Il canone antioccidentale

Quali storie possono salvarci dalla pulsione ecocida del capitalismo imperialista?

Quando si evoca la cultura occidentale in astratto i casi sono due. Nel primo il tono è quasi religioso. Come nelle agiografie, si compila una Legenda aurea di quelle che si ritengono le maggiori opere dell’ingegno umano, i pilastri che sorreggono la civiltà occidentale: Cartesio, Bacon, Hegel, e i tanti altri nomi che sfilano in quelle grandi parate di pensatori che sono i manuali di storia della filosofia, sono i santi laici che ci schermano da una imprecisata barbarie a venire. Se poi ci spostiamo dalle humanities alle scienze dure, ecco la meraviglia che queste dovrebbero suscitare: siamo tutti polvere di stelle, ci dicono divulgatori e immagini motivazionali. Ma ogni documento di cultura è anche un documento di barbarie, e nella saggistica contemporanea si accumulano materiali per stilare una Legenda nera dell’Occidente. Secondo l’accusa, la cultura occidentale sarebbe responsabile del maggiore male dei nostri tempi: la crisi climatica.

In quest’ottica, l’estinzione a cui l’umanità sembra condannata non proverrebbe – o meglio, non proverrebbe solo – dallo sfruttamento capitalista della natura o dagli strapazzi della rivoluzione industriale. Troppo facile accusare economia e tecnologia: molto più difficile criticare le idee che hanno fornito alla civiltà occidentale un manuale di istruzioni per sterminare popolazioni, ecosistemi e per minare infine la possibilità stessa della vita umana sul pianeta. Come in una parabola, questo è l’insegnamento di La maledizione della noce moscata, il nuovo libro dello scrittore e antropologo Amitav Ghosh, edito da Neri Pozza. Il libro prosegue il percorso iniziato con La grande cecità, in cui Ghosh si domandava per quale ragione i romanzi non riuscissero a dare conto della crisi climatica senza sconfinare nella fantascienza. La maledizione della noce moscata ripercorre invece la genealogia colonialista, razzista, genocida ed ecocida del mondo contemporaneo e delle catastrofi che lo minacciano. 

A fil di spada, a colpi di epidemie e schiavismo, gli europei conquistarono territori che per le popolazioni indigene erano ricettacoli sacri di storie e presenze più che umane, e li trasformarono in risorse con cui nutrire Capitale e Impero.

Ghosh inizia la propria accusa da una vicenda in apparenza minuscola, ma dalla quale si può squadernare la colossale geostoria dell’Antropocene. Comincia dall’isola di Banda Neira, nelle Molucche, un arcipelago indonesiano ricco di alcune tra le merci più preziose per la neonata modernità capitalista: la noce moscata e il chiodo di garofano. Per capire questa storia, e anche come siamo arrivati a vivere nell’Antropocene, queste spezie però non si possono considerare solo come derrate inerti e mute. Vanno raccontate come co-protagoniste degli umani, capaci di dare forma alla storia mondiale. Quella fra europei e spezie è una tresca geopolitica plurisecolare. Le loro proprietà afrodisiache e psicotrope stimolarono le fantasie esotiche e i desideri delle classi abbienti del vecchio mondo. Noce moscata e chiodi di garofano furono così importanti che per tentare di acquisirne il monopolio si intraprese il primo viaggio intorno al mondo, quello di Ferdinando Magellano.

Il piccolo arcipelago delle Molucche fu per secoli il teatro di una lotta planetaria, ma anche il centro di commerci che coinvolsero larga parte dei traffici dell’Oceano Indiano. Tutt’ora in quelle acque si trovano delle strozzature strategiche per i commerci globali, controllate dagli Stati Uniti. Ma prima del XVII secolo non esisteva alcun monopolio, né su quelle acque né sulle spezie. Fu la Compagnia Olandese delle Indie Orientali a cambiare per sempre il destino di quelle isole. Le conseguenze della sua conquista militare e commerciale oggi pesano ancora, come il maleficio lanciato da un potente stregone. L’anno è il 1621. Una lampada cade nottetempo nella sede della Compagnia. Il suo rumore scatena il panico: si teme una congiura degli indigeni, sospettati di voler uccidere nel sonno gli olandesi. L’indomani, la Compagnia fa strage degli isolani, schiavizza i sopravvissuti e incendia le loro abitazioni. Da allora, gli olandesi controlleranno le isole Banda fino all’800.

