Futuri passati

Le nostalgie di Robert Crumb e la vita inoperosa di Massimo Bontempelli

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In una vignetta del 1968 – diventata virale quando, qualche tempo fa, è stata rimessa in circolazione con il titolo «Robert Crumb aveva previsto Twitter» –, un uomo con un sorriso estatico e stupito è seduto accanto a dei macchinari semi-industriali con complesse pulsantiere gremite di bottoni, leve e luci. In testa ha un casco, collegato ai macchinari, che gli permette di ricevere direttamente nel cervello dosi variabili di «economia, politica, scienza, letteratura, arte», «opinioni e idee», «fatti e fantasie». La didascalia recita: «[Nel futuro] tutti saranno connessi a tutto quello che sta succedendo, a ogni ora! Nessuno sarà tagliato fuori. Saremo tutti normali!».

L’uso straniante e violento della parola «normale» fa capire bene come, in realtà, quella di Robert Crumb non fosse una speranza, o una visione, ma una sorta di angosciosa profezia. Chi ha letto Crumb conosce, oltre ai racconti erotici, allucinati, trasgressivi, immorali, anche il lato più nostalgico delle sue opere, la passione per il folk e il blues di inizio secolo, il fascino per la cultura rurale e l’autentico odio che il padre fondatore del fumetto underground statunitense nutre invece per la modernità. In una scena del documentario che Terry Zwigoff ha girato su di lui, Crumb mostra con orgoglio una vasta collezione casalinga di sbiaditi 78 giri, e mette sul piatto «Last Kind Words», un pezzo registrato nell’aprile del 1930 da una cantante e chitarrista afroamericana pressoché sconosciuta, Geeshie Wiley: è una canzone di una tristezza devastante, che sembra aver poco a che fare persino con il canone blues dell’epoca, suona più come uno spettro musicale proveniente da un futuro irrimediabilmente malinconico.

La vignetta dell’uomo attaccato al macchinario delle notizie è tratta da una delle storie presenti nel numero zero di Zap Comix. Quella di Crumb è una parodia di «En l’an 2000», una famosa serie di cromolitografie francesi che a inizio Novecento immaginavano possibili futuri, oggi oramai irrealizzati. Erano cartoline in cui si figuravano i più sorprendenti progressi scientifici e tecnologici che all’epoca ci si aspettava nel giro di cento anni: passeggeri felici su macchine volanti e casalinghe rinfrancate dall’aiuto di robot con la scopa. Crumb ne scimmiotta la retorica positivista e immagina invece delle scenette sinistre provenienti da una grottesca città del duemila, in cui alle persone vengono rimosse le budella alla nascita per evitare la scocciatura di dover defecare ogni giorno e dove gli androidi sono usati come schiavi sessuali, o come prigionieri per poter ricreare vere e proprie Shoah «giocattolo». Per evitare la sovrappopolazione, poi, al compimento dei 65 anni, tutti gli abitanti della città vengono uccisi con delle torte al cianuro lanciate in faccia da dei clown. La «previsione di Twitter prima di internet» fa parte di questo universo.

Alla fine degli anni Sessanta le ingenuità ottimiste di inizio secolo dovevano sembrare già pateticamente inverosimili, o fiabesche come quelle di un sogno, ed era inevitabile che uno come Crumb infierisse su ciò che rimaneva di quelle illusioni poco tenaci. Per di più, immaginando una versione paranoica di quello stesso antico mondo futuro, Crumb è riuscito ad anticipare una parte di quella che sarebbe poi diventata la nostra contemporaneità. Gli elementi necessari per azzeccare una previsione del genere evidentemente erano già lì, a disposizione di chi aveva uno sguardo acuto a sufficienza per riuscire a coglierli.


Una vertigine simile può prendere anche leggendo La vita operosa. Avventure del ’19 a Milano, di Massimo Bontempelli, uscito nel 1920, a puntate, sulla rivista Industrie Italiane Illustrate con il titolo di La vita degli affari.


È un romanzo comico, scritto prima che nascesse davvero il Novecento letterario italiano, quando Bontempelli stesso non aveva ancora trovato la sua strada – e quindi prima che fondasse il realismo magico, per cui di solito è ricordato, e prima dell’iniziale adesione al regime fascista, che ha contribuito invece, probabilmente, alla sua progressiva scomparsa editoriale dal dopoguerra a oggi, nonostante il premio Strega vinto nel 1953. Solo da poco, la neonata Utopia Editore ha iniziato a ripubblicare tutti i suoi romanzi, a partire da Gente nel tempo.

Siamo nel 1919, dunque. La prima guerra mondiale è finita da poco, ma Milano è già «capitale morale d’Italia». È una trincea in tempo pace: è qui che si combatte la «campagna delle battaglie della vita», è qui che «una nuova società sta nascendo sulla spinta del lavoro moderno e della vittoria». Il protagonista, e tanti come lui, arriva in città per cercare il proprio ruolo in questo futuro in piena costruzione.

