Il Benevolente Distruttore del Mondo

Basi teoriche per l’estinzione umana

Pubblichiamo un brano tratto da Blackened. Frontiere del pessimismo nel XXI secolo, da poco pubblicato da Aguaplano, che ringraziamo per la disponibilità.

Nel febbraio 2019, l’azione legale intrapresa dal ventisettenne indiano Raphael Samuel ha avuto una certa risonanza, finendo anche tra le notizie della BBC: il suo proposito era quello di fare causa ai propri genitori, colpevoli di averlo messo al mondo. Da allora, Samuel non ha trovato nessun avvocato disposto a rappresentarlo – i genitori, del resto, sono a loro volta avvocati – e verosimilmente nessun giudice ascolterà mai le sue ragioni, ma intanto l’iniziativa si è ritagliata uno spazio nell’opinione pubblica. Si è trattato perlopiù di macchiette umoristiche incentrate sulla bizzarria della storia, come il siparietto dedicato alla vicenda dal comico americano Stephen Colbert nel suo Late Show, ma Raphael Samuel si dice contento che il fatto abbia acquistato risonanza, perché «aiuta a legittimare l’idea che sia del tutto accettabile per una famiglia non avere figli». Tra le interviste e gli interventi sul suo blog, Nihilanand, incentrato su nichilismo e antinatalismo, Samuel argomenta: «L’umanità non ha alcun senso. Ci sono così tante persone che soffrono. Se l’umanità si estinguesse, la Terra e gli animali sarebbero più felici. Starebbero certamente meglio senza di noi. E inoltre, nessun essere umano soffrirebbe più, da lì in avanti».

Pur muovendo da posizioni umorali, analiticamente poco raffinate, Samuel tocca in realtà alcuni nodi filosofici di particolare importanza e attualità, sollevando un problema su cui raramente ci interroghiamo perché non riconosciamo possibilità di intervento sui suoi termini. Possiamo esercitare un controllo, seppure parziale, sulla nostra morte, ma non sulla nostra nascita, che è l’evento fondante della vita. Si nasce per scelta altrui, uno spartiacque sotto al quale si spalanca la vastissima differenza tra nato e non-nato, tra esistente e non-esistente. Una voragine che conduce ai territori estremi della speculazione filosofica contemporanea, che si interroga su quali siano le condizioni di esistenza di un oggetto spogliando l’indagine da costrutti metafisici antiquati. «Si può immaginare un mondo privo di noi che lo osserviamo?», si chiede ad esempio Eugene Thacker – e similmente potremmo chiederci se si può immaginare un individuo che esiste ma non è nato. Per Raphael Samuel, la questione riguarda anche la libertà di cui gode il figlio: «Portare a forza un bambino nel mondo e costringerlo a farsi una carriera, non è forse una forma di sequestro, di schiavitù?», osserva.

May We Live Long and Die Out

La questione antinatalista non è nuova. Il suo nucleo, l’idea che sia meglio non essere mai nati, attraversa come un terribile fantasma l’intera storia della filosofia, dal Sileno ripreso da Nietzsche («Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto») al Giacomo Leopardi del Dialogo di un folletto e di uno gnomo: «Ma ora che ei [gli uomini] sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono stanchi di correre, e il mare, ancorché non abbia più da servire alla navigazione e al traffico, non si vede che si rasciughi». L’Illuminismo, come mostra brillantemente Thomas Moynihan, invita a un’assunzione di responsabilità in senso kantiano, e l’umanità si fa abbastanza matura da riflettere coscientemente sulla propria fine. Negli ultimi decenni ci siamo infine resi conto di quanto sia rilevante la scelta tra riprodursi e non farlo. Nascono movimenti come il VHEMT, sigla che sta per Voluntary Human Extinction MovemenT, fondato da Les U. Knight nel 1991 e caratterizzato da una vena ironica e autoironica. È l’amaro sorriso di chi è convinto che il percorso dell’umanità sia irrimediabilmente diretto verso il peggiore degli esiti, e che  l’approccio migliore sia godere di quanto di buono rimane mentre ci sforziamo di ridurre i danni causati dalla nostra autodistruzione. Lo slogan del movimento è May We Live Long and Die Out (si possa noi vivere a lungo ed estinguerci), che indica proprio il suggerimento di lasciarsi morire, spegnersi in silenzio anziché uscire di scena in grande stile, con un’esplosione. Il VHEMT, nonostante le appassionate e accurate argomentazioni presentate dal suo programma, è sempre stato e resta un movimento di nicchia e non è mai riuscito a imboccare la strada della popolarità tramite il web.

