Metahaven, Hometown, 2018, video, HD, 31', veduta della videoinstallazione a due canali nella mostra Sunrise, Simulation, Röda Sten Konsthall, Göteborg 2020. Foto di Hendrik Zeitler.

Il cestino da picnic è il Presente

Il cinema poetico di Metahaven: una conversazione con Leonardo Dellanoce

Da Holly Herndon a Digital Tarkovsky, dal graphic design al cinema sperimentale, pubblichiamo una conversazione col collettivo Metahaven tratta da COMP(H)OST – IMMAGINARI INTERSPECIE, libro realizzato da Castello di Rivolia.titoloNERO in cui la ricerca artistica dialoga con il pensiero speculativo e le scienze umane e sociali attraverso contributi originali e transdisciplinari. Un libro nato per studiare lo scambio, la convivenza e la mescolanza attraverso un intreccio di storie e di saperi diversi. 

Leonardo Dellanoce: Nella primavera del 2015, un giorno entrai in un edificio di Amsterdam-Noord per cominciare a svolgere il mio primo lavoro ufficiale, erano tempi eccitanti. Di fronte all’ufficio in cui lavoravo, dal lato opposto del corridoio, c’era uno studio con le porte chiuse. Appesi alla porta c’erano degli schizzi preliminari di quella che mi sembrava allo stesso tempo la pagina di un libro, un’opera d’arte e un’interfaccia digitale. La complessità di quelle immagini colpiva non solo per la molteplicità di livelli che contenevano, ma anche per la reazione emotiva che innescavano in me come osservatore. Come utente di internet, le percepivo in qualche modo come familiari, ma allo stesso tempo molto liriche, e mi davano quell’eccitazione che si prova di fronte all’ignoto. Il vostro modo immaginifico di esprimere e trasmettere le emozioni su certi temi fa sì che chi osserva le vostre opere abbia la libertà di chiedersi cosa possa significare un’immagine – al di là del suo significato più diretto – immergendosi nella sua estetica.

Come avrei scoperto più avanti, quelle immagini erano fotogrammi di Information Skies, l’opera a cui stavate lavorando, e le porte su cui erano appese erano quelle del vostro ex studio.

La reazione istintiva che ho avuto quel giorno guardando quei fotogrammi ha trovato conferma e piena espressione qualche tempo dopo, quando ho visto i vostri film, The Sprawl (Propaganda About Propaganda) (2015), Hometown (2018) e Eurasia (Questions of Happiness) (2018).

Nel volume PSYOP: An Anthology, Richard Birkett, curatore della vostra mostra all’ICA di Londra nel 2018,2 definisce questa «trasmissione dell’esperienza attraverso un allineamento di parole, immagini e suoni» che avviene nel vostro lavoro «estetica emotiva». Com’è entrata nella vostra pratica?


Metahaven, The Sprawl (Propaganda About Propaganda), 2015, still da video, HD, 70’.

Metahaven: Nella primavera del 2015 avevamo appena finito due video musicali, e stavamo lavorando a The Sprawl, il nostro primo lungometraggio. Perciò quelle stampe appese alla porta probabilmente erano fotogrammi da The Sprawl, o forse da qualche video musicale precedente. Information Skies lo abbiamo finito nel 2016.

Ricordiamo bene il fastidio che infliggevamo ai nostri vicini di Volume magazine dal lato opposto del corridoio con la musica a tutto volume che usciva dalla nostra minuscola sala di montaggio. Molto del nostro lavoro successivo ha mantenuto gli aspetti dei primi video musicali. La musica, o la melodia, si accumula in un singolo presente.

Ciò che colpisce sul piano emotivo è in realtà piuttosto diverso dall’«argomento». E dunque non va confuso con la presentazione estetica dell’argomento stesso. Dietro al tema esplicito di un documentario può agire un’altra sensibilità. The Sprawl, per esempio, è un film sulla propaganda, ma contiene anche elementi che scorrono sotto la superficie e, in un certo senso, nella direzione opposta a quella del tema principale. Ne è un esempio la sequenza che cita il saggio Cos’è l’arte? di Tolstoj,3 in una parte del film che parla proprio del modo in cui una persona registra l’esperienza del reale, e di come, secondo Tolstoj, la narrazione della realtà può essere arte.

