Fuggire da questo mondo con Brian Wilson

Pet Sounds e l’apocalisse del pop, il lo-fi di Smiley Smile, l’evasione dalla vita capitalistica. Un estratto da Bassa fedeltà. Musica lo-fi e fuga dal capitalismo di Enrico Monacelli

[…] perché Brian Wilson? Cosa c’è di così speciale nei Beach Boys? In poche parole, Brian Wilson, e la band che per lungo tempo è stata una specie di estensione diretta del suo particolare genio – i Beach Boys –, è stato il musicista che più di ogni altro ha incarnato l’idea del lo-fi come evasione. Una pratica estetica dalle profonde conseguenze esistenziali e politiche – ambigua, gloriosa, contraddittoria, inquietante, a volte disastrosa, a volte sorprendentemente bizzarra – intesa come evasione dalle costrizioni e dalle fatiche del capitalismo contemporaneo. Un modo di creare melodie meravigliose in fuga dalla morsa di questo mondo, forgiate nella tragedia e nella bellezza, nel destino e negli incidenti. Un lo-fi acido (lo-fidelia?) da accendere, sintonizzarcisi e a cui abbandonarsi, con tutte le contraddizioni che questo comporta.

Nemmeno Paul McCartney – che Wilson stesso considerava il suo unico spirito affine – poteva avvicinarsi alla stranezza in cui Wilson si imbatteva con le sue esplorazioni nei territori del lo-fi. Infatti, se McCartney era, come Wilson e contrariamente a quanto si crede, uno sperimentatore nell’animo, innamorato di Stockhausen e delle stranezze da studio, che fuggiva letteralmente dalla società per comporre i suoi rivoluzionari dischi lo-fi – McCartney nel 1970, Ram nel 1971 e McCartney II nel 1980 – era allo stesso tempo e, stavolta al contrario di Wilson, impantanato in una certa domesticità di fondo. I suoi esperimenti lo-fi sembravano piccoli embrioni che galleggiavano placidamente nel loro sacco amniotico, sorvegliati dalla grazia amorevole di Paul e Linda McCartney, nel loro abbraccio idilliaco.

Una tale quiete mitologica potrebbe essere commovente, ma non potrebbe reggere il confronto con i viaggi psichedelici di Brian Wilson ai limiti dell’estasi e dell’esaurimento, che, proprio per la loro stranezza, mi appaiono come l’unico punto di partenza naturale per una lettura radicale del fenomeno lo-fi. Ma troppo, e troppo presto! Riavvolgiamo il nastro e ripartiamo dall’inizio. Un inizio piuttosto paradossale, visto che questa storia deve muovere i primi passi da uno dei dischi più straordinariamente hi-fi mai realizzati: Pet Sounds. L’agiografia di questo album è diventata giustamente parte integrante della storia del rock’n’roll. Pochi album sono stati lodati e commentati quanto l’undicesimo dei Beach Boys. Dopo tutto, ha portato i Beach Boys fuori dal loro guscio di infantile solarità, tutto surf e divertimento sulla sabbia, direttamente nel regno etereo di una forma quasi inedita di musica pop barocca e straziante. Un momento di svolta nella storia della musica e nella nostra coscienza collettiva. Pet Sounds nasce da uno strano esperimento esistenziale: nel 1964 Brian Wilson decide di lasciare le luci del palcoscenico al resto della band, composta per lo più dai suoi fratelli, per concentrarsi esclusivamente sulla produzione musicale. Era profondamente affascinato dall’approccio radicale di Phil Spector alla registrazione dei suoni: stravolgere la funzione dello studio trasformandolo in uno strumento a sé stante. Decise che, da quel momento in poi, si sarebbe sposato con la macchina proprio come Spector. «Non sono stato in grado«, ha detto Wilson «di pensare veramente come un produttore fino al momento in cui ho conosciuto il lavoro di Phil Spector. Allora ho cominciato a capire il senso di fare dischi. Sei nel settore per creare un disco, quindi progetti l’esperienza perché sia un disco piuttosto che una semplice canzone». Un altro fattore che contribuì al suo isolamento in studio fu sicuramente la competizione dilagante che sentiva montare con i Beatles, una band che secondo Wilson stava alzando la posta della produzione musicale a livelli impensabili:

[…]

La fuga di Wilson dal palcoscenico non fu però una scelta puramente artistica e disincarnata. Nell’aprile del 1965 ebbe la sua prima esperienza con gli acidi, una sostanza che per lui si sarebbe rivelata al tempo stesso una svolta e una frattura. Parlando dei suoi primi trip, confesser. felicemente: «Ho preso l’LSD – una dose intera di LSD – e più tardi, un’altra volta, una dose più piccola. Ho imparato molte cose, come la pazienza e la comprensione. Non posso insegnarvi o dirvi cosa ho imparato prendendolo, ma la considero un’esperienza molto religiosa». Quello che è certo è che gli acidi lo hanno messo in contatto con qualcosa che sta al di là del quotidiano. Con una forma di piacere non limitata dagli stretti confini della normalità. Ma i suoi viaggi mettevano alla prova anche la sua salute mentale. Gli acidi da soli non potevano abolire o alleviare la pressione di un’industria culturale che lo costringeva a sfornare successi a ritmi sempre più veloci, e in queste circostanze divennero un veleno per la mente di Wilson.

Si rivelò essere l’inizio del momento più sbalorditivo della sua carriera e al contempo di una tragica spirale discendente. I sintomi schizoaffettivi iniziarono a manifestarsi, insinuandosi come crepe uditive nella sua coscienza, e fu costretto a convivere con voci che lo rimproveravano continuamente. Come avrebbe ricordato in seguito:

Negli ultimi quarant’anni ho avuto allucinazioni uditive, tutto il giorno, tutti i giorni, e non sono riuscito a farle sparire. Ogni pochi minuti le voci mi dicono qualcosa di offensivo, il che mi scoraggia un po’, ma devo essere abbastanza forte da dire loro: «Ehi, volete smetterla di parlarmi? Vaff******! Non mi parlate, lasciatemi in pace!». Devo dire questo genere di cose tutto il giorno. È come se dovessi mettermi a litigare.

Si può solo immaginare quanto possa essere infernale l’esperienza del palcoscenico, con la sua buia fossa di fan, e la vita da celebrità in uno stato simile. «Quando ero sul palco sentivo delle voci che dicevano cose negative sul mio conto. Ancora oggi, quando sono in scena, devo costringermi a non ascoltarle. Ma quando il concerto finisce, le voci tornano». Anche la sua depressione peggiorava: «La mia depressione va molto a fondo, molto in profondità. Mi deprimo al punto di non riuscire a fare nulla, nemmeno a scrivere canzoni, che è la mia passione». La psichedelia è stata per Brian Wilson l’esperienza di una profonda rottura dell’io, rivoluzionaria e infernale, che ha messo a nudo sia la miseria della sua condizione materiale e di quella del mondo, sia l’inaspettata possibilità di qualcosa di diverso da ciò che abbiamo e che giace latente – da qualche parte nello spazio e nel tempo. O, come disse una volta Deleuze in maniera più elegante: «Un mitragliamento della superficie per trasmutare il pugnalamento dei corpi, oh psichedelia».

Un’esperienza evidentemente gravida di terribili verità sul mondo e su Wilson stesso, in termini molto più semplici. «Ha mandato in frantumi la mia mente e sono tornato, grazie a Dio, in non so quanti pezzi». Pet Sounds era un modo per esplorare questa frantumazione con altri mezzi e al di fuori delle costrizioni velenose che rendevano la psichedelia così nefasta per Brian Wilson. O, come dice Deleuze,

un modo per non rinunciare alla speranza che gli effetti delle droghe e dell’alcol (le loro «rivelazioni») possano essere rivissuti e recuperati per sé stessi sulla superficie del mondo, indipendentemente dall’uso di queste sostanze, a condizione che le tecniche di alienazione sociale che ne determinano l’uso siano rovesciate in mezzi rivoluzionari di esplorazione.

