Heavy Metal = Trve Popvlar Music

Appunti per una lettura enti-esotista del genere musicale più diffuso nel pianeta Terra

La sensazione di esotismo: sorpresa. Rapidamente offuscata.
L’esotismo è spesso e volentieri “tropicale”. Palme da cocco e cieli torridi.
Non c’è molto esotismo Artico.
Victor Segalen – Saggio sull’esotismo

Palme e distorsioni: alla ricerca dell’anti-esotismo

Quando Victor Segalen scriveva il suo Saggio sull’esotismo, fondativo da più di un punto di vista per pensare e ripensare il concetto, tentava di analizzare e teorizzare per frammenti che cosa fosse veramente l’esotismo al di là dei languidi e troppo spesso immaginari paesaggi dei tropici, sinonimi di esplorazioni marittime infinite e espansioni continue delle rotte commerciali, specialmente occidentali. “Non c’è molto esotismo Artico”, ad esempio. 

Victor Segalen si impegna a trovare e decostruire le ragioni e le strutture di un “vecchio esotismo”, posticcio e obsoleto, in favore di uno che andasse oltre i “familiari” territori equatoriali da cartolina turistica quanto alla volgare visione di spettatore del turista-esploratore, e più in generale al regime mentale dell’avventura geografica. Segalen tentava di fondare un pensiero esotista che più che immaginario fosse immaginale: un luogo di incontro tra “esterno” e “interno”, tra ciò che c’è fuori (exo) e quel che c’è dentro (endo). 

L’autore francese aveva quindi inquadrato la capacità di esotismo come amore di quello che “potrebbe essere altrimenti”, l’esplorazione dell’Altro da noi come suprema (unica?) fuga estetica possibile dall’implacabile banalità prodotta dalla trasformazione dell’imperialismo in capitalismo e dal colonialismo della società di massa. In tale contesto, l’Esota è colui che, abbandonato lo sguardo missionario e imperiale, “riesce a tornare a sé dopo aver attraversato il diverso”. In ultimo – forse la lezione più preziosa e ambigua dello scrittore – Segalen pensava l’esotismo come un viaggio fuori di noi che avesse per base di alterità il tempo, più che lo spazio. Un estremo esotismo che risuona con l’antico e lontano di Leopardi come dispositivi narrativi dell’altrove per l’immaginazione. 

Dopo un secolo, però, almeno imbattendosi nei cartelloni e billboard che propagandano cliché escapisti in paradisi naturali dal sapore di color-correction, disseminati nelle metropolitane e abusivamente collocati nel nostro spazio visivo durante lo stanco, distratto pendolarismo metropolitano, è legittimo porsi una domanda. È in fondo possibile rifondare alla base un esotismo scomodo, che dopo più di cento anni dalla stesura del testo continua a infestare la nostra immaginazione? Come mai l’esotismo, anche durante la tarda globalizzazione, continua a essere una narrativa resistente e perversamente seducente? Quale dovrebbe essere lo sviluppo e uso per questi nuovi strumenti concettuali, inizialmente teorizzati frammentariamente dal poeta francese?  

Di certo parlare di esotismo, almeno da un certo momento in poi, con la “scoperta” del passato coloniale e imperialista del corrente assetto geopolitico, ha quasi sempre voluto dire risolvere il problema dell’esotismo; di quello che è un movimento estetico spesso guidato da uno sguardo oggettificante e sminuente, razzista e scientista; in una parola: essenzialista. Per quanto io non veda l’esotismo come un problema da risolvere, o perlomeno non lo abbia mai visto come sinonimo di orientalismo tranne in (ahimé, una maggioranza di) casi specifici, in qualche modo ritengo che il discorso sul tema sia evoluto negli ultimi cinquant’anni tramite una piega sotterranea spesso parallela e ignorata della storia culturale umana (quando non ampiamente denigrata), che però si interseca con la ricerca di Segalen sviluppandone un punto: come relazionarsi all’Altro?

Sebbene il metal non sia un genere completamente refrattario a visioni esotizzanti, è comunque quello che è riuscito maggiormente a stabilirsi entro dei canoni uniformi di matrice globale.

Per rispondere a questa domanda è possibile chiedersi l’opposto: ci sono esempi di marginalizzazione e inversione dello sguardo esotico? Esiste un anti-esotismo? Proseguendo da qui, quella che leggete è un’esplorazione del concetto come espresso da alcune subculture parte della musica pop globale; un anti-esotismo che anche quando non politicamente esplicito, continua su più livelli il discorso del poeta alle sue estreme conseguenze. Comprendere ciò significa infatti guardare alla storia culturale e sociale del genere che forse nell’immaginario comune è il più lontano dall’esotico fatto di palme giganti e spiagge incontaminate. Il genere che forse più di tutti continua imperterrito a cercare se stesso precisamente nelle sue estreme conseguenze. Il genere, che ci si creda o no, più popolare e ascoltato sul pianeta Terra: l’heavy metal. 