Spesso abbiamo tentato di spiegare (anche a noi stessi) che abbiamo cominciato come graphic designer sperimentali, e che in tutto ciò che abbiamo fatto c’è sempre stata una forma di racconto, di svolgimento narrativo. Spesso nei nostri lavori ci sono degli elementi apparentemente inutili, che poi si rivelano in qualche modo utili da punti di vista diversi da quello strettamente funzionale, e questo succede anche quando lavoriamo con le immagini in movimento. Anche quando si tende a interpretare quello che facciamo come una sorta di commentario, la nostra intenzione spesso è un’altra; in realtà per noi si tratta di esprimere le nostre esperienze. Il fatto che il frutto di questa espressione sia anche un assemblaggio estetico – sequenze cinematografiche sottoesposte, sottotitoli colorati, lingue diverse, animazioni e liriche – non cambia nulla.

Come abbiamo detto in un’altra occasione, «il cinema poetico può operare una sorta di impollinazione incrociata tra parola e immagine, e non è determinista, mentre invece il cinema narrativo orienta una storia in un’unica direzione. Il cinema poetico può apparire potenzialmente ciclico, mentre la narrativa – in cui l’entropia è preminente – tende a sembrare lineare. Hometown è il frutto di una tensione tra poetica e narrativa, contiene elementi di entrambe le cose ma anziché collocarsi da un lato o dall’altro di questa divisione, il film contiene delle bolle narrative, come i testi poetici e quello che è quasi un coro».4 A proposito di cinema poetico, qualcuno ha detto che Sergej Parajanov aveva uno sguardo diverso sul cinema a causa del suo legame con la musica, «vedeva il film come una struttura musicale».5

Metahaven, The Sprawl (Propaganda About Propaganda), 2015, still da video, HD, 70’.

LD: Torniamo a ciò che avete appena detto a proposito del fatto che la vostra esperienza con i video musicali ha influenzato il vostro lavoro cinematografico: «la melodia si accumula in un singolo presente». Il vostro lavoro attuale offre un’interpretazione molto specifica del Presente. Quale?

MH: Oggi il cinema è combattuto tra l’imperativo di rallentare la frenetica spinta del tempo quotidiano e l’incorporazione di quella stessa spinta frenetica all’interno della loro competizione perenne con il tempo stesso e con altre esperienze di immagine in movimento. Sebbene siano ormai liberi dalle convenzioni di montaggio e dalle pressioni sulla durata della TV mainstream, nell’orizzonte temporale si presentano altri attori. Ci sembra che il Presente veicolato dalla maggior parte dei media, se non da tutti, sia al momento un presente estremamente compresso e molto carico. C’è una (ridicola) pretesa del Presente in tutte le piattaforme, i «momenti» di WeChat, i «fleet» di Twitter, le «storie» di Instagram ecc. Ognuna di queste cose, che prese singolarmente avevano lo scopo di essere molto brevi e disponibili soltanto per 24 ore, se prese insieme portano a un’esperienza visiva la cui durata richiama non un solo film ma un’intera retrospettiva di Tarkovsky. Ma questo Presente esteso, in cui tutti stiamo costruendo la FOMO6 dell’altro, ironicamente è emerso in parte dal desiderio (o dal modello che ne consegue) dei social media di costruire un presente fuggevole ed effimero che scompaia immediatamente, un desiderio nato come reazione al tipo di permanenza che gli stessi social media hanno costruito intorno all’identità e alla storia personale. Perciò c’è una sorta di competizione per il Presente, che emerge dall’atto di osservare.

Metahaven, Information Skies, 2016, still da video, HD, 24’.

Dal nostro punto di vista, ci sono due modi di rispondere a questa dinamica: il primo si basa sull’idea di musica e di melodia come un «oggetto che si forma nel tempo», ed è un paradigma che troviamo convincente per interpretare l’immagine in movimento e il suo sovrapporsi ad altre forme artistiche. Il Presente è il momento che contiene tutto ciò che è successo prima. Anche quando montiamo un elemento accanto a un altro, la scena o la sequenza precedente continua a vivere nella successiva. Anziché essere un puntino che si muove lungo una sequenza temporale lineare, il Presente trattiene tutto ciò che è successo prima e diventa un deposito. È un po’ come in quel gioco che comincia con una persona che dice: «Sto andando a un picnic e mi porterò…» aggiungendo poi un alimento, come «…delle mele» o «…dei carciofi». Il secondo giocatore ripete ciò che ha detto il primo e aggiunge un altro alimento: «Sto andando a un picnic e mi porterò dei carciofi e delle banane». Il terzo giocatore ripete la frase del secondo e aggiunge qualcos’altro: «Sto andando a un picnic e mi porterò dei carciofi, delle banane e delle ciliegie».7 Ecco, il cestino da picnic è il Presente.