Intuitivamente, appare difficile riunire sotto la bandiera dell’attivismo persone motivate da un concetto che fondamentalmente è negativo, pessimista. L’antinatalismo ha trovato però terreno fertile nello scenario pop degli ultimi anni frammentandosi in molti nuclei di discussione, ad esempio sulla message board Reddit, su blog e persino su canali YouTube (come The Friendly Antinatalist, con 1070 iscritti) e fenomeni di moda. Il subreddit/antinatalism conta 4000 utenti attivi, tra cui Laura che si definisce «la prima e unica webcam model antinatalista del mondo». «Sono contraria alla creazione perché, essenzialmente, significa scommettere sulla vita di qualcun altro», ha detto in uno dei suoi commenti. L’interesse per la causa antinatalista sta crescendo per una concatenazione di motivi. Intanto, stiamo assistendo alla libera uscita di pessimismo e nichilismo nella cultura pop, grazie a film e serie tv che intercettano una tensione, un mood dell’immaginario collettivo. Più dell’ironia che sta alla base del messaggio del VHEMT, dunque, a fare proseliti sono i toni cupi e le narrazioni incentrate su autocommiserazione, isolamento e malattie mentali, sul collasso del pianeta che si riflette sulla società e sull’individuo, fino a inquadrare uno dei sentimenti chiave dell’Antropocene: la paura che il mondo non sia desiderabile come lo credevamo, anzi che sia forse il peggiore dei mondi possibili, e il senso di colpa – dalla pesantezza medievale – per avere contribuito a renderlo tale. In più, ed è questione recente, gli allarmi sui rischi del cambiamento climatico hanno dato una brusca accelerata alla causa antinatalista sulla direttrice che porta alla fusione con le preoccupazioni ecologiche, e che vorrebbe ridurre l’impatto dell’uomo sul pianeta riducendo il numero di esseri umani, in una prospettiva, per certi versi malthusiana, che nasconde alcuni punti d’ombra forieri di pericoli interpretativi. Le posizioni più mediate rimandano a un antinatalismo «pragmatico» che è una forma di controllo delle nascite, una misura di decrescita per realizzare un’umanità a misura del pianeta, nonché una sana emancipazione della donna dall’obbligo sociale, che alcuni vorrebbero biologico, di avere figli. Ma gli strumenti per far quadrare i conti sono delicati da maneggiare, e uno dei rischi è quello di chiudersi in una dialettica «uomo contro natura», schierandosi però dalla parte della natura, debitrice del pensiero di Bruno Latour che sosteneva che, nel bene o nel male, siamo entrati in un mondo post-naturale. Un simile approccio, come critica Andreas Malm nel recente The Progress of This Storm, promuove un atteggiamento fatalista mentre, per prepararsi e reagire al collasso, si reputa preferibile una risposta attiva ispirata alla responsabilità e all’agentività che l’uomo ha nei confronti della natura, come sua parte integrante. L’età media in molti dei Paesi più civilizzati è in aumento, e le nascite sono in calo. Da un lato ci sono questioni concrete, spesso collegate agli elementi critici del nostro sistema economico: nuove dinamiche che deviano dalla famiglia «tradizionale», mancata sicurezza sentimentale e sociale per investire sulla procreazione, il complesso ruolo della donna sullo scenario del lavoro. Ma a fini pratici, molti abbracciano la causa antinatalista, pur non condividendone gli assunti etici di base, perché intimoriti dal destino del pianeta: l’idea del collasso ha un impatto ben più forte ora che l’orologio ha fissato il timer sulle generazioni dei nostri diretti discendenti, se non già sulla nostra. «Mi sono fatto una vasectomia per il cambiamento climatico», scrive ad esempio Wes Siler su Outside Online, ed è significativo che indagini scientifiche, come quella condotta da Seth Wynes e Kimberly A.Nicholas nel 2017, sgomberino il campo da questioni morali e annuncino che avere uno o meno figli rappresenti l’azione di gran lunga più incisiva, in termini di emissioni di CO2, per la salute del nostro pianeta.