Sebbene il metal non sia un genere completamente refrattario a visioni esotizzanti (Trve Norwegian Black Metal vi ricorda qualcosa?), è comunque quello che è riuscito maggiormente a stabilirsi entro dei canoni uniformi di matrice globale, sia per ciò che riguarda l’ortodossia che la sperimentazione. I discorsi sul genere e il suo progresso, nonostante l’esistenza di solidi gatekeeper, sono sempre più co-partecipati, se non in modo uniforme, per lo meno in uno scenario sempre più costituito dall’influenza del sud globale. In questa continua ricerca di un approfondimento verso la heaviness (il senso di pesantezza generato dalle distorsioni e dalla sezione ritmico-percussiva medio-bassa di basso e batteria), il metal sembra scavare sempre di più verso l’interno che al di fuori di sé. Questo in senso ideologico e filosofico, ma anche sociale e ovviamente musicale. 

Come anche espresso da Fenriz e Nicola Masciandaro in sedi diverse, il metal, più che evolvere in linea retta, si espande in un modo per cui la sua diversificazione dipende anche dal fatto di rimanere sempre uguale, sempre fedele a sé. Più che cercare un’espansione orizzontale ne predica una verticale, o meglio, trascendentale. Questo vale anche per le sue versioni più materialiste e realiste (goregrind, brutal death metal) e per le derive totalitarie e reazionarie (Hatecore, NSBM).

Considerato ciò, ritengo che analizzare da vicino la genealogia dell’heavy metal in quanto movimento sociale transnazionale e comunità globale in continua crescita sia un modo per osservare come esso sia diventato ad un tempo sia un modo per espandere la ricerca iniziata da Segalen (muovendoci in direzione contraria al suo percorso teorico), che uno per correggerne il tiro, rimediando ad alcuni errori dettati dal luogo comune: un esotismo Artico esiste precisamente in alcune correnti subculturali del metal estremo. 

Personalmente quindi, tendo a definire anti-esotista tutto ciò che rifiuta l’alterità in modo più o meno reazionario e programmatico e per cui l’incontro con l’alterità è visto come incontro nello spazio-tempo con un’unità al di fuori di sé. Questo è un fuori che però, diversamente dall’esotico, esprime una familiarità ed è ricercato all’interno di se stessi, in modo da ottenere un oltrepassamento del sé verso un sé più autentico in senso sia identitario che propriamente esistenziale; proprio come la maggior parte dei metallari, unità supreme della comunità, nelle parole di Emma Baulch, tendono a “gesticolare altrove”. Rifiutano un’individuazione identitaria locale tendendo verso una dimensione totale e globale di ciò che è metal, contro tutto ciò che metal non è. 

Nel concreto, il metal ci mostra come una cultura escapista e edonista nata durante l’apice del capitalismo contemporaneo (il libro di Segalen nasceva all’apice dell’imperialismo) nonché smaccatamente esotista, maschilista e oggettificante, è diventata oggi una delle subculture più egualitarie e anti-esotiche della storia. Il metal, quindi, ha storicamente seguito la traiettoria del vecchio esotismo orientalista delineata da Segalen, verso l’esterno di sé, la conquista dell’altro e del globo per poi, dopo la sua caduta commerciale (ma crescita popolare), chiudersi verso l’interno, tendendo nonostante ciò a un’alterità molto specifica e unificante, dispersa nella scala globale della produzione e fruizione musicale nonché della costruzione di una comunità e ideologie transnazionali. Ma partiamo dal principio, o meglio, dai prodromi.

Arene dell’immaginazione: esotismo, “cock rock”, “Black Sabbath” e “Paranoid”

“Non possiamo essere considerati antropologi o niente del genere, ma conosciamo alcuni buoni bordelli in Estremo Oriente”
Robert Plant in un’intervista con J.D. Considine

1973. Dopo alcuni anni di sviluppo tecnologico in cui le grandi arene avevano progressivamente sostituito le piccole e medie sale concerto, i Led Zeppelin rompono tutti i loro record personali in termini di carriera musicale, con un totale di più di sessantamila persone allo stadio di Tampa, Florida. Un concerto che, oltre ad aver rappresentato il picco più alto di un tour fatto di affluenze allucinanti in termine di masse di fan, aveva anche superato il primato storico precedente, stabilito dai Beatles allo stadio Shea nel 1966. Gli Zeppelin (o quantomeno il loro ufficio stampa) annunciavano il tour più maestoso della storia. Una forma di rock più duro era appena diventata immensamente popolare. Questo avvenimento è ancora più rilevante se pensiamo che, nello stesso anno, i Led Zeppelin non erano gli unici ad aver reso più forte la tendenza globalizzante dell’hard rock dal vivo. Alice Cooper stava portando il suo personale, epico tour in cinquantasei città americane (mentre gli Zep ne avrebbero visitate solo trenta). Un accostamento che era vestito di esplicita competizione in termini di “dimensioni” e espansione spaziale del rock.