Date tutte queste premesse, è diventato un luogo comune considerare Pet Sounds il prodotto della «fragilità emotiva di Brian». Il suono incantevole di qualcuno che sta per esplodere in mille pezzi, chiuso in studio tra macchine e nastri che si aggrovigliano tutt’intorno. Sebbene questa sia una verità inconfutabile, in un certo senso ho sempre pensato che fosse un’idea scandalosamente semplicistica; un’idea che sminuisce la portata del malcontento di Pet Sounds, un sentimento che innerva l’intero disco, riducendolo alle difficoltà individuali di Wilson.

Naturalmente, il dolore di una persona è sempre, in un certo senso, un’isola a sé stante, e non vorrei mai dover spiegare il dolore espresso in modo così chiaro da Wilson con una narrazione più ampia o con un concetto generale. C’è sempre un vuoto nella sofferenza: non posso mai raggiungere e toccare direttamente il tuo mal di denti, o il tuo cuore spezzato, o qualsiasi altra cosa. Quando si parla di qualsiasi tipo di dolore non bisogna mai dare spiegazioni, ma cercare di dare spazio a chi soffre di esprimere liberamente la propria condizione e ciò che ritiene stia accadendo intorno a sé. Ma, allo stesso modo, non si dovrebbe mai trattare il dolore come qualcosa che esiste nel vuoto, che si presenta da solo, senza contesto. Ogni sofferenza è una sofferenza all’interno di determinate condizioni: esistenziali, sociali, persino cosmiche, se ci sentiamo avventurosi.

l’espressione della sofferenza (e della gioia, ovviamente) di Brian Wilson in Pet Sounds aveva certamente un messaggio per l’umanità intera: la volontà di evadere e di realizzare qualcosa che uscisse dalla noia, dalla miseria e dall’accanimento della vita capitalistica, con l’aiuto dei macchinari dello studio di registrazione al massimo delle loro potenzialità

L’angoscia umana è sempre qualcosa che ha a che fare con l’umanità nel suo complesso, in un determinato momento, e l’angoscia di Brian Wilson non è certo diversa. Analizzare un album così profondamente legato alla malattia mentale e al dolore, un disco che Wilson considerava un vero e proprio «album di schizzi della sua vita», come espressione di una fragilità emotiva privata, è mutilante: lo priva di gran parte del suo significato, escludendo il mondo più ampio in cui è stato realizzato. Ne addomestica le parole e il suono. Il dolore, come le origini, è sempre un evento di cui si deve parlare al plurale, essendo legato alla nostra fugace esistenza, e che parla dell’esistenza umana nella sua interezza. E l’espressione della sofferenza (e della gioia, ovviamente) di Brian Wilson in Pet Sounds aveva certamente un messaggio per l’umanità intera: la volontà di evadere e di realizzare qualcosa che uscisse dalla noia, dalla miseria e dall’accanimento della vita capitalistica, con l’aiuto dei macchinari dello studio di registrazione al massimo delle loro potenzialità. Realizzare un disco che ponesse fine a questo mondo noioso e costruisse una via d’uscita attraverso la più alta forma di produzione hi-fi disponibile all’epoca: la missione era questa. Quasi un’apocalisse del pop.

 A mio parere ciò risulta evidente, più che in ogni altro luogo, nella traccia d’apertura del disco, «Wouldn’t It Be Nice». Una grande canzone d’amore, elegante e immensa, colma di desiderio adolescenziale. Due giovani amanti si fondono in una sola persona, desiderando che ogni bacio sia infinito. L’espressione di chi spera in qualcosa di meglio, in una passione più pura e in un futuro felice. Queste interpretazioni, che sono la lettura più superficiale e naturale, non esauriscono la profondità del brano, relegandolo in qualche modo agli strati più privati del desiderio e allo status di semplice canzonetta d’amore. Al di sotto di questo banale desiderio adolescenziale traspare qualcos’altro: una profonda frustrazione nei confronti di un mondo costituito da barriere, confini e scarsità di beni su ogni fronte – e l’urgenza di trasgredire tutto ciò. «Esprime la frustrazione della giovinezza, di ciò che non si può avere, di ciò che si desidera veramente e che si deve aspettare» ha ammesso Brian Wilson molto candidamente.

