Gli screwati

Intervista a Lance Scott Walker, autore della fondamentale biografia di DJ Screw: l’uomo che, rallentando, ha cambiato per sempre il volto dell’hip hop (e non solo)

A più di due decenni dalla sua scomparsa, Robert Earl Davis Jr. in arte DJ Screw resta un caso singolare nel panorama underground americano. La sua è una sorta di controstoria dell’american way of life. Nato nel 1971 e cresciuto a Smithville, in Texas, sognava di fare il camionista, come il padre, prima di iniziare ad adorare il giradischi – lo strumento con il quale riprodurre la sua musica preferita e grazie al quale avrebbe poi cominciato a comporla. Il trasferimento a Houston, con l’arrivo di certe droghe, gli cambia la vita. Conosce molte persone con la sua stessa sensibilità, trova quindi una comunità che gli consente di esprimersi appieno. Diventa un dj e produttore hip hop, la sua musica è apprezzata dalla scena locale e tramite un fittissimo passaparola inizia in maniera lenta a varcare i confini geografici. Un team lo segue, consentendogli di oltrepassare timidamente anche i rigidi confini economici. Non si abbassa al mainstream, ma continua per la sua strada fino alla morte, avvenuta il 16 novembre del 2000 per una dose troppo esagerata di codeina, assunta da un corpo in sovrappeso alimentato da pochissime ore di sonno quotidiano. Aveva 29 anni.

Dopo la morte arrivano le celebrazioni in tutto il mondo e il riconoscimento della straordinaria genialità della sua produzione. Screw è infatti comunemente considerato, tra le altre cose, il padre del chopped and screwed, la tecnica che – parafrasando la solita Wikipedia – “consiste nel rallentare il tempo di una canzone a 60-70 battiti per minuto e nell’applicare tecniche come saltare battiti, scratching, stop-time e modificare parti della composizione originale per creare una versione tritata (chopped-up) della canzone”. La sua eredità sta tutta nei DJ Screw Papers ora conservati all’Università di Houston, vale a dire una grande quantità di materiali personali, comprendenti anche il suo imperscrutabile archivio in vinile, che col tempo si illumina di chiarori sempre più sindonici. Un culto vero e proprio quello che ha creato, da venerare con la devozione che gli si addice – una liturgia che può essere certamente accompagnata dalle droghe. 

La trap venera apertamente la sua produzione e le sue modalità di esecuzione, che hanno ispirato tutto il genere. Il chopped and screwed ha poi dato vita a fenomeni come la witch house, quel sottogenere tutto americano e durato appena un lustro, ma anche alla vaporwave, movimento ben più sostanzioso, di cui ancora oggi è difficile tratteggiarne un profilo totalizzante. Rallentare non è infatti solo un espediente tecnico per trovare nuove forme estetiche da gettare nella sempre ardente fornace dell’industria culturale. Il rallentare è un gesto che in alcuni casi intende, nel suo piccolo, avere un ambizione politica, che spezza i calcolati meccanismi che mandano avanti la velocissima macchina della contemporaneità. 

Sicuramente non ha inventato tutto DJ Screw: qualcosa alla fine degli anni Novanta si stava muovendo nell’aria, e lui, assieme ad altri, riuscì a captare questo umore. Ma è anche vero che di questo sentire egli è stato certamente tra i più rappresentativi. I riconoscimenti sulla sua produzione arrivano da mondi distantissimi tra loro, dall’accademia, al metal, alle più disabitate backrooms internettiane. 

Il libro fondamentale per tutti quelli che hanno voglia di approfondire la sua figura è DJ Screw – A Life in Slow Revolution, di Lance Scott Walker, uscito per University of  Texas Press. Il suo autore ha intervistato molte persone vicine a DJ Screw per costruire un profilo ben definito di questo artista, dove emergono dettagli e particolari che tratteggiano con precisione il contesto dal quale muoveva. Di seguito alcune domande che abbiamo rivolto all’autore del libro.

Hai già scritto un ottimo libro sulla scena di Houston. Posso chiederti da dove nasce il tuo interesse per questa scena? Come sei arrivato a DJ Screw?

Ho sentito la musica di DJ Screw per la prima volta nello stesso modo in cui l’ha sentita la maggior parte delle persone a Houston: a tutto volume da un’auto in corsa. Sono cresciuto a un’ora di distanza, a Galveston, e alla fine degli anni Ottanta i ragazzi del mio liceo ascoltavano artisti hip-hop di Houston come Geto Boys, Royal Flush e Raheem. Mi sono trasferito a Houston nel 1992, quando i Geto Boys hanno sfondato a livello nazionale, e negli anni successivi ho iniziato a sentire DJ Screw. Fa parte del tessuto sonoro della città. Non si può guidare da nessuna parte a Houston senza sentirlo, ancora oggi. Mi sono innamorato di Houston e documentare questa musica è stato un modo per restituire l’amore alla città.