Certamente i Led Zeppelin furono la prima espressione internazionale di un certo tipo di hard music. Una band inglese che, avendo già conquistato gli Stati Uniti, lavorava già con una prospettiva di conquista globale. Questa prospettiva non era però una conquista solo dell’immaginario, ma anche una possibilità materiale fondata dai Beatles stessi, che nel 1964 avevano girato Hong Kong, Australia e Nuova Zelanda, aggiungendo nel ‘66 anche Giappone e Filippine. A fianco dei Led Zeppelin, un’altra espressione di espansione globale dell’hard rock furono i Kiss, che con il loro ormai conosciuto mix di marketing, merchandise e touring infinito avevano raggiunto lo stato di business men, o meglio, di brand e avevano fatto dei tour globali uno dei loro tratti distintivi.

Victor Segalen, nel suo saggio sull’esotismo, descrive come non solo l’esotismo sia un prodotto del capitalismo imperialista, ma come sia connesso a una dimensione spazio-geografica da un lato e a un esotismo sensoriale, specialmente sessuale dall’altro. In questo senso, i Led Zeppelin e i Kiss hanno interpretato perfettamente questa traiettoria esotico-orientalista. Come ricorda Steve Waksman in Arenas of the Imagination, non solo da un lato l’immaginario dei tour globali aveva assorbito esotismi geografico-tecnologici, per cui la Japanese special edition e i concerti nell’arcipelago erano diventati sinonimo di capitale sociale (di avercela fatta), ma partecipare a tour mondiali significava anche fare esperienza di molti tempi morti, durante i quali i performer praticavano principalmente attività di intrattenimento e, soprattutto, turismo. In questo senso, la proiezione comune fu quella del musicista/esploratore, che aveva avuto modo di vedere ed esplorare diverse culture traendone degli insegnamenti validi per il proprio progresso artistico e la propria apertura mentale. La realtà era ovviamente ben diversa.

Pensare a un pezzo come “Kashmir” significa percepire subito questa realtà nel lavoro dei Led Zeppelin. Una tradizione pop per certi versi iniziata con George Harrison e che nel caso degli Zep mirava precisamente a diventare filtro per presentare all’ascoltatore varie musiche dal mondo in maniera del tutto originale e autentica. È indicativo quindi pensare che, a Bombay nel ‘72, durante la registrazione di alcuni riarrangiamenti con la Bombay Orchestra di “Friends” e “Four Sticks”, dal loro appena uscito quarto album senza titolo, i Led Zeppelin si fossero lamentati della difficoltà di lavorare con i musicisti indiani, per la loro incapacità di seguire gli standard occidentali di esecuzione. Come si può ben immaginare, il nodo stava anche qui nel fatto che gli Zeppelin tentarono di spiegare ai musicisti quale suono volevano che questi eseguissero più che chiedere una collaborazione nel lavorare a nuove sonorità.

Passando alla questione spinosa del rock e del suo machismo, c’è una ragione se, sia da dentro le comunità subculturali femministe del tempo che nell’accademia, questo tipo di deriva fu ribattezzata “cock rock”, descrivendo la dimensione fortemente sessualizzata (e oggettificante) del loro immaginario, dell’apparenza fisica dei musicisti quanto dei testi delle canzoni e addirittura scelte musicali. Similmente, sia Kiss che Led Zeppelin hanno visto il corpo delle groupie d’oltreoceano come un “territorio immaginario” di conquista libidinale. Una conquista che vede come picco la figura della donna asiatica e dove il piacere della groupie era sempre sovradeterminato e adombrato dalla gerarchia sociale e emotiva di un rock costruito sul maschio dominante. Da questo punto di vista, sono famosi ed eloquenti gli elogi e descrizioni delle qualità delle sue fan giapponesi, riportate da Gene Simmons in diversi luoghi, tra i quali la sua autobiografia. 