È sicuramente un sentimento inerente alla lussuria adolescenziale, ma trova in questa canzone un significato più ampio, slegato dalle necessità fisiologiche di un’età specifica, suscitato dalle costrizioni materiali di questo nostro mondo. In altre parole, è perseguitato dalla paura che, anche se la giovinezza potrebbe finire, queste costrizioni non saranno eliminate:

Maybe if we think and wish and hope and pray It might come true.

Brian Wilson, dopo tutto, aveva poco più di vent’anni ed era già sposato: non dovrebbe cominciare a diventare piacevole a quel punto? Il brano esprime la stessa frustrazione repressa che Herbert Marcuse aveva espresso appena dieci anni prima, quando aveva scritto: «La gente abita in concentrazioni di appartamenti – e possiede automobili private con le quali non può più fuggire in un mondo diverso. Ha enormi frigoriferi pieni di cibi surgelati. Ha decine di giornali e riviste che sposano gli stessi ideali. Ha innumerevoli scelte, innumerevoli gadget che sono tutti dello stesso tipo e che li tengono occupati distogliendo la loro attenzione dal vero problema, che è la consapevolezza che potrebbe lavorare di meno e determinare i propri bisogni e le proprie soddisfazioni».

You know it seems the more we talk about it It only makes it worse to live without it.

Sotto la patina di una dolce canzone d’amore pulsa il desiderio adolescenziale di «ciò che il capitale deve sempre ostacolare: la capacità collettiva di produrre, curare e godere», come disse Mark Fisher. Il bisogno di fuggire e di trovare un posto migliore in cui vivere sembra essere, fin dall’inizio, l’idea che corona le dolci melodie di Wilson. C’è il sospetto persistente che questo mondo, così com’è oggi, sia abbastanza osceno e certamente non un bel posto in cui stare. Bloccato nei gorghi dell’industria culturale e del mondo capitalista, Wilson sembrava desiderare di tirar fuori da tutto questo un numero alla Houdini. Il suo dolore e i suoi desideri non provenivano esclusivamente dalla sua psiche, ma anche dalle condizioni materiali del suo tempo, che erano davvero troppo ingombranti, esigenti, insoddisfacenti e strazianti per l’anima. «L’oscenità non si limita alla sessualità, perché oggi esiste una pornografia dell’informazione e della comunicazione, una pornografia dei circuiti e delle reti, delle funzioni e degli oggetti nella loro leggibilità, disponibilità, regolamentazione, significazione forzata, capacità di esecuzione, connessione, polivalenza, libera espressione…» scriveva Baudrillard, ed è difficile non pensare che Brian Wilson sarebbe stato in qualche modo d’accordo.

Poi arriva «Sloop John B» e qualcosa si rompe. Alla fine della prima metà dell’album, la maschera cade e il disagio nei confronti del mondo capitalista e dell’emaciato mondo libidico che lo accompagna si dissolve. «Sloop John B», fin dall’inizio, rende palpabile il disgusto per il presente. Lascia trasparire il desiderio di qualcos’altro. Nato come brano folk marittimo delle Bahamas, Brian Wilson lo scopre grazie al Kingston Trio, che lo registrà con l’inquietante titolo di «The Wreck of the John B». Questa volta, chiaramente, non si tratta di una canzone d’amore: racconta la storia di un marinaio arenato da qualche parte nell’Atlantico. L’uomo solitario si aggira per Nassau strafatto, ubriaco e malridotto, con un equipaggio di incompetenti e lupi di mare. Singhiozza per tutta la canzone:

I feel so broke up
I wanna go home.