Nei secoli, la fortuna di noce moscata e chiodi di garofano svanirà. Gli aristocratici europei inizieranno a ritenerle spezie dannose per la propria fibra morale e a comprarle sempre meno, proprio mentre il loro monopolio ne garantiva la sovrabbondanza. La scarsità dovette quindi essere ricreata artificialmente, perché il controllo commerciale, da solo, non bastava più a tenere alti i prezzi. I coloni olandesi dichiararono guerra agli alberi, ma senza successo: erano troppi, crescevano in punti irraggiungibili e si riproducevano in modo imprevedibile. Per chi legge i resoconti dei soldati della Compagnia, il paesaggio sembra impegnato in un contrattacco. Inoltre, i contrabbandieri francesi e inglesi trasportarono la noce moscata e i suoi semi nei propri viaggi, e oggi i suoi alberi si possono trovare anche nelle Barbados o in Connecticut.

Perché, secondo Ghosh, il massacro delle isole Banda e il loro sfruttamento sono una storia paradigmatica dei danni sferrati dalla cultura occidentale al resto del mondo? Che significato hanno, per il cambiamento climatico, delle spezie che oggi stanno in qualsiasi armadietto dei condimenti? Le Molucche sono al centro della grande storia raccontata da Ghosh perché furono un laboratorio esemplare. In quell’arcipelago, una delle prime società per azioni multinazionali del mondo, cioè la Compagnia, sperimentò quei processi di terraformazione intrapresi dalle potenze coloniali nelle americhe, in Asia, sulle coste e nel cuore dell’Africa. Ma anche nel cuore dell’Europa stessa. 

Secondo la dottrina cartesiana militarizzata dei coloni, la materia era soltanto bruta res extensa, barbara e incivile, a servizio della res cogitans civilizzatrice, imperiale e moderna.

A fil di spada, a colpi di epidemie e schiavismo, gli europei conquistarono territori che per le popolazioni indigene erano ricettacoli sacri di storie e presenze più che umane, e li trasformarono in risorse con cui nutrire Capitale e Impero. Un’operazione simile, condotta su così larga scala, secondo Ghosh fu possibile – e prosegue ai giorni nostri – perché gli europei adottarono la prospettiva meccanicista della metafisica moderna. Secondo la dottrina cartesiana militarizzata dei coloni, la materia era soltanto bruta res extensa, barbara e incivile, a servizio della res cogitans civilizzatrice, imperiale e moderna.

Questa discontinuità non esisteva per gli indigeni. Per gli europei, invece, soggiogare la natura e soggiogare i selvaggi facevano parte dello stesso progetto di civiltà. Ghosh ricorda che buona parte degli occidentali colti di età moderna, Darwin incluso, era convinta che i cosiddetti primitivi si sarebbero estinti come mammuth, tigri dai denti a sciabola e altri esemplari della megafauna preistorica, ormai non più all’altezza di tempi in cui la storia, come sosteneva Hegel, aveva iniziato a correre dopo aver calzato gli stivali delle sette leghe. La catastrofe climatica quindi non sta nel futuro, ma già nel passato, e le popolazioni indigene di tutto il mondo la hanno sperimentata in prima persona. Fra i tanti autori da inserire nell’immaginaria biblioteca di un “canone anti-occidentale”, l’antropologo Eduardo Viveiros de Castro, la filosofa Déborah Danowski e lo sciamano Yanomami Davi Kopenawa hanno dato voce alle testimonianze delle popolazioni amerindie, che hanno visto e continuano a vedere il proprio mondo distrutto dagli europei. 

Quella dell’Occidente ai danni del resto del pianeta è stata una conquista paragonabile all’invasione sterminatrice degli alieni di La guerra dei mondi di H. G. Wells, con gli occidentali nel ruolo degli extraterrestri. D’altra parte, la cultura occidentale ha una vocazione extraterrestre: pensiamo agli appelli di poeti come Tennyson, citato da Ghosh, che esortava così i suoi lettori: «Tendete all’alto sfuggendo alla bestia / e fate che muoiano la scimmia e la tigre». Oppure alla corsa allo spazio di imprenditori come Jeff Bezos e Elon Musk.

Il materialismo occidentale non fu soltanto un’idea che circolava sulla stampa o nelle menti dei coloni. Nel suo An Advertisement Touching a Holy War, pubblicato nel 1629, 8 anni dopo il  massacro delle isole Banda, Francis Bacon teorizza la legittimità del genocidio per le popolazioni extraeuropee: “Perché allo stesso modo in cui particolari persone vengono messe al bando e proscritte dal diritto civile di numerosi paesi; cosí ci sono nazioni che vengono messe al bando e proscritte dalla legge di natura e delle nazioni, o per diretto comandamento di Dio». Se quindi i paesi degenerati che furono terra di conquista per gli europei devono sottostare a questo bando, essi allora non sono considerabili comunità umane rette dal diritto, bensí «orde e branchi». Era quindi insieme legittimo e doveroso per «ogni nazione civile e ordinata […] eliminarli dalla faccia della terra”. Emer de Vattel, uno dei giuristi che ordinò il diritto internazionale alle fine del XVIII secolo, diede forza di legge a questa dottrina. 