Mentre quindi i Led Zeppelin hanno rappresentato un esotismo musicale in senso classico, Gene Simmons, e più in generale i Kiss, sono stati l’icona della conquista sessuale esotizzante. Bisogna comunque tenere presente che questa prospettiva machista non è monolitica e si è invece distribuita dinamicamente nel tempo sotto forma di conflitti subculturali. Ad esempio, come riportato da alcuni fan dell’epoca, non era raro che i fan dei Led Zeppelin picchiassero quelli dei Kiss, sulla base del fatto che la loro musica era troppo effemminata. Fortunatamente però, nonostante le radici ipersessualizzanti e marginalizzanti del metal e sebbene sia quasi sempre difficile determinare precisamente le circostanze storiche di un genere con l’accetta, si tende oggi a identificare la nascita vera e propria del metal con due dischi prodotti dalla stessa band, i Black Sabbath: l’omonimo album di debutto e il successivo “Paranoid”.

La fondazione del genere avviene principalmente per via sonora. Il suono dell’heavy metal diventa sinonimo con le protesi di ferro autocostruite che il chitarrista Tony Iommi utilizzava per suonare la chitarra dopo un incidente con una pressa nella fabbrica dove lavorava. Un fuzz. Una distorsione generata dal metallo contro il metallo. Sebbene la storia delle dita di Iommi sia la materia di cui è fatta la lore del metal, l’influenza e direzione che i Sabbath daranno al metal è cruciale anche per l’aspetto immaginario e ideologico del genere. Innanzitutto, l’incidente industriale di Iommi dice moltissimo di un suono che, a questo punto in maniera molto letterale, è quello di un proletariato di lavoratori di fabbrica e soggetti marginali nella società del capitalismo industriale, un tema che ha dato forma a molti dei contenuti testuali della band. 

Come spiega Joe Sweeney nel suo articolo sul cinquantesimo anniversario di “Paranoid”, ponendosi perfettamente in questo discorso genealogico: “mentre i Led Zeppelin promettevano di darti ogni centimetro del loro amore, i Sabbath stavano registrando canzoni come ‘Hand of Doom’, sui soldati che si affidano all’eroina come un modo per far fronte al loro PTSD”. Nello stesso articolo, Geezer Butler, bassista e autore dei testi della band, spiega al giornalista: “Ero stufo di ascoltare ogni band e cantante cantare di innamoramento o della rottura di una relazione. Volevo un punto di vista più significativo, realistico, della classe operaia, nei miei testi”. Da qui, i Sabbath hanno dato il via a una corrente espressiva che coinvolgerà a mano a mano anche le band più mainstream: dagli Iron Maiden, con il genocidio dei nativi americani e le tematiche di guerra insieme a Metallica e Slayer, fino ai primi ragionamenti sulla depressione di band quali Korn e all’attivismo musicale del metal estremo più politicizzato.

Un altro punto che definirà l’immaginario del metal per sempre, sarà il tema dell’occulto e della presenza oscura di qualcosa. Nicola Masciandaro, nella sua analisi dell’omonimo pezzo della band, esprime e celebra la portata filosofica del metal come scenario esistenziale dell’orrore di essere qualcuno e non poter scappare da questa stranezza, da questo ospite indesiderato. È interessante come questa glossa parli essenzialmente di un confronto con un totalmente Altro (la figura nera del testo di Black Sabbath) che viene da un nessun dove e che si identifica anzi col metallaro stesso nel momento in cui quest’ultimo abbraccia l’impossibilità di comprendere questa stranezza; un’oscurità inconoscibile che punta di nuovo il dito verso il protagonista della canzone: “What is this that stands before me? Figure in black which points at me”. Lo sconosciuto si rivolge all’interrogante, come a dire: “Vuoi sapere cosa sono, ma non sai cosa tu sei!” 

Grazie a questi due album seminali, insomma, il metal aveva finalmente una coscienza di classe e si era piegato sulla propria esperienza vissuta, su una dimensione maggiormente esistenzialista e oscura, (de)localizzata, in cui la conquista dell’altro era svanita per far largo a quella (impossibile) del proprio posto nel mondo. La tradizione sonora iniziata dai Sabbath, in seguito, si completerà solo con l’arrivo di Sad Wings of Destiny dei Judas Priest. Primo album che, secondo Deena Weinstein, contiene tutti i codici, musicali, visivi e verbali iconici del genere. Hard psychedelia, sonorità dei primi Sabbath e (molto meno) Led Zeppelin, virtuosismo strumentale e soprattutto chitarristico e il suono della heaviness proveniente dalla sezione di basso. 

Questo sound fuso a testi sul giudizio universale e la condizione umana, nonché un immaginario tra il fantasy e il religioso, diventa l’epitome di ciò che è metal. Il suono viene quindi definito in base a degli elementi compositivi ed esecutivi che girano attorno all’elemento centrale: una chitarra estremamente distorta. Sezioni ritmiche e di basso aggressive e prominenti e, non ultimo, vocalità emozionali che spaziano dal virtuosismo canoro di matrice classica al perforante e lancinante suono delle false corde vocali che sfrigolano obliterando ogni possibilità di comprendere i testi delle canzoni. 