Screw si trasferì da Smithville a Houston nel 1986, quando aveva 15 anni. Quanto ha influito la città sul suo percorso artistico?

Il trasferimento a Houston è stato fondamentale per il suo sviluppo come artista. A Smithville, Screw era circondato da persone care e i suoi due migliori amici erano appassionati di hip-hop che hanno contribuito a far crescere il suo amore per la musica, ma aveva bisogno di un luogo con un capitale culturale maggiore e Houston glielo offriva, perché all’epoca era già una delle città più grandi degli Stati Uniti e la più grande del Sud. Incontrare più persone aiuta a formare chi siamo, soprattutto se sei giovane.

Qual era l’ambiente che usava per suonare e comporre?

Screw e Nikki – la sua fidanzata storica – avevano una camera da letto in più nella loro casa che tutti chiamavano “la stanza di legno”, in cui i suoi giradischi, il mixer e i diffusori erano sistemati contro una parete e le casse piene di dischi occupavano la maggior parte del pavimento. Gli artisti che facevano freestyle sui nastri stavano in piedi nella stanza dietro di lui e si passavano il microfono. La cosa interessante è che le pareti erano ricoperte di pannelli di finto legno, e questo senza dubbio aveva un certo effetto sul suono di ciò che veniva ascoltato nella stanza e ripreso dal microfono. La maggior parte di queste attività si svolgeva nel cuore della notte, fino alle prime ore del mattino. 

Parliamo un po’ della tecnica che, a posteriori, l’ha reso celebre. Secondo il tuo libro, la sua musica non è semplicemente rallentata: in realtà c’è molto di più… 

Credo che il libro sia molto dettagliato e spieghi che non si limitava a rallentare la musica, ma che la modificava in vari modi. Aveva due copie dello stesso disco sul giradischi: con una che suonava un po’ più indietro rispetto all’altra, e in certi punti muoveva il crossfader avanti e indietro per far scorrere indietro parti della musica. A volte metteva insieme dischi diversi, a volte ripassava intere sezioni di una canzone, trascinando il dito accanto al giradischi, il tutto mentre passava il microfono in giro per la stanza in modo che le persone potessero esprimersi in stile libero, sul momento. La musica veniva rallentata finché non veniva riversata su cassetta, e poi ulteriormente rallentata sul registratore multitraccia. Rallentare la musica cambia l’angolo di interpretazione, e questo ha permesso a Screw di introdurre nuove texture attraverso lo scratch e il chopping. Credo che questa parte sia politica, perché rallentando la musica e ripetendo certe parole o frasi, Screw ti diceva esattamente cosa voleva che sentissi. Rallentava la musica in modo che la gente rallentasse e ascoltasse.

Che impatto hanno avuto le droghe su questo rallentamento?

In realtà Screw aveva cominciato a rallentare i dischi molto prima che la codeina e la prometazina entrassero in scena. Credo che relegare le sue tecniche e le sfumature del suo orecchio agli effetti delle droghe significhi ignorare quanto fosse originale il suo approccio e quanto fossero locali e organiche le influenze che lo hanno portato alla sua forma d’arte. La marijuana era già presente, almeno quando arrivò a Houston, ma ricordiamo che iniziò a rallentare i dischi quando era ancora nella cittadina di campagna di Smithville, quando era molto più giovane e l’accesso alle sostanze era infinitamente minore.

Il suo primo album 3’n the Mornin è del 1994, ma ci sono pezzi che partono dal 1991. Qual è stato il momento in cui Screw ha iniziato a farsi conoscere?

Ha iniziato a farsi conoscere a Houston proprio attorno al 1991, grazie al passaparola, ma è stato solo tra 1994 e 1995 che si è iniziato a parlare di lui, dopo che, con un album uscito per Bigtyme Recordz, poteva contare su un prodotto effettivo nei negozi di dischi. A quel punto c’era un vero e proprio team che lavorava per lui, per far arrivare il suo disco ai recensori e nelle mani del grande pubblico musicale.

