Gangstagram

Dissing economy e criminali da social

In seguito a tristi eventi di cronaca che hanno visto coinvolti personaggi di recente fama, in questo periodo mi sono trovato a scambiare diversi messaggi vocali con amici su Whatsapp. Com’è possibile, ci chiedevamo, evitare che una cultura popolare ormai dominata dai social continui a promuovere modelli sempre più autodistruttivi e violenti? Io il tema dell’influencer criminale lo seguo da qualche anno, ma sono rimasto abbastanza stupito da quanto rapidamente sia passato dalla mia filter bubble di YouTube ai media mainstream italiani. Per quanto il processo sia stato rapido, però, sicuramente il fenomeno non viene dal nulla. L’idea che sia la reputazione a incoraggiare comportamenti criminali non è certo nuova, ma è indubbio che i social media abbiano portato all’estremo la convergenza di stigma e branding caratteristica di generi culturali come il gangsta rap (poi trap, poi drill), accelerando dinamiche del resto ben rodate sui media tradizionali. Al di là dei casi recenti di cui sopra, sono particolarmente interessato a come una versione globalizzata e socialmente esplosa del criminale di importazione americana (il «gangsta» di matrice rap) sia diventata sempre più influente nel veicolare i flussi di attenzione sui social contemporanei, dando luogo a una sorta di «economia del dissing». Sostenuta dall’infrastruttura globale e standardizzata dei social network, la possibilità di uno scontro violento diventa infatti promessa di traffico facile quasi come la violenza stessa; l’accelerazione che questa infrastruttura porta, però, rischia di concretizzare la possibilità dello scontro e, in certi casi, causare danni veri. Provo a spiegare per gradi.

L’idea che l’identità del «criminale» sia qualcosa di costruito collettivamente è una corrente di pensiero che, già dagli anni Trenta, ha iniziato a contrapporsi all’approccio positivista che prevaleva ai tempi (quello stile Lombroso, per capirci). Se prima l’idea di devianza era considerata essenzialmente antisociale, il filone sociologico associato alla labelling theory (teoria dell’etichettamento) sosteneva invece che la criminalità fosse prima di tutto sociale e si basasse in gran parte anche sull’identificazione con determinate etichette affibbiate ai devianti. Nel suo Crime and the Community, il criminologo Frank Tannenbaum descriveva infatti la creazione del criminale come un processo di etichettamento, definizione, identificazione (rendere conscious e self-conscious – che in inglese suona sia come «cosciente di sé» sia come «insicuro») e, di conseguenza, evocazione degli stessi tratti che vengono stigmatizzati. Un secondo elemento ricorrente in questa scuola di pensiero è quello teatrale. Secondo Tannenbaum, all’etichettamento viene associata una «drammatizzazione del male» che di fatto contribuisce a solidificare questa identificazione con l’etichetta deviante e i comportamenti sociali associati a essa. Più avanti anche Erving Goffman, nel suo La vita quotidiana come rappresentazione, utilizza una metafora teatrale per descrivere come ciascuno di noi, nella vita di tutti i giorni, abbia un palco e un «dietro le quinte» per ciascun contesto sociale nel quale si trovi. Prevedibilmente, quest’idea che la nostra identità pubblica sia qualcosa di molteplice e costruito ha molto influenzato recenti studi sia sui social media (Instagram in particolare) sia sull’identità del «gangsta» nello specifico.

Se parliamo di celebrità criminale e cultura di massa non si può infatti prescindere dal gangsta rap, sottogenere fatto conoscere al mainstream bianco da gruppi come NWA tra fine anni Ottanta e primi Novanta. Se da un lato il genere aveva un forte elemento di protesta (vedi canzoni come «Fuck Tha Police»), c’è da dire che fin dall’inizio critici come bell hooks mettevano in guardia rispetto all’uso controproducente di stereotipi razziali e sessisti in cui quella nuova generazione di rapper indulgeva regolarmente, a beneficio (portafoglio alla mano) delle élite bianche. Il gangsta rap è stato fin da subito caratterizzato da un rapporto ambiguo tra stigma e branding: se essere un gangsta rapper non ha mai voluto dire essere necessariamente un criminale autentico (in sostanza bastava essere «amico di» o «conoscente di», avere esperienze adiacenti a certe realtà), un certo livello di autenticità e identificazione con l’etichetta «gangsta» era comunque preferito per mantenere un certo appeal commerciale. Nonostante la formula resa famosa dalla Los Angeles anni Novanta non abbia più la stessa rilevanza culturale, la trap della Atlanta di inizio 2000 e la Chicago degli anni Dieci con la sua drill hanno ciclicamente rinnovato il carattere estremo dell’estetica rap, anticipando di volta in volta anche un grosso interesse mediatico e commerciale sempre più globalizzato. Se i video hip-hop di MTV hanno trasformato i colori delle gang di Los Angeles in una lingua comune che ha creato emuli in tutto il mondo (i crips esistono anche in Olanda e in Norvegia, in contesti molto meno violenti della gang originale), con la trap vediamo spuntare giovani rapper spagnoli che si tatuano in faccia il gelato di Gucci Mane, mentre con la drill (prima evoluzione del gangsta rap a essere veramente nativa dell’era dei social media) attitudine e credibilità di strada si fondono con le strategie di branding globalizzate dai social in maniera molto più pericolosa. 