L’escapismo del metal era ufficialmente qualcosa che tendeva ad un realismo verticale e trascendentale, più che all’immaginazione orizzontale e materialmente geografica, un gesto fatto verso un altrove. Ma dov’è questo altrove?

Individuale x Transnazionale: il metal e la morfologia della comunità metal

Cammino da solo perché d’altri uomini il passo non seguo
Apokatastasis user su MySpace

Se le origini del metal ci mostrano come, dopo il “cock rock”, il genere propriamente detto si rifletta sulla sua interiorità lasciando perdere il fuori, osservare come si sia formata e consolidata una comunità globale su scala ci aiuta a capire come un genere subculturale così specifico possa avere un significato e una risonanza condivisi in maniera così diffusa. 

Molta della bibliografia sul metal che è stata prodotta, inclusa quella pubblicata dalla nascita dei Metal Studies, riguarda soprattutto “metallari già formati” e specialmente gruppi e personalità che hanno fatto e fanno la storia del metal. Più recentemente, la ricerca, incentrata perlopiù sui performer, si è spostata progressivamente sui fan, senza però spesso guardare a cosa porta un individuo a diventare metallaro. Guardare da vicino alla ricerca di un’identità metal è in realtà un ottimo modo per comprendere come la formazione di questa dipenda da movimenti che sono molto raramente esotici, preferendo guardare in un circondario di stimoli, tecnologie e tropi tristemente familiari. Una ricerca che mette la musica sopra a qualsiasi altra cosa.

Come ha mostrato Paula Rowe nel suo studio sui giovani metallari in Australia, diventare metallari significa per molti adottare una personalità, o, se vogliamo, un’identità capace di riconfigurare le difficoltà della vita urbana (economiche, familiari e esistenziali), guadagnando degli strumenti per combattere contro un mondo da cui ci si sente marginalizzati e/o per cui prova un estremo rifiuto. Rifiuto che si configura di volta in volta come una modernità escludente in termini di benessere economico o come un ordine sociale ipocrita e totalitario. 

Il metal, con il suo immaginario e persino con i suoi cliché, fornisce un ventaglio di concetti intellettuali e spunti estetici di un nichilismo paradossalmente edificante, proiettando su di sé e fuori di sé un’aura di forza e potere. L’overdrive affettivo e sonoro causato dalla musica, la cultura visuale eccessiva e i testi composti di brutalità ossessive e visioni disgustose di ogni tipo forniscono gli strumenti a chi intraprende questo cammino d’ascolto per poter interpretare e affrontare la bestialità della vita nella sua interezza, accettandone anche gli angoli più angusti e indesiderabili e così riprendendone parzialmente il controllo. Una narrativa di un sé dominante raffigurante la distruzione di o vittoria sulle forze di repressione percepite. 

Quella di un sé metal è quindi una ricerca che, seppure può avvenire all’interno di una comunità (di metallari di quartiere ad esempio), è fondamentalmente una ricerca individuale e solitaria da parte di individui che incontrano il genere.

Adam Rafalovich ha evidenziato questi tratti nella sua analisi di testi da un dataset composto da vari pezzi metal post anni Ottanta, mostrando come questi siano cambiati esplorando gradualmente la dimensione interiore dell’individuo che si ritira nella propria incomunicabile e individualizzante esperienza della sofferenza, materiale o meno. È interessante notare, tra l’altro, come il “lei” (she) verso cui è riversata ostilità dei testi metal nella prima ondata, cambi dopo la svolta “anti-esotista” verso un generico “tu”, mostrando il ridimensionamento della pressione misogina e uno spostamento verso un’ostilità maggiormente propagata che segnala la natura diffusa dell’aggressività nella musica metal contemporanea. “I’m Broken” dei Pantera, ad esempio, mette al centro una dimensione di introspezione che descrive un antagonismo tra il sé e le forze esterne. Quella di un sé metal è quindi una ricerca che, seppure può avvenire all’interno di una comunità (di metallari di quartiere ad esempio), è fondamentalmente una ricerca individuale e solitaria da parte di individui che incontrano il genere.

È infatti interessante notare che, sebbene il sentimento di ostilità verso un certo tipo di cultura di massa immaginata come un misto di corruzione e glitter e dei suoi supposti emissari sia fortissimo nel genere, non esiste di fatto un termine per definire “le persone normali” come si fa col termine “normie”, grossolanamente identificante con uso peggiorativo chiunque venga immaginato condurre una vita e avere degli stili di vita mainstream. Mentre si potrebbe obiettare che l’equivalente più vicino all’interno del metal sia ovviamente “poser”, è però vero che il termine serve non tanto a identificare chi vive all’esterno dell’universo artistico, ideologico e sociale del metal, ma chi al contrario pretende di appartenervi senza i necessari requisiti di militanza; chi insomma non gode di abbastanza capitale sociale subculturale per essere ciò che dice. In questo modo, la comunità metal non esercita necessariamente un controllo su chi è escluso, bensì, inquisitoriamente, su chi è ammesso, su chi è identità e non diversità.