Il secondo approccio è quello di ignorare il Presente privilegiato che emerge dalla percezione umana e concentrarsi invece su modalità visive e percettive che non sono condizionate dal bisogno umano di «coesione». Nella sua esplorazione delle «tecno-geografie dell’esperienza», per esempio, Jennifer Gabrys nota che la «webcam opera sempre più come un generatore di ambienti di attenzione e preoccupazione». Ma «anziché parlare delle videocamere nel contesto della proliferazione della visualità e delle immagini», la sua analisi si concentra sui «modi in cui le videocamere e le pratiche dell’immagine vengono trasformate in sensori, dati sensoriali e pratiche sensoriali».8

LD: Qualche mese fa, mentre condividevamo del cibo e del vino nel vostro studio di Amsterdam, mi avete detto che la poesia sta assumendo un ruolo di primo piano nel vostro lavoro. Nel vostro film Hometown, del 2018, per esempio, compare esplicitamente una poesia. Ci sono anche dei modi più impliciti in cui la poesia, come forma d’arte e atto performativo, dà forma ai vostri progetti attuali e futuri?

Metahaven, Hometown, 2018, video, HD, 31′, veduta della videoinstallazione a due canali nella mostra Turnarounds, e-flux, New York 2019. Foto di Gustavo Murillo Fernández-Valdés.

MH: L’idea di Edmund Husserl della conservazione della melodia, o allo stesso modo il gioco del picnic, riguardano anche la curva dell’attenzione. La chiave sta in quanta differenza o similitudine possiamo mantenere in una singola ripresa o nella durata di un suono per fare in modo che, seppure offerta all’ascoltatore in uno stile lineare, l’esperienza in sé sia non-lineare. In questo senso anche la musica ha la capacità di innescare un processo di influenza reciproca tra le note, grazie al quale una nota può influenzare retroattivamente una nota precedente. Nel primo romanzo di Clarice Lispector, Vicino al cuore selvaggio,9 la protagonista Joana osserva un pianoforte e si rende conto che quello strumento incarna «tutta la musica». Perciò il pianoforte è una traduzione fisica della conservazione di tutta la musica. Poi Joana si domanda: «Dove va la musica quando non suona?». Poesia significa curiosità. Nel nostro nuovo film Chaos Theory sviluppiamo ulteriormente questa idea. Ecco una breve citazione dalla sceneggiatura:

X

Vedo noi in cose che non sono noi

nei disegni sui sedili dell’autobus

LD: Nel vostro libro intitolato Digital Tarkovsky10 trattate in profondità questioni di coscienza cinematografica e dell’esperienza del tempo che ne deriva. Il testo affronta molti argomenti, dal mestiere del cinema alle tecnologie a sensori, dalla tradizione cinematografica a Instagram, e molti altri, alludendo in sostanza a una definizione più ampia di ciò che è o può essere cinema. Qual è l’urgenza dietro a queste riflessioni, sia da un punto di vista personale sia professionale?