«OGGI» è scritto a grandi lettere in quasi tutti i cartelloni pubblicitari in città. È
«il nuovo Dio, che si chiama
OGGI.
OGGI è il nome della Volontà di vivere nata dalla rassegnazione a morire».

Le scritte dei manifesti riflettono le luci dei bar, il protagonista rimane incantato dai tramvai, le carrozze e le donne bellissime che gli passano affianco, tutte cose che, però, senza una lira non può permettersi davvero di vivere. «Perdio, qui è necessario trovare il modo di fare molti quattrini», capisce subito.

Decide di diventare uomo d’affari, senza sapere bene cosa voglia dire, o come si faccia a fare affari, e rinvia continuamente l’agognato ingresso nel mondo del lavoro.

Le sue esperienze sono tutte disastrose. Accetta di scrivere réclame per un ufficio pubblicitario. Spera che l’esperienza da scrittore e intellettuale lo possa aiutare a immaginare slogan e campagne persuasive (la mercantilizzazione del lavoro intellettuale, e quindi la flessione delle libertà dell’arte alle esigenze del mercato, è uno dei temi ricorrenti del libro). Ma non fa in tempo a ideare una strategia di promozione per un locale che vende «specialità del Vero Oriente» – cocaina, haschisch, oppio – che i proprietari «si ritrovano improvvisamente in prigione […] in seguito a un incidente». Decide di licenziarsi quando il capo gli affida come cliente un ex-colonnello dell’esercito, che ha «inventato una tappezzeria luminosa da mettere negli appartamenti» al posto della solita carta da parati.

Dopo il primo fallimento, va alla ricerca di altre possibili occasioni d’oro, ma fallisce di continuo, perde solo tempo, e allora gira, cammina, e non fa che chiacchierare. Incontra personaggi operosi, indaffarati, «pescecani» degli affari, che si rivelano tutti, però, puntualmente dei matti («la  sorte ha messo occultamente tra le mie mani non so che potentissima calamita di pazzi»). Anche la sua sanità mentale oscilla: parla da solo, sente la voce di un Dàimone, uno spettro a metà tra demone e dáimōn, spiritello della sua cattiva coscienza che cerca di sabotare ogni tentativo di fare soldi, di fare il serio, di essere responsabile: il Dàimone lo invita a far saltare gli appuntamenti di lavoro, a dormire ancora un po’, a prendersi una pausa dalla furia dinamica di Milano, che sembra invece non conoscere sosta.

Esausto, si ritira in campagna. Anche lì viene raggiunto da un inventore pazzo, Bruno, che gli mostra il suo ultimo prototipo: il «gabinetto pantelestetico», una cabina acusticamente isolata che può essere messa in comunicazione con un’altra cabina identica, arbitrariamente lontana. «E fin qui non abbiamo che un perfezionamento della telefonia. Ma una delle pareti del gabinetto è uno specchio, uno specchio allocatoptotrico, in cui si vede, distintamente, il luogo e la persona con cui si parla: la si vede parlare e muoversi, vivere. Data l’audizione e la visione, perfettissime entrambe, ogni distanza tra gli uomini è con ciò pienamente abolita».

Una videochiamata, in pratica (e torna la tentazione di leggere anche qui qualche profezia tecnologica). Ma quando il protagonista prova la cabina, e nello specchio vede una donna di cui si è invaghito qualche giorno prima, cerca di saltarle addosso per la gioia, rompendo irrimediabilmente il gabinetto.


Sappiamo che Bontempelli era vicino agli ambienti del futurismo, e ne condivideva probabilmente la voglia di rinnovamento. Di sicuro, da scrittore, sentiva «l’ingombro» del secolo appena passato: il libro che scrisse prima della Vita operosa si intitolava La vita intensa ed era composto da decine di brevi romanzi parodistici che raccontavano insignificanti vicende quotidiane e casalinghe (i dispetti ai vicini di casa, la messa a punto di un metodo efficace per scroccare il tabacco agli amici…) scritti scimmiottando il tono solenne del romanzo ottocentesco. Negli sketch comici che costruiscono la trama della Vita operosa, però, è difficile non leggere anche una presa in giro dello slancio propulsivo marinettiano, della fiducia rivoluzionaria nella fusione uomo-macchina, nell’annullamento dello spazio e del tempo propagandati in quegli anni.

Ma La vita operosa non si limita al solo gesto satirico: ha una sua propria energia rivelatrice. Per opporsi all’idiozia che è la vita in società, sembra dirci, è necessario un ribaltamento. Ma non c’è bisogno di abbracciare il dogma della distruzione e la rincorsa al nuovo, come volevano i futuristi: ci si può lasciare andare a un’altra idiozia, più pigra e indolente. Possiamo seguire il nostro Dàimone, diventare nuovi Oblomov invece che uomini nuovi. Solo così si potrà essere magari infelici, sì, ma liberi.

Una saracinesca, calando con gran rumore di ferro a chiudere un magazzino, mi gridò:
«Frègatene.»