Con queste considerazioni, non è quindi un caso che il metal sembri attecchire e svilupparsi, come hanno teorizzato Jeremy Wallach e altri ricercatori, specialmente in contesti ben poco esotizzabili di deindustrializzazione, nelle periferie dei centri urbani e specialmente tra le classi lavoratrici. Anche se non si partecipa direttamente al discorso di classe, infatti, perché banalmente si è forse ancora troppo giovani per lavorare, il rapporto con l’espansione capitalistica del tessuto industriale urbano si abbatte nondimeno sulle condizioni economiche e sociali di chi abita quelle zone, causando in un ciclo di feedback i presupposti che favoriscono ricezione e sviluppo dei contenuti della subcultura metal: l’esperienza e congettura di un sistema industriale marginalizzante e marcio. Una modernità visibile ma da cui si è irrimediabilmente estromessi. 

Negli anni Ottanta il metal è ormai una comunità internazionale fieramente globalizzata, grazie anche all’espansione commerciale dei suoi sottogeneri più affini al declino della società occidentale quali l’hair metal. Il vestiario e gli elementi estetici sono stati completamente codificati e ogni metallaro, per quanto alle periferie dell’impero, diventando tale tramite i suoi primi dischi e le prime magliette, comincia a partecipare a un discorso transnazionale fatto di riconoscimenti basati sul capitale subculturale di ognuno: dalla conoscenza del genere al tipo di partecipazione e capacità di supportare ed espandere la scena. Anche dove la provenienza geografica (ad esempio i mercati storici, europei, del metal) e di età fungono da principi gerarchici di autorità, il diritto a prendere parte e a discutere di cosa è metal e cosa non lo è, di cosa è più o meno estremo, brutale, veloce, aggressivo e devastante, appartiene ormai a tutti i fan e si basa sempre più su un sapere geograficamente delocalizzato. 

Da qui, la scena viene quasi subito a coincidere, più che con la sua distribuzione spaziale, con lo sviluppo e circolazione di un discorso metaculturale ripiegato sul genere stesso. La crescita del metal infatti viene certamente orientata dalla produzione di nuova musica, ma come ricordano Masciandaro e Wallach, i commentari dei fan e seguaci, il “parlare di metal”, diventa parte integrante di un processo aperto e inconcluso di classificazione e canonizzazione. In questo senso, la produzione di nuova musica e la discussione di questa in relazione alle opere di fondazione precedenti sono due facce della stessa medaglia in cui la pratica del metal, verbale, visuale o musicale che sia, vive di una discussione su come evolvere in modo da diventare sempre di più se stessa

Inoltre, grazie a questo tipo di pratica interna basata su forti meccanismi per dividere gli insider dagli outsider, il metal e i metallari riescono a mantenere il controllo sulla definizione dei suoi termini. Dall’accademia al giornalismo, passando per le orde di genitori e psicologi preoccupati, il metal e i suoi partecipanti sono sempre stati refrattari a definirsi e lasciarsi definire al di fuori del proprio circolo di pratica, diventando così resistenti a una visione esotizzata e idealizzata del movimento. La contrarietà di moltissimi musicisti verso le tendenze intellettualizzanti che parlano di metal fuori dai propri circoli non è un segreto, ed è invece parte integrante del suo ethos.

In poche parole, questo tendere tutti verso un’unica direzione anche se da molteplici angolazioni, verso una direzione musicale, globale, concettuale, ha creato una scena e comunità che per quanto diversificatasi tremendamente rimane compatta su almeno due punti: un discorso in cui l’ulteriore espansione del genere coincide sempre più con un approfondimento della heaviness (e della harshness, con il black metal) e il perseguimento della trasgressione continua del limite. Tale linea è facilmente osservabile nelle evoluzioni dei generi e sottogeneri. Dallo speed metal nei tardi Settanta all’avvento del metal estremo, con precursori Venom e Mercyful Fate nei primissimi Ottanta, insieme alla nascita di poco successiva di thrash metal (Kill ‘em All e Show No Mercy nel 1983) e l’arrivo del death metal in Florida nella seconda parte degli Ottanta. 