La metafora è evidente. Brian Wilson è bloccato in studio, claustrofobico e circondato da nastri e strani strumenti che producono un milione di suoni, costretto a far girare la macchina dei Beach Boys per sfornare sempre più soldi per la sua casa discografica e per l’industria culturale in generale. Si sente esausto e finito, vorrebbe solo andarsene ed essere felice; trovare una casa e potersi godere la propria vita come si deve. Non c’è da stupirsi che si sentisse come su una nave che affonda! Voleva sciogliere i legami che lo vincolavano a un’etichetta discografica, allo showbiz e all’economia mondiale. C’è quasi un elemento folk-horror, alla Wicker Man, nella canzone: questa natura selvaggia (il mare aperto, la nave che affonda, l’equipaggio infuriato) che riflette la nevrosi dei moderni, quelli che vivono sotto il capitalismo – in altre parole, noi. L’oscenità che Wilson sente intorno a sé è soffocante e la dolce melodia serve solo a trasmettere tutto il digrignare i denti e lo stringere i pugni di Wilson.

È ovviamente un brano cantato da qualcuno che pensa che la sua situazione sia offensiva e deprimente – che vorrebbe far toccare con mano all’ascoltatore il proprio desiderio di un nuovo mondo e il suo disgusto per quello che abbiamo. La canzone è avvolta da un’oscura psichedelia:

Why don’t they let me go home?
This is the worst trip I’ve ever been on.

Il suono di un mondo così piccolo e angusto da essere diventato invivibile. Del desiderio di viaggi migliori e di una bella vita. Da questo momento in poi inizia una lunga dissolvenza a nero, una delle più commoventi nella storia della musica pop. Il tema centrale, il voler fuggire da questo mondo pur essendovi bloccati, diventa quasi insostenibilmente pressante: cosa significa desiderare un mondo o una vita postcapitalista per noi? Questo dolore scomparirebbe? Possiamo anche solo iniziare a immaginare un mondo nuovo? Queste domande sono così insistenti che, lungo il percorso, troviamo persino una canzone che parla apertamente e in maniera inequivocabile del non adattarsi all’infernale e tortuosa America capitalista.

Ci avviciniamo pericolosamente al nome di ciò da cui vorremmo fuggire: il nostro attuale sistema economico. Una canzone quasi apertamente anticapitalista, in altre parole. È cantata dal punto di vista di chi continua a cercare un posto dove stare. Lui è un buono a nulla, anche se gli viene detto che è intelligente. Non ha nulla di sbagliato, in realtà, ma il mondo in cui vive non gli permette di trovare le cose di cui ha bisogno. La sua vita emotiva è prosciugata dalle vicissitudini di una quotidianità vuota. Le rivoluzioni, o perlomeno un qualche spirito di gruppo o qualcosa che lo aiuti a sentirsi meno solo in questa situazione di stallo, non si trovano da nessuna parte:

Every time I get the inspiration
To go change things around
No one wants to help me look for places
Where new things might be found.

Non esiste alcuna solidarietà che gli permetta di tenere la testa fuori dall’acqua, nessun movimento o comunità o organizzazione che gli garantisca la speranza di una via d’uscita realistica, o anche solo l’ombra fugace di un miglioramento o di una consolazione. È forse possibile sognare qualcos’altro?

Wilson soffre palesemente di quel malessere che Mark Fisher ha diagnosticato nel suo libro più celebre, Realismo capitalista – l’incapacità di immaginare qualcosa di differente dal deserto emotivo e fisico del capitalismo che abbiamo ereditato, e che ha precluso qualsiasi azione comune contro lo stato attuale delle cose. «L’impotenza riflessiva equivale a una visione del mondo non dichiarata […] e ha il suo correlato in alcune patologie molto diffuse», ed è abbastanza evidente che sia stato il capitale a fare ammalare Wilson. Il ritornello recita: Sometimes I feel very sad. La canzone si chiama «I Just Wasn’t Made for These Times»: anche il titolo è un pugno allo stomaco. Pet Sounds si avvia quindi alla sua naturale conclusione. Dopo questo dolce tour de force, la traccia conclusiva, «Caroline No», sembra un momento apicale – il picco febbrile in cui tutta la tensione viene finalmente scaricata. Tragicamente, devo aggiungere, visto che si rivela essere un’azzeccata ripresa del brano che apre l’album, «Wouldn’t It Be Nice»; una triste riproposizione del suo nucleo nevrotico.