«Vorrei non essere mai nato, ma non è che io sia infelice della mia vita. È come se ci fosse una bellissima stanza, ma io non volessi stare in questa stanza»

C’è anche un inghippo filosofico. Da un lato riconosciamo che l’uomo è una sciagura per il suo prossimo e desideriamo rimuoverlo dal pianeta abolendo le nascite; ma al tempo stesso, se siamo rassegnati all’idea che la civiltà umana si estinguerà da sola per il collasso climatico in pochi decenni, il pessimista puro non dovrebbe forse accogliere quest’ultimo scenario senza patemi? Da dove nasce questa premura per il pianeta, se viviamo nel peggiore dei mondi possibili e non c’è motivo di salvarlo? Forse pensiamo che il mondo sia perfetto, che non esista una natura matrigna leopardiana, e che la sola radice di ogni male sia l’uomo – che, tuttavia, fa parte della natura. Anche la prospettiva edonista appare debole, perché «liberare» il pianeta senza che nessuno vi rimanga è un’azione che non porta alcun profitto – si potrebbe persino obiettare che un pianeta perfetto non può esistere se non c’è nessun osservatore per percepirlo. Nelle pieghe dell’intersezione tra antinatalismo e ambientalismo sembra di cogliere un antropocentrismo ostinato e capriccioso, diverso dalla portata cosmica del pessimismo di chi intravede una grande forza nelle tenebre, nell’opposizione tra nascita e morte, e un cruciale significato nelle idee di distruzione ed estinzione, al di là della morale. Il campo d’indagine migliore, qui, è quello della filosofia speculativa. Quando Raphael Samuel dice: «Vorrei non essere mai nato, ma non è che io sia infelice della mia vita. È come se ci fosse una bellissima stanza, ma io non volessi stare in questa stanza», si avvicina, forse inconsapevolmente, alle istanze dell’utilitarismo negativo che è la proposta filosofica più simile a ciò che l’immaginario comune identifica con «pessimismo», cioè il «vedere il bicchiere mezzo vuoto». L’utilitarismo negativo si colloca tra le correnti del consequenzialismo, che assegna il valore morale di un’azione solo in base alle sue conseguenze, e teorizza che si debba pensare a minimizzare la sofferenza, intesa come il dolore aggregato provato dal genere umano, prima di lavorare per aumentare la felicità – un’idea questa che si trova alla base di tutta la filosofia buddhista. Fu Roderick Ninian Smart a coniare il termine nel 1958, in risposta a Karl Popper; termine che in breve si ramificò in varie interpretazioni a partire dalle differenze tra dolore/piacere e disutilità/utilità. Gustaf Arrhenius e Krister Bykvist giunsero a delineare una tassonomia di sedici sfumature di utilitarismo negativo, nel tentativo di assegnare una cifra al «peso del male», come recita un verso del Corano. Per gli interpreti più radicali, invece, il dolore non possiede sfumature e una puntura di spillo non è differente, in essenza, da una bomba nucleare.

Il legame con l’antinatalismo è evidente, perché se si accetta che l’esistenza umana conduca anche solo a una piccola misura di sofferenza, per risparmiare tale dolore ai nostri discendenti non dovremmo metterli al mondo. Lo stesso Ninian Smart dovette intravedere i possibili paradossi della disciplina perché nello stesso saggio che avviava l’utilitarismo negativo ne indagò i limiti presentando lo spinoso problema del benevolent world exploder, o benevolente distruttore del mondo. Un ipotetico governatore dotato di un potere sufficientemente esteso sul mondo, che oggi potremmo persino identificare con chi siede nella «stanza dei bottoni» e ha il controllo dell’arsenale atomico, avrebbe un dovere morale: cancellare l’umanità in un olocausto per risparmiare ai vivi e alle generazioni future ogni sofferenza. L’idea ha numerosi spigoli. Per evitare sofferenze future se ne dovrebbe imporre una, enorme, nel presente, e non è chiaro dove si assesti la bilancia. E dal punto di vista etico, chi preme il bottone diventerebbe una singolarità pari a un Leviatano hobbesiano, che si carica sulle spalle un’immane colpa per realizzare però un esito positivo. Nondimeno, il concetto si è scavato una nicchia nella cultura popolare e si può argomentare che le posizioni di Thanos, l’antagonista di Avengers: Infinity War, si allineino proprio con quest’ultima figura. Novello Malthus, Thanos intende cancellare metà dell’universo per il bene dell’universo stesso. Il successo del personaggio, sciolto dai grovigli filosofici dell’utilitarismo negativo, segnala che l’idea tocca un nervo scoperto nell’immaginario collettivo. Thanos è un antagonista moderno, per certi versi vicino alla figura dell’antieroe, che non amiamo ma di cui rispettiamo l’autorevolezza e il pensiero. I principali termini di paragone si trovano nella letteratura, nell’animazione e nelle opere videoludiche giapponesi, perché tali opere sono da sempre tinte del pensiero taoista secondo cui bene e male si compenetrano e formano un intero. La «Terra sotto attacco» è un topos diffuso, a partire dai mecha di serie robotiche come Gundam, Goldrake o Mazinger che combattono invasori spaziali, ma la distruzione del mondo ha spesso un suo onore e una sua ragion d’essere. Da un lato c’è la follia nichilista di chi mira a uccidere Dio e a sostituirsi a lui, a metà tra Nietzsche e Deleuze, dall’altro c’è la tensione verso un ideale più alto, talvolta più nobile.