Questa trasgressione, in particolare, è tanto un’esplorazione sonora che sociale, nel suo dimostrare come l’infrazione di limiti (musicali, religiosi, tradizionali, familiari, societari, civili, politici e sociali) tramite l’asserzione della propria volontà e potenza individuali provi di conseguenza la costruzione fittizia di questi limiti e della loro necessità ortopratica all’interno della quotidianità. In questo senso la continua ricerca dell’estremo coincide anche con uno spostamento continuo dei limiti che questa supera, e di un incontro precisamente in ciò che è al di là di questo limite. Una visione totalizzante che si basa su una lettura praticamente religiosa, addirittura in alcuni casi con effetto apofatico della musica: lente di interpretazione del mondo e strumento per sentire, ragionare, agire in esso. 

Come ha detto bene durante una conversazione Carlo Strappa, fondatore della band death metal Resurrecturis e figura storica del metal underground in Italia, il genere si dimostra essere molto di più che un tipo di musica; un vero e proprio stile di vita. Una fede, se vogliamo, mediata dalla pratica musicale di ascolto, performance e partecipazione. Ed è precisamente questa partecipazione che ci riporta alla domanda lasciata in sospeso nell’ultima sezione. L’altrove non è mai un altrove geografico, superiore o inferiore che sia, ma una rete dispersa di nodi e flussi sotterranei che vanno da Rapanui alle highlands scozzesi e ai forum, fino alle comunità di nativi americani e agli auto esiliati nel verde della Scandinavia. Un network che più che intensificarsi avvicinandosi ai più grandi mercati discografici a disposizione dei distributori, si configura, per così dire, in base alla vicinanza al centro di un pogo.

Un genere per tutti e per nessuno: la comunità transglobale, un futuro senza scene e le fughe verso l’altrove

Diversamente dal rock in generale, oggigiorno è difficile sentir dire che l’heavy metal è ‘morto’. Anche i detrattori di questa musica sono rassegnati al fatto che la Bestia va avanti.
Jeremy Wallach per il decennale di Metal Rules the Globe

Siamo negli anni Novanta, il metal ha perso la sua morsa sul mercato grazie alla svolta “alternative”, sostituito progressivamente dall’avvento del grunge e del rap e demonizzato dalla rapida successione di eventi causati dai Mayhem, Emperor e Absurd. Nonostante tutto, però, la sua popolarità non è in declino, bensì in ascesa. I generi si moltiplicano anno dopo anno e comincia a diventare difficilissimo non solo stare dietro alla mole di dischi metal che vengono prodotti ogni giorno nelle sale prove, in studi di registrazione semi-professionali, nelle camere da letto e negli scantinati, ma anche ragionare sui contorni dei nuovi generi, il loro essere più o meno estremi di altri e così via. Nel nuovo millennio la cultura metal abbraccia internet come veicolo di diffusione e ascolto massivo di contenuti volti a soddisfare orecchie notoriamente bulimiche e molto esigenti, bullizzando qualche supposto “poser” o “hipster” sui forum tra un album e l’altro. Il metal esce dai suoi circoli per infettare la cultura di massa, che tra un’appropriazione dei font del black metal e una del chiodo ne ricicla i simboli simulandone i contenuti e riadattandoli ad altri scopi.

Il metal si configura sempre di più come un dialogo tra interpretazioni, approcci e soluzioni locali a delle narrative ormai totalmente diffuse (come quella dell’estinzione umana). Come ricorda l’introduzione di Metal Rules the Globe: “Questi fan sono rimasti fedeli alla musica nonostante la disapprovazione della società, il panico morale occasionale, la censura e persino le molestie e la violenza dei governi”. Nel 2021 il metal è il genere più diffuso e popolare del mondo. Per essere precisi, sebbene la top forty e la nostra società di massa abbiano occultato più o meno coscientemente lo stato delle cose a causa del suo basso rendimento economico, il death metal è il sottogenere di musica pop ufficialmente più canonizzato della storia e i cui stilemi sono i più riconosciuti, eseguiti e esplorati in tutto il mondo. Con buona pace di Ed Sheeran, attualmente in testa alla top 200 di Billboard, il metal è la popular music nella sua forma finale.

La cosa più interessante però, specialmente in seno al nostro discorso sulla natura anti-esotica del genere, è che con il passare del tempo, se si tolgono i quattro mercati discografici più grandi del mondo, centri storici della produzione e commercio di heavy metal (USA, UK, Germania e Giappone), la popolarità del genere aumenta. Sono precisamente i territori più esotizzati del mondo ad essere progressivamente le forze a pesare di più sulla dimensione globale del metal. Da un lato la carriera dei brasiliani Sepultura e la loro collaborazione con gli Xavante di Mato Grosso e Carlinhos Brown diventano propulsori per una diffusione e politicizzazione significativa del genere in America Latina; dall’altro Bandung, Indonesia, diventa la città con più band metal del pianeta (128 secondo uno studio del 2018), patria di alcune tra le band più rinomate al mondo, in uno stato dove questi generi di musica hanno contribuito alla caduta del dittatore Suharto e sono costante spazio di denuncia sociale. Non a caso luoghi dove la morsa del colonialismo, imperialismo e estrattivismo industriale capitalista ha colpito duramente. 