È interessante e forse non casuale che la drill si sia sviluppata a Chicago, come la ricerca di Tannenbaum e la successiva scuola della labelling theory. La parola drill si rifà infatti a un immaginario gangster di vecchia data molto radicato nel contesto locale (si riferisce al mitra), ma a parte quello i giovani protagonisti della prima scena (oltre a essere direttamente coinvolti nella vita da gang) sono dei teenager degli anni Dieci, con i mezzi del loro tempo – Chief Keef, nome cardine e primo a diventare famoso, caricava i propri video su YouTube mentre era agli arresti domiciliari. La drill nasce quindi in un contesto sociale e storico in cui, come mai prima, reputazione criminale, vita di tutti i giorni e carriera musicale sono appiattite in un’unica infrastruttura: quella dei social media. Questo appiattimento porta anche alla sovrapposizione tra credibilità di strada e clout online: diversi studi recenti sul fenomeno del cosiddetto «Internet banging» confermano che, a partire da Chicago, ci sia oggi una convergenza sempre più diretta tra attività sui social media e violenza da gang, collegate anche dall’immaginario rap (oggi, drill). Non solo ci sono famosi gangster che usano i social media come tutti (si nomina spesso una shooter con migliaia di follower su Twitter, uccisa dopo aver condiviso la propria posizione), ma in certi contesti provocare e condividere informazioni incriminanti sui social porta spesso persone innocenti a subire violenza o essere arrestate per associazione involontaria. Studi simili riguardo la scena di Londra documentano anche come i social media vengano usati per bullizzare e umiliare pubblicamente membri di gang rivali (più pubblica è l’umiliazione, più probabile la vendetta) e come sempre più spesso i testi delle canzoni drill vengano bannati dalle piattaforme o impugnati contro i loro autori in contesti giudiziari. Ad ogni modo, per quanto non si possa negare che la drill rivesta in questo momento il ruolo di rap «estremo» un tempo proprio del gangsta rap (ed è anche il sottogenere più mediato come criminale in questo senso), bisogna specificare: se già il concetto di gang è vago e potenzialmente riduttivo, l’equazione drill = criminalità è altrettanto rischiosa. Insomma: se da un lato i social danno molta più visibilità agli aspiranti artisti che hanno un effettivo legame con la strada, dall’altro possono rendere la separazione tra identità artistica e affiliazione a una gang più difficile.

Tornando a Tannenbaum, una delle parole che il criminologo usava nel suo testo del 1938 per descrivere l’etichettamento è tagging, termine che trovo fondamentale non solo per rappresentare come questo processo sia materializzato dai social media, ma anche per evidenziarne l’ambiguità. Se per Tannenbaum il tagging metaforico del criminale arrestato ed etichettato indelebilmente come deviante dalla società lo portava a identificarsi sempre di più come tale, nell’era dei social media il tagging rappresenta molteplici pratiche di catalogazione e branding che materialmente contribuiscono all’interesse pubblico nella figura del criminale (anche quando questo, come nel caso della maggior parte dei rapper, non è necessariamente tale). Per quanto riguarda lo stigma, un rapper che parla di strada può essere taggato su Twitter o sulle Instagram Stories da gente che lo provoca e lo chiama «snitch» o «fake»; dal punto di vista del branding, i rapper stessi vengono taggati o taggano marchi che li sponsorizzano, oppure i loro stessi nomi diventano hashtag per promuovere un canale di gossip che raccoglie Instagram Stories o screenshot presi dai social. Oggi il criminale in senso pubblico si fa anche taggando il proprio spacciatore su Instagram, o venendo legittimati dalla menzione di un rapper più credibile o famoso (e questi tagging divengono a loro volta oggetto di speculazione, trasformandosi in clickbait per attirare traffico sui famigerati canali di gossip). Questa esplosione sociale dell’etichettamento si manifesta in modo più evidente in relazione al cosiddetto dissing: se una volta questo formato culturale consisteva in uno scambio di insulti più o meno velati all’interno di tracce audio ufficiali, nell’era della trap mainstream e dei social è diventato moneta corrente in una sorta di «dissing economy» dove, con toni più o meno minacciosi, rapper o aspiranti tali mettono in discussione la credibilità dei propri rivali, taggando i più famosi per attirarne l’attenzione o evitando di nominare quelli con meno follower per non far loro pubblicità. Scambi del genere possono portare a scontri reali (è successo anche in Italia) e a ogni scazzo l’economia del dissing si espande – nascono nuovi canali per il re-upload di stories e video vari, vengono postate reaction, i titoli clickbait si moltiplicano.