«niente batte la dolce musica di mille voci che piangono all’unisono»

L’antagonista di Final Fantasy VI, Kefka Palazzo, è un matto – identificato dall’aspetto da giullare e dalla risata con cui entra in scena – ma non è un folle. Osserva un codice preciso, sebbene terribile, è l’elemento «altro» nella società di cui Michel Foucault parlava in Storia della follia. Appare inizialmente come uno psicopatico (sue sono battute come «niente batte la dolce musica di mille voci che piangono all’unisono») ma gli esperimenti condotti sul suo corpo lo trasformano in un mostro dotato della saggezza di un dio. Quando trascende al nuovo stato, l’inclinazione nichilista di Kefka si piega verso l’atteggiamento di un vero benevolent world destroyer: «Perché la gente si ostina a creare cose che, inevitabilmente, finiranno distrutte? Perché la gente si aggrappa alla vita, pur sapendo che un giorno dovrà morire? E sapendo che niente avrà più significato, dopo la morte? Io distruggerò ogni cosa. Realizzerò un monumento alla non-esistenza!». Allo stesso modo, Sephiroth di Final Fantasy VII è uno degli antagonisti più amati della saga proprio perché ne comprendiamo le ragioni e l’altezza del mandato. Creato in laboratorio come guerriero perfetto, nasce dalle cellule di un mostro venuto dallo spazio, Jenova, e ingabbiato dalla corporazione ShinRa per sfruttarne il potere. Sephiroth riconosce in Jenova la madre, da cui è separato forzatamente, e si scaglia contro i suoi creatori e l’umanità intera mosso da una lucidissima brama di vendetta: l’uomo è reo di avere intossicato il pianeta – il mondo di Final Fantasy VII è un cyberpunk cupo e inquinato – mentre Jenova ne è la nuova padrona e protettrice, e la distruzione a cui mira Sephiroth è un percorso di liberazione individuale ed ecologica allo stesso tempo. I casi di Kefka e Sephiroth, insieme alle altre entità a metà strada tra biologico e meccanico della fantascienza (il supercomputer Black Swan del recente romanzo Wanderers, di Chuck Wendig, è tra queste), rimandano all’ipotesi di benevolent artificial antinatalism come formulata da Thomas Metzinger: un’intelligenza artificiale generale che, raggiunta la svolta della singolarità, individua nell’estinzione dell’umanità la soluzione più efficace ai problemi che l’umanità stessa ha posto ai suoi algoritmi. A un benevolente distruttore del mondo fa pensare anche il ritratto del filosofo sudafricano David Benatar che emerge dal suo saggio Meglio non essere mai nati, il cui titolo riprende la frase da Ecclesiaste 4,3-13, «è più felice degli uni e degli altri, colui che non è ancora venuto all’esistenza, e non ha ancora vedute le azioni malvagie che si commettono sotto il sole», e di cui in Italia si è molto parlato nel 2019 perché riproposto in traduzione da Carbonio Editore. Benatar individua un’asimmetria tra dolore e piacere che inscrive schematicamente in un quadrato. La presenza del dolore è male. La presenza del piacere è bene. L’assenza del dolore è bene, anche se di questo bene non gode nessuno. L’assenza di piacere non è male a meno che non ci sia qualcuno per il quale questa assenza rappresenti una privazione. Il quadrato di Benatar non è stato esente da critiche: sia per questioni di rigore logico, sia perché una visione così radicale genera una domanda. Essere antinatalisti fino a tal punto, non equivale forse a essere pro-mortalisti? Secondo Rafe McGregor e Eva Sullivan-Bisset, che hanno documentato la loro indagine in una tesi dal titolo Better No Longer Be, la risposta è sì. Ma per un pensatore come Benatar essere pro-mortalisti non è un problema di sostanza, quanto di forma. L’intervento di un benevolent world exploder, ha spiegato in un podcast e in un’intervista disponibile su YouTube, non è desiderabile perché, con i mezzi a nostra disposizione, causerebbe gravi danni anche alle altre forme di vita e non potrebbe garantire la totale eliminazione della specie umana, condannando gli eventuali sopravvissuti a indicibili sofferenze in un mondo nuclearizzato. La base di partenza dell’utilitarismo negativo, però, non conduce necessariamente allo scenario previsto da Benatar. Dalla stessa posizione si muove ad esempio David Pearce, una delle principali voci del transumanesimo e strenuo sostenitore della «abolizione della sofferenza» per ogni specie vivente, da sostituire anche per via bioingegneristica con quelle che lui chiama «diverse gradazioni di piacere». Ha ragionato sull’ipotesi della puntura di spillo, il tema a cui accennavamo in precedenza: «Se l’unico dolore che l’uomo dovesse sopportare fosse quello di una puntura di spillo, saremmo sicuri che preferiremmo comunque non essere nati?». E ancora: «Ingenuamente, alcuni suppongono che un utilitarista negativo accoglierebbe a braccia aperte l’estinzione umana. Ma soltanto i (trans)umani – o i nostri potenziali successori superintelligenti – hanno le capacità tecniche per ridurre fino allo zero le crudeltà nei confronti della biosfera terrestre. E soltanto i (trans)umani – o i nostri potenziali successori superintelligenti – hanno le capacità tecniche per assumere il ruolo di sorveglianza sul nostro intero volume di Hubble». Cambiando passo e respiro, troviamo la risposta che il buddhismo e alcune filosofie tangenti offrono al problema della sofferenza: occorre rimuoverne la radice, che però non risiede nella nascita, un evento fra tanti nella catena causale e non determinante ai fini dell’esistenza. Su quest’ultimo punto, si diceva a proposito dei dubbi sollevati dall’azione legale di Raphael Samuel: si può immaginare un bambino che esiste ma non è nato? Come si costruisce un’ontologia dell’assenza? Con lungimiranza e lucidità, Peter Wessel Zapffe aveva gettato le basi parlando della sedia di suo fratello, una sedia vuota:

Mi domandi se sceglierei mai di non essere nato? Bisogna essere nati per poter scegliere, e tale scelta implica la distruzione. Ma chiedilo a mio fratello, laggiù su quella sedia. In realtà, è una sedia vuota; mio fratello non ha fatto molta strada. Chiediglielo, però, mentre corre come il vento sotto la volta del cielo, s’infrange sulla spiaggia, segue una pista in mezzo all’erba, gode della sua piena forza mentre rincorre la preda viva. Credi che sia sminuito dalla sua incapacità di soddisfare il proprio destino sulla lista d’attesa della Società Bancaria di Oslo? E tu, hai mai sentito la sua mancanza? Guardati attorno, sul tram affollato del pomeriggio, e chiediti se lasceresti mai che una lotteria selezionasse uno di questi stacanovisti esausti come la persona che un giorno tu metterai al mondo. Non prestano alcuna attenzione, mentre le altre persone salgono e scendono. Il tram continua ad andare avanti.

Claudio Kulesko Si occupa principalmente di filosofia delle scienze e pessimismo filosofico. Ha tradotto Eugene Thacker e il Salvage Collective ed è stato tra i fondatori del collettivo di demonologia rivoluzionaria Gruppo di Nun. L’abisso personale di Abn Al-Farabi e altri racconti dell’orrore astratto (NERO 2022) è la sua prima antologia di narrativa speculativa.
Andrea Cassini , filologo medievale di formazione, è giornalista, consulente editoriale e traduttore; si occupa principalmente di cultura pop e letteratura fantastica. Scrive regolarmente per L’Indiscreto e ha pubblicato racconti su varie riviste e antologie, facendo inoltre parte del collettivo TINA (Storie della Grande Estinzione, 2020). Non tutto il male – Cronache della terra inabitabile (2021) è il suo primo romanzo.