MH: Digital Tarkovsky è il prodotto di una serie di seminari che abbiamo tenuto al centro di ricerca The New Normal dello Strelka Institute di Mosca. Siamo innamorati del lavoro di Andrei Tarkovsky da tanto tempo, perciò volevamo indagare più a fondo. Il fatto che in un’epoca associata con i jumpcut, l’8k e il CGI fosse un regista come Tarkovsky a trarne forza sembrava un paradosso; eppure è ciò che sentivamo (e sentiamo ancora). Per noi era importante non cedere all’idea ovvia e banale che i suoi film siano l’alternativa lenta al «junk food» del cinema mainstream e di internet, e considerare Tarkovsky al di fuori di questa dialettica niente affatto interessante. Basandoci sul suo lavoro, possiamo pensare alla dimensione cinematografica di una realtà più ampia e «percepita», a forme non dichiarate di cinema prodotte da forme non dichiarate di cinepresa. Molti film, per esempio quelli drammatici, sono organizzati intorno a momenti di irreversibile entropia. Come si intersecano questi momenti di entropia – che dovrebbero farci desiderare di continuare a guardare – con la non-linearità e con l’idea che «la distinzione tra passato, presente e futuro è solo un’illusione ostinatamente persistente»?11 Se siamo riusciti a espandere la nostra idea di spazio e di universo, dovremmo cercare di farlo anche con la nostra idea del tempo, e indagare su come quella piccola bolla di simultaneità che proviamo quando guardiamo un film può riguardare questa espansione. Se è vero che le diverse interpretazioni del tempo non sono pienamente «associabili» l’una con l’altra, ciò non significa che debbano ignorarsi completamente, o che non si possano osservare ognuna dal punto di vista dell’altra. Poi, naturalmente, ora c’è anche Tenet, il film di Christopher Nolan. Non ci identifichiamo con il cinema mainstream in alcun modo, ma nel suo tentativo di essere un blockbuster filosofico sull’entropia, Tenet illustra involontariamente alcune delle idee che abbiamo sviluppato in Digital Tarkovsky, precisamente perché la sua uscita, che ha coinciso con la pandemia, aveva lo scopo di salvare l’industria del cinema. Se l’intenzione era quella di produrre un capolavoro intertestuale sul tempo (il personaggio del cattivo russo si chiama Andrei, e nella scena finale c’è una citazione diretta di Casablanca), il risultato è stato poco più di un Casino Royale raffazzonato. Com’è possibile creare una cosa così noiosa con un protagonista, John David Washington, interpretato da un attore così forte? Come ha scritto John Menick a proposito dell’uscita di Tenet: «Nel cinema, come altrove, il Covid-19 ha accelerato alcune tendenze già presenti prima del lockdown. L’affluenza era in calo negli Stati Uniti già durante gli ultimi dieci anni, oggi i film si vedono perlopiù in casa – da soli o in piccoli gruppi –, dove l’immagine cinematografica è sempre in competizione con l’e-mail, le chat, un’infinità di siti web e altri servizi di streaming. Lo streaming è soltanto l’ultima delle tecnologie in un lungo processo di isolamento e frammentazione del pubblico. Dall’invenzione della TV, ogni innovazione – il cavo, il VHS, la banda larga, YouTube – ha presentato una maggiore varietà di immagini da vedere. Dato l’aumento dell’offerta, i gusti della visione imitano le formazioni politiche generali: ogni cultura diventa una nicchia; ogni nicchia diventa la sua stessa realtà».12

Metahaven, Eurasia (Questions on Happiness), 2018, video, 4k, 64′, veduta della videoinstallazione nella mostra Metahaven: VERSION HISTORY, ICA, Londra 2018, Foto di Mark Blower.

Tarkovsky è speculativo in un modo molto diverso rispetto al classico film di fantascienza o al thriller d’azione – o rispetto a quasi ogni immagine –, perché attraverso una durata che può essere noiosa ci offre una prova dell’appassionata solennità della trama esperienziale. Apprezzare la durata più lunga delle cose – molto presente, per esempio, in Andrei Rublev – ci permette di fare esperienza di un’intera serie di emozioni in un unico prolungato motivo, come se potessimo «amare e odiare» qualcosa allo stesso tempo, come se potessimo avere un ricco e complesso insieme di sentimenti su cose semplici. In questo modo, nel nostro rapporto con la narrazione, cominciamo a costruire questi personaggi ricorrenti attraverso le entropie accidentali.

LD: Certo, e la «trama esperienziale» che avete appena menzionato, da un lato evoca la tattilità dell’esperienza che facciamo oggi delle immagini (con certe forme accidentali di cinema sullo smartphone, per esempio), dall’altro allude all’intreccio e all’accumulo di immagini, parole e suoni che caratterizza fortemente il vostro lavoro. Una forma di poesia, forse?

MH: Nell’estate del 2019 ad Amsterdam, durante le riprese di Elektra, abbiamo girato in un’area forestale con un obiettivo fisheye. La protagonista, Valentina Di Mondo, girava camminando intorno alla cinepresa, così l’immagine ha finito per assomigliare a un orologio del quale Valentina era la lancetta. Ma non usiamo la parola orologio. In senso antiorario, l’orologio non aveva unità, e l’elevazione del terreno e la densità della vegetazione influenzavano la velocità del suo ticchettio. Potremmo dire che il concetto di trama esperienziale esprime il modo in cui una cosa è vera prima di essere nominata come idea. È molto importante cercare di capire come un film può diventare complesso e allo stesso tempo coerente, e come può stimolare modi di vedere, percepire e conoscere che non si basino sul presupposto di seguire una trama o veicolare un messaggio.

