limitata e temporanea di decelerazione, che mira a preservare la capacità di funzionare e continuare ad accelerare nei sistemi acceleratori. […] Manager o insegnanti in preda allo stress, che si prendono una pausa in un monastero o frequentano corsi di yoga che promettono riposo dalla gara per poter partecipare con maggior successo ai sistemi sociali acceleratori. In modo analogo, parecchia letteratura consiglia oggi un rallentamento in alcuni processi di apprendimento e di lavoro per accrescere il loro volume complessivo in periodo dato, o ancora raccomanda pause per aumentare le capacità e le forze creative necessarie all’innovazione». A conferma di tale ipotesi, Gavin Mueller sottolinea nel suo Tecnoluddismo che «la nostalgia romantica per le conversazioni faccia a faccia o il ritorno a valori umanistici e alle attività affettive non sembrano abbastanza antagonisti né generalizzabili per porre fine alle distopie digitali». Sarebbe anzi un nuovo modello di business di piattaforme, quello che, di fronte alla crisi dell’attenzione, predilige una logica qualitativa a una quantitativa.

In un giorno c’è un numero limitato di ore. Facebook non può continuare a investire sulla quantità di tempo speso – deve estrarre più valore in meno tempo. È un passaggio dal plusvalore assoluto, basato sull’estensione del tempo speso a produrre dati per Facebook, al plusvalore relativo, dove il tempo speso su Facebook è reso più produttivo.

Si può quindi chiaramente osservare quanto l’improduttività degli individui venga sistematicamente tematizzata come problema da risolvere nelle guide, negli articoli e nei tutorial per la disintossicazione. Da questo punto di vista il testo di Alessio Carciofi, guru italiano della dietetica digitale nonché personaggio del mondo del marketing, porta un titolo eloquente: Digital Detox. Focus e produttività per il manager nell’era delle distrazioni digitali.

Regimi dietetici

Nel suo articolo Disconnect to reconnect: The food/technology metaphor in digital detoxing, Theodora Sutton osserva come la semantica del digital detox e dei discorsi apocalittici annessi si appropri costantemente del lessico alimentare, di quello dietetico e in una certa misura di quello medico. Leggiamo e sentiamo sempre più spesso parlare di obesità psicologica, bulimia informativa, nutrizione digitale. Anche lo stesso riferimento a detox/disintossicazione indica un lasso temporale di astinenza nel quale avviene la purificazione corporea. Il rapporto con l’universo medico-alimentare è molto più che metaforico e per nulla casuale. Le fortissime analogie fra nutrizione e comportamenti digitali confermano anzi l’appartenenza di entrambe le sfere al paradigma del potere neoliberale e ai suoi dispositivi.

In Aggiungi un selfie a tavola, Luisa Stagi e Sebastiano Benasso sottolineano che il corpo magro inizia ad assumere nella società tardo-moderna il valore simbolico di un sé perfettamente gestito, risultato dell’incorporazione di pratiche alimentari corrette e della capacità di mediazione tra eccessi contrastanti. «Al contrario chi devia, e perciò minaccia l’ordine sociale, è costantemente segnalato e degradato perché deve funzionare da monito per chi non vuole finire nell’esercito dei diseredati.» Ciò avviene in quanto l’ingresso nella contemporaneità neoliberale comporta un maggiore grado di libertà dalle costrizioni disciplinari esterne, a cui corrisponde specularmente un alto tasso di responsabilizzazione individuale. L’essere umano diventa un self-made man affrancato dalla società, sul quale ricadono i successi o gli insuccessi del proprio agire e delle proprie scelte.

Affinché si mantenga una conformità al modello prestabilito, occorre una preliminare e massiccia diffusione di guide, strumenti, figure professionali e prodotti mediatici capaci di far introiettare le giuste norme da seguire. Successivamente saranno sufficienti apparecchi di self-tracking e quantificazione del sé utili a monitorare le azioni quotidiane e a mantenere o incrementare il «benessere» vitale. Nella dimensione della dietetica digitale, il rischio che si tende a esaltare discorsivamente è quello dell’improduttività, intesa (anche) come incapacità di focalizzare l’attenzione. Non esiste sito, guida o tutorial che non problematizzi l’assenza di performanza (professionale, sociale, creativa) intesa come male da estirpare immediatamente. La corrispondenza fra corpo magro e corpo produttivo risulta cristallina in quanto l’ottenimento e il mantenimento del primo implica l’esistenza del secondo.