La stessa idea la sintetizza Kurtz, il commerciante d’avorio divinizzato dagli indigeni che Joseph Conrad racconta nel romanzo Cuore di tenebra: “Exterminate all brutes”. Sia la parola “sterminare”, cioè condurre extra terminus, fuori dai confini del diritto e dell’umano, sia la parola “bruti”, come materia stolta da soggiogare, condensano secoli di dottrina teologica, scientifica e giuridica. Se la civiltà occidentale ha radici genocide ed ecocide, o addirittura onnicide come sostiene Ghosh, – e non per un incidente di percorso, ma per la struttura profonda delle idee che la animano – allora la crisi climatica odierna non è altro che una prosecuzione dello stato di guerra sferrato secoli fa dall’Occidente contro il resto del mondo, e non una scandalosa novità.

Come nell’America settentrionale del Settecento i coloni uccidevano i bisonti, disboscavano e diffondevano il vaiolo per sterminare le popolazioni nemiche senza passarle per le armi, oggi l’innalzamento dei livelli dei mari dovuto al cambiamento climatico toglie la terra sotto i piedi a milioni di persone, costringendole a migrare negli stessi stati in cui risiedono i responsabili storici della loro cacciata. Si tratta degli stessi paesi che poi respingono o che chiamano “carico residuale” i migranti, come il Ministro dell’Interno Piantedosi. In Pakistan, per esempio, alla fine dell’estate del 2022 le alluvioni hanno stravolto le vite di oltre 30 milioni di persone: come se, da domani, metà degli Italiani dovesse fronteggiare un allagamento grave. 

Si potrebbe obiettare che però l’Occidente ha fatto anche cose buone. Ghosh stesso sostiene che conosciamo il cambiamento climatico su scala planetaria – e non locale, dove le conoscenze degli indigeni sono fondamentali – grazie alla scienza e alla tecnologia occidentali, figlie dello stesso meccanicismo che secondo Ghosh ha compromesso la vita umana sulla Terra. Per affrontare un problema di questa portata occorrono reti ampie, infrastrutture tecniche e politiche globali che consentano di far convergere le lotte.

Ghosh inoltre riconosce con favore una convergenza tra metafisiche indigene e occidentali: il carisma di Greta Thunberg è così potente perché rievoca simboli storici come Giovanna d’Arco; Papa Francesco si richiama, nel proprio nome e nelle proprie parole sull’ecologia, «al più sciamanico dei santi cristiani». La scienza stessa negli ultimi anni si è dimostrata incuriosita dallo sguardo animista. Per limitarci a pochi casi molto noti: l’ipotesi Gaia di James Lovelock, ripresa da una biologa importante come Lynn Margulis; i lavori sull’intelligenza delle piante di botanici come Stefano Mancuso; il significato che i funghi hanno assunto nelle opere di biologi come Merlin Sheldrake. La filosofia occidentale può infine attingere a una corrente vitalista sempre più frequentata, attraverso autori come Spinoza, Bergson e Deleuze, considerati l’antidoto ideale per il meccanicismo cartesiano.

Però – dopo aver riconosciuto che l’attivismo climatico mainstream rischia di dimenticare lo stato di guerra permanente in cui la crisi climatica getta il mondo – Ghosh sostiene che, per affrontare una delle più grandi sfide per l’umanità la soluzione è raccontare storie che includano i non umani. Ma è abbastanza? Condivisa con sfumature diverse da tanti autori del canone che Ghosh richiama, come Donna Haraway, Anna Tsing e Bruno Latour, questo accorato richiamo al potere delle storie non rischia di caricare di uno slancio politico eccessivo la sfera estetica e narrativa? Una guerra globale con scenari atroci di violenza diffusa si può davvero risolvere facendo affidamento sull’empatia umana e sul lavorìo lento con cui concetti e storie possono rafforzarla ed espanderla? 

Su questi dubbi giova lasciar concludere Ghosh: «Si tratta di pensiero magico? Forse – ma non piú dell’idea di colonizzare Marte; o della convinzione, ora racchiusa nell’Accordo di Parigi, che una nuova tecnologia per rimuovere grandi quantità di anidride carbonica dall’atmosfera comparirà dal nulla in un futuro non troppo distante».