Metahaven, Interference, 2015, still da video, HD, 5’19’’, realizzato per Holly Herndon.

1    Questa conversazione è seguita al dialogo Abitare lo Sprawl tenutosi al Castello di Rivoli il 2 novembre 2019 tra il duo di artisti Metahaven e il curatore e produttore Leonardo Dellanoce (Digital Earth).

2    Metahaven, Metahaven: VERSION HISTORY, ICA, Londra, 3 ottobre 2018-13 gennaio 2019, in collaborazione con lo Stedelijk Museum di Amsterdam.

3    Lev Tolstoj, Che cos’è l’arte?, Donzelli 2010.

4    Vedi Lesia Prokopenko, «Five Degrees of Longitude: Metahaven Talk About their Work “Hometown” and the World it Inhabits», in EastEast, estate 2020, easteast.world/en/posts/16.

5    James Steffen, in The World Is A Window: Making the Colour of Pomegranates, video, regia di Daniel Bird, 2011, vimeo.com/75647706.

6    Acronimo per «fear of missing out», letteralmente «paura di essere tagliati fuori». [N.d.T.]

7    Parafrasato molto liberamente da www.tripsavvy.com/im-going-on-a-picnic-game-3267652. [N.d.T.]

8    Vedi Jennifer Gabrys, Program Earth. Environmental Sensing Technology and the Making of a Computational Planet, University of Minnesota Press 2016, p. 57. Vedi anche la lecture online di Metahaven, Inhabitant, Harvard Graduate School of Design, 5 ottobre 2020, www.gsd.harvard.edu/event/metahaven/.

9    Clarice Lispector, Vicino al cuore selvaggio, Adelphi 2003.

10    Metahaven, Digital Tarkovsky, Strelka Press 2018.

11    Albert Einstein, dalla lettera di condoglianze alla famiglia di Michele Besso, marzo 1955. [N.d.R.]

12    John Menik, «Christopher Nolan’s “Tenet” Might Just Kill You», in Frieze, 3 settembre 2020, www.frieze.com/article/christopher-nolans-tenet-might-just-kill-you.

Metahaven
è uno studio di ricerca, arte e design fondato da Vinca Kruk e Daniel Van der Velden, con sede ad Amsterdam. Il loro lavoro spazia dalla produzione di film alla scrittura al design ed è legato dall’interesse per la poesia, le narrazioni, la propaganda e le superstrutture digitali. Tra i film di Metahaven figurano The Sprawl (Propaganda About Propaganda) (2015), Information Skies (2016), Hometown (2018) e Eurasia (Questions on Happiness) (2018). Hanno preso parte a rassegne internazionali quali la 11a Biennale di Gwangju (2016) e la 13a Biennale di Sharjah (2017). Tra le loro principali personali figurano Metahaven: VERSION HISTORY all’ICA di Londra e Metahaven: EARTH allo Stedelijk Museum di Amsterdam (2018). Le loro pubblicazioni recenti includono PSYOP: An Anthology (Walther Konig 2018), che riunisce i contributi di professionisti di spicco di varie discipline a proposito delle Psychological Operations, una strategia politica volta a influenzare le emozioni, le motivazioni e i pensieri delle persone, e Digital Tarkovsky (Strelka Press 2018), un’esplorazione poetica sul cambiamento della nostra nozione del tempo nell’era della connessione costante.
Leonardo Dellanoce
è un curatore e imprenditore culturale basato ad Amsterdam, la cui ricerca esplora le realtà tecnologiche utilizzando arte e design come strumenti di navigazione. Lavora con artisti, designer e teorici a vari progetti collaborativi ed è cofondatore e produttore creativo di Digital Earth, rete di ricerca globale di artisti e studiosi che mappano e indagano il modo in cui la tecnologia nel XXI secolo plasma la geopolitica. È co-curatore del volume di prossima pubblicazione Vertical Atlas, una collaborazione tra Digital Earth e Het Nieuwe Instituut di Rotterdam, esito dell’omonimo progetto avviato nel 2018 e mirato a creare un nuovo atlante per la navigazione nella tecnopolitica del mondo contemporaneo. È regista del documentario interattivo Trust in the Blockchain Society (2021) in collaborazione con Archis e Submarine Channel.