Anche se l’economia del dissing non ha necessariamente più molto a che vedere con il rap (e ancora meno con il mondo criminale), sicuramente la sua espressione più clickbait nasce in un’era in cui social e trap sono il nuovo mainstream. La documentazione degli scontri tra gangsta rapper come formato di intrattenimento o la mediazione delle umiliazioni ai propri rivali sono prodotti prima di tutto americani, ma anche in Italia è diventato impossibile negare la loro rilevanza culturale nel momento in cui video di rapper che picchiano altri rapper (promossi da canali di gossip che usano regolarmente la parola dissing nei titoli dei propri video) a un certo punto arrivano primi in tendenze su YouTube. Chi segue la scena hip-hop italiana sa che simili approcci alla viralità come conferma della street cred apparivano già una decina di anni fa (e stando attenti si nota come alcuni dei protagonisti siano gli stessi), ma è solo con l’emergere di social media molto più veloci e personali come Instagram che vediamo lo sdoganamento definitivo del formato del criminale influencer. Uno sdoganamento che comunque, sia ben chiaro, è stato possibile solo con la complicità di media tradizionali come radio e TV. Da una parte, se Instagram di per sé sa di nuovo per una parte sostanziosa del pubblico italiano (e il «nuovo» in certi contesti viene spesso compresso nella scomoda dicotomia «trash da deridere»/«panico morale»), il fatto che la cultura social venga spesso approcciata come qualcosa di decadente finisce per privilegiare certi esempi piuttosto che altri. Dall’altra, la stessa funzione live di Instagram, che si è imposta di prepotenza in quarantena, ha poi contribuito a trasformare il dissing in un formato quasi televisivo – con un suo pubblico che «chiama» in diretta, conduttori che creano un proprio linguaggio, comparse varie più o meno regolari. In ogni caso, anche se l’ispirazione è in parte ancora presente, siamo ormai lontani dalla convergenza di gangster e artista tipica del gangsta rap: la celebrità criminale vista emergere nell’ultimo periodo in Italia è un misto di romanità teatralizzata, insulti alla Thomas Milian, machismo nazionalpopolare e marketing da social (letteralmente) con gli anabolizzanti.

Gang di adolescenti sui social, rapper che si promuovono come credibili sulle Instagram Stories, influencer con storie brutte che da internet sbarcano in TV: ciò che accomuna i fenomeni descritti qui sopra è la relazione sempre più stretta tra stigma e branding, processi sociali materializzati e accelerati dai social media che possono travolgere sia chi ne beneficia sia chi sta loro accanto. Come ogni espressione culturale che riflette un problema sociale (un altro esempio: le fake news), la rappresentazione di esempi autodistruttivi e violenti non è niente di nuovo; è sempre più evidente, però, che l’onnipresenza di modelli tecnico-comunicativi orientati all’accelerazione e alla crescita continua non fa che ingigantire gli aspetti più problematici di ciò che rappresentano. L’unica cosa certa è questa: trattare internet come un medium separato dalla società, e non come parte integrante di essa, sarà sempre più rischioso.

Nicola Bozzi è un giornalista e ricercatore che si occupa di media in senso molto lato. I suoi interessi principali sono la circolazione delle identità globalizzate e il ruolo dell’arte nella società, ma ha anche una newsletter su comicità, media e cultura che si chiama Letdown Comedy (letdowncomedy.substack.com). Lo potete seguire su Twitter come @schizocities.