Il digital detox come insieme di pratiche disconnettive e dispositivi di apprendimento o automonitoraggio, si pone in quest’ottica come regime dietetico-alimentare decelerante che concepisce l’ozio e il digiuno solo se finalizzati alla rigenerazione fisico-mentale e quindi alla riacquisizione di un corpo produttivo. «È la società che si apre alla medicalizzazione della vita quotidiana, intesa come spostamento dalla cura all’ottimizzazione delle prestazioni. Con la medicalizzazione si curano le falle prestazionali, perché il soggetto deve essere altamente performante e imprenditore di se stesso», scrivono i due autori.

Riprendendo Zygmunt Bauman e Ulrich Beck, segnalano inoltre come in un tale contesto normativo i disturbi del comportamento alimentare subiscano un incremento notevole. La corrispondenza fra i regimi alimentari contemporanei e la disintossicazione digitale trova nuovamente conferma nel momento in cui si osserva come la sintassi bulimica – esattamente come quella delle attività di detoxing – segua un processo per cui a periodi di digiuno si contrappongono momenti di liberazione dedicati all’abbuffata. Basti pensare alla «tecnica del pomodoro», nata negli anni Ottanta e ripresa da applicazioni e piattaforme, che a un lasso temporale di concentrazione profonda e misurata attraverso un timer, offre brevi pause liberatorie volte a rafforzare, incrementare e rigenerare la produttività e l’attenzione.

È l’affermazione del carnevalesco inteso come «spazio di sospensione della norma che collabora a canalizzare il desiderio, controllando e neutralizzando le pulsioni in modo conforme e funzionale all’organizzazione sociale».

Precorporazione e resistenza

Nella sua ormai celebre analisi del potere neoliberale, Mark Fisher scrive che «quella con cui ora abbiamo a che fare non è l’incorporazione di materiali che prima sembravano godere di un potenziale sovversivo, quanto la loro precorporazione: la programmazione e la modellazione preventiva, da parte della cultura capitalista, dei desideri, delle aspirazioni, delle speranze». Non dissimilmente il digital detox, per come l’abbiamo conosciuto finora, sembra seguire il medesimo schema d’azione. Realizzando anche una breve ricerca online risulta infatti evidente come le alternative offerte vengano generate e ideate dai medesimi settori industriali che hanno avuto un ruolo centrale nello sviluppo del problema. Il marketing, per esempio, ha particolarmente a cuore la disintossicazione dal digitale, senza contare che il fenomeno sorge in California come frutto di quel mélange ideologico anarcocapitalista che unisce liberismo di mercato e strascichi della controcultura hippie.

Proponendosi come forma di opposizione binaria alle nuove tecnologie, il digital detox occupa il campo delle alternative esistenti e immaginabili, tentando di occludere l’insorgenza di pratiche di resistenza non mercificate e ideologicamente antagoniste. La fuga dialettica e momentanea dagli ambienti della rete non permette infatti il dilagare su ampia scala di pratiche concrete di scardinamento delle affordances digitali, realizzabili permanendo all’interno degli ambienti online. Hackeraggio tecnologico finalizzato al disinnesco dei sistemi di sorveglianza e tracciamento, produzione di software liberi e non mercificati, detournement hi-tech per ingannare e manipolare i sistemi algoritmici.

Una ricerca effettuata da Zizheng Yu, Emiliano Treré e Tiziano Bonini dimostra ad esempio come i rider cinesi siano stati capaci di sviluppare una «algorithmic solidarity» in grado di ridurre il potere delle piattaforme di food delivery, che si concretizza attraverso tattiche complesse di manipolazione dell’algoritmo e modalità di organizzazione collettiva stabilite attraverso chat private. Da una serie di interviste realizzate da Emiliano Treré durante il periodo pandemico, emerge che in molte aree del Sud del mondo la connessione rimane ancora un privilegio, ed è proprio in quei luoghi che si sviluppano forme di connettività disconnessiva che si servono del digitale per recuperare quell’autenticità e genuinità dei rapporti sociali che il discorso disintossicante afferma essere ormai perse.