Dalla nascita di scene con una sola band allo sviluppo di metal a tema rurale (1, 2, 3) l’heavy metal si avvia verso una sempre più progressiva frammentazione e diffusione, dovendo affrontare anche il problema della sua progressiva impossibilità logistica (e quindi parziale scomparsa geografica) che ruota attorno a organizzazioni sociali sempre più difficili (provate voi a fissare le prove per un gruppo di quattro o cinque musicisti lavoratori sei giorni a settimana come nella decade d’oro del metal in una città come Londra), la scomparsa dei locali che propongono o sono adatti a offrire periodicamente musica di questo calibro e, in poche parole, scene che si sgretolano e ricambi generazionali che avvengono sempre meno organicamente, particolarmente in Occidente. Nonostante il metal sia ancora un genere tendenzialmente maschile e sessista, e nonostante la resistenza delle frange più reazionarie e ortodosse, inoltre, questo sembra star diventando progressivamente anche uno spazio queer, cosa che vale anche in accademia, o comunque un genere dove sperimentare nuove forme di mascolinità meno oppressive e inclusione poco ortodossa

Spogliato della sua possibilità di proiettare uno sguardo esotico sulle terre e corpi altrui, quindi, al metal non resta come da principio che la fuga verticale verso il cielo o verso il centro della terra. Una fuga dagli/negli abissi del cosmo (1 e 2) o del tempo come unico escapismo. Se l’esotismo piangeva la perdita dell’innocenza pre-imperialista e coloniale, le lande floride e incontaminate, le sue palme e le sue donne languide, il metal urla una perdita che passa sempre da una negazione più o meno violenta (di dio, del mondo, della vita, di sé) e costantemente più profonda. Per usare le parole di Stanimir Panayotov nella sua analisi dei Locrian: “è il suono di ogni cosa che cade: il suono di una materia cosciente che non porta da nessuna parte. La peste di tutti gli spazi che puntano allo zero assoluto. È la teurgia auto-propedeutica del mondo creato dall’industria.”

Prima di concludere, dobbiamo però ricordare che sebbene il metal, almeno a mio parere, abbia conquistato e costruito un solido immaginario democratizzato e egualitario non più ignorabile per la rilevanza che ricopre socialmente e creativamente nella vita di milioni di persone che ne fanno esperienza con devozione spirituale, il pericolo di uno sguardo esotico e dominante è sempre presente. Dal borealismo, la fascinazione per le regioni settentrionali del globo e le loro culture descritta da Ross Hagen, fino alla nostalgia per il medioevo, l’insidia di immaginare paesaggi e culture fissi, immutabili e congelati nel tempo, un esotismo nero, piuttosto che un anti-esotismo, è sempre presente. 

In questo articolo ho cercato di mostrare come il metal, nato da una tradizione capitalista, industriale ed esotista, sia evoluto con una morfologia che, se non lo rende a prova di orientalismo, gli dona comunque una resistenza ragguardevole dovuta a diversi fattori ideologici e socioculturali: (1) una narrativa che parte dall’affermazione e lotta delle classi subalterne contro la modernità inarrestabile della tarda globalizzazione;, (2) la mira a costruire un genere per tutti e per nessuno tramite una comunità internazionale che possa essere definita unicamente dai suoi partecipanti; (3) la ricerca di una heaviness e dell’estremo che guarda dentro più che fuori di sé e che passa attraverso una serie di rifiuti e negazioni dell’esterno; (4) l’ascesa e diffusione del metal in maniera capillare e su scala globale (e sua conseguente familiarità) e il ruolo del sud globale nel suo attuale sviluppo; (5) la progressiva appropriazione del discorso sul metal da parte di musicist* queer come spazio dove affermare la propria individualità e esistenza. Tutti fattori che, oltre che ridurre le potenzialità esotiche e coloniali del genere, ci rassicurano nel testimoniare che l’heavy metal non solo è vivo e vegeto, ma continuerà il suo shredding genealogico ancora per molto. Brutality will prevail.

Luigi Monteanni è un musicista e ricercatore. Attualmente sta conseguendo un dottorato a SOAS tramite una borsa AHRC CHASE studiando l’indigenizzazione del metal a Bandung, Indonesia. Parallelamente, ha co-fondato l’etichetta Artetetra e il duo BABAU, dediti all’esplorazione audio dei concetti di esotismo transglobale e folklore digitale nella tarda globalizzazione.