Che accoglienza ebbe in termini di vendite? Screw è stato molto celebrato dopo la sua morte, ma nel periodo in cui era in attività si trattava di una figura conosciuta perlopiù a livello locale…

In realtà il suo album del 1996 3’n the Mornin (Part Two) entrò nelle classifiche di Billboard, il che indica che ha venduto alcune migliaia di copie in un periodo di tempo relativamente breve, ma conoscendo il funzionamento dell’economia clandestina di Houston, qualsiasi cifra di vendita ricavata da punti vendita ufficiali come i negozi di dischi non dipinge l’intero quadro di ciò che vendeva. Ha venduto migliaia di cassette tramite passaparola, nessuna delle quali è stata contata, e altre migliaia (milioni?) sono state vendute fuori dal suo negozio nei quasi tre anni di apertura prima della sua morte. Era un eroe locale, ma la sua portata non si limitava a questo. La stampa nazionale ha scritto di lui e l’anno prima della sua morte è stato premiato a New York. Naturalmente, una volta morto, tutti hanno saputo di lui: ma per essere un artista underground senza etichette o supporto pubblicitario, aveva già un enorme seguito di fan.

Nel libro dici che lo stile di Screw non è legato al suo supporto fisico. Nel 2000 le cassette stavano scomparendo per lasciare il posto ai CD. Mi sembra che quest’ultimo supporto in particolare, per il fatto di essere quasi impossibile da usare per modificare le tracce o riprodurle in altro modo, sia quello più lontano dal suo approccio compositivo…

È il più lontano dal suo approccio compositivo, ma non è lontano dalla sua influenza. Ricordiamo che Screw lavorava con dischi in vinile e cassette, e i dischi in vinile non erano separati in tracce su diversi canali pronte per i remix. Screw aveva ancora a che fare con musica “fissa”, nel senso che, con l’eccezione di strumentali e brani acapella, aveva a disposizione la stessa cosa che la maggior parte delle persone avrebbe ascoltato alla radio o in casa. Screw ha portato tutto ciò in direzioni diverse, mai sentite prima.

Un dettaglio che non molti conoscono è che tra i collaboratori di Screw ci fu anche George Floyd, l’uomo la cui uccisione a Minneapolis da parte della polizia ha scatenato l’ondata di rivolte del 2020. Qual era il loro rapporto?

George Floyd ha visitato più volte la casa di Screw e ha registrato dei freestyle su una manciata di cassette, ma i due non erano particolarmente legati. Quello che posso dirti è che George Floyd è stato vittima di un sistema di brutalità della polizia che è stato esposto maggiormente negli ultimi anni perché ci sono più telecamere in giro, ma è sempre stato così negli Stati Uniti.

Nel bel diario che fai alla fine del libro, in cui racconti l’eredità che Screw ha lasciato, parli dei Salem e della witch house. In quel periodo, all’inizio degli anni Duemila, c’era un’intera scena di musicisti che iniziarono a rallentare pesantemente qualsiasi traccia, usando strani segni come quadrati, triangoli e cerchi per i loro nomi… Ma oltre alla witch house, c’era anche una sorta di proto rap rallentato, con lo stesso immaginario. Poi c’è stata l’ondata “slow and reverb” che ancora oggi imperversa su YouTube. Secondo te, perché a un certo punto si è sentita l’esigenza di rallentare?

Credo che alla gente piaccia rallentare la musica perché la apre, rivelando qualcosa di più profondo nel suono, nei testi, nelle note che a volte passano in fretta. Rallentare la musica premia un ascolto attento, perché si ha più tempo per elaborare la complessità dei suoni che si ascoltano, e le orecchie e la mente possono assaporare un po’ di più quelle parti della canzone. Per Screw, il rallentamento riguardava soprattutto l’hip-hop, il reggae, l’R&B e il funk, ma l’idea si trasferisce a tutti i tipi di musica.

Ancora a proposito dell’eredità di Screw: al di fuori della musica, come viene vista oggi la sua figura? Il suo archivio è ora in possesso dell’università di Houston, ma è una figura controversa, anche a causa della sua morte prematura. 

A Houston, DJ Screw è venerato e celebrato. La sua morte prematura è stata tragica e il ruolo che la codeina prometazina ha avuto nella sua scomparsa solleva diversi argomenti sui pericoli del suo uso ricreativo, ma questo non lo rende una figura controversa. Come persona, Robert Earl Davis Jr. è ricordato con affetto da chi lo ha conosciuto e amato. Come artista, l’eredità di DJ Screw continua a crescere perché il suo lavoro ispira e influenza nuove generazioni di creativi di tutte le discipline. Come ho scritto nel capitolo 10 del libro: “Ci sono stati sottogeneri che si sono ramificati, forse meno derivati da Screw che dalla witch house, ma comunque ispirati da un suono che non sarebbe esistito senza di lui”.