La canzone è, ancora una volta, un esercizio di massima ambiguità, che esaurisce ciò che l’album è stato finora: una dolce ballata su un amore amaro, lentamente rosicchiato dal tempo e dalla banalità, consumato dalla pura inerzia. Due figure contrastanti si intrecciano contraddittoriamente: Caroline, la ragazza che Wilson amava al liceo, l’epitome di un piacere così pieno da infrangere i limiti della realtà, e l’attuale moglie di Wilson, con tutti gli inevitabili dettagli insignificanti che costellano ogni relazione, presentata qui come l’archetipo di come le cose sono realmente nella loro pallida e quotidiana tristezza. Anche il titolo stesso è un po’ come Giano: bifronte. Questa scissione inconciliabile è presente anche nelle parole che la battezzano. Lette entrambe ad alta voce, suonano come «Caroline No», un lamento di profondo malcontento e rifiuto per come stanno le cose, e «Carol, I know», in cui si respira tutta la rassegnazione di chi deve vivere in un mondo che non sente come casa propria. Niente viene risolto e siamo lasciati in mezzo all’impossibilità di vivere davvero secondo i nostri bisogni e desideri, lontano da qui.

Quando la canzone si spegne, non posso fare a meno di pensare che Pet Sounds suona come il miglior preludio mai registrato. Una lunga e maestosa ouverture verso qualcos’altro, qualcosa che possa effettivamente realizzare la fuga che la ossessiona. L’inizio di un atto di sparizione che poteva cominciare a compiersi solo attraverso una delle tante nascite della musica lo-fi. E visto come si svolsero le cose dopo l’uscita di Pet Sounds, direi che la mia, più che una sensazione, è la resa fedele di come Wilson stesso si sentiva riguardo al disco e agli eventi che seguirono di lì a poco.

Una volta terminato, iniziò subito a lavorare a un disco che sarebbe stato molto più grande, un progetto che avrebbe superato l’enormità del precedente. Nonostante le vendite relativamente mediocri, la casa discografica voleva di più, presentando Brian Wilson come un nuovo genio della forma più assoluta di musica pop hi-fi. Inoltre, una nuova schiera di artisti stava irrompendo sulla scena – Jimi Hendrix, i Doors, i Jefferson Airplane – minacciando di far sembrare addomesticate e superate anche le fughe psichedeliche dei Beach Boys più avventurosi. Pet Sounds doveva essere una transizione o un primo atto, anziché un punto fermo che sarebbe stato presto soppiantato dalla cultura capitalista in continua accelerazione e dalle sue controculture avversarie. Il progetto successivo, una collaborazione con il cantautore Van Dyke Parks, si sarebbe chiamato SMiLE e sarebbe stato finalmente quella fantasticheria fuori dal mondo che Pet Sounds aveva semplicemente introdotto.

Niente più ambiguità e desideri frustrati. Nessuna noia o infelicità sarebbe sopravvissuta a questa nuova pubblicazione: se la fuga era stata il grande miraggio di Pet Sounds, la sua frontiera sbiadita e il suo inconscio dolente, in SMiLE era destinata a diventare una realtà tangibile. La vera realtà. Vita e musica unite in qualcosa di più grande di tutto ciò che abbiamo mai avuto. «In una scala da 1 a 10, darei a Pet Sounds un 4 e a SMiLE un 10», così la vedeva Wilson. «Più esplorazione, più avventura». Una sinfonia adolescenziale rivolta a Dio: ecco cosa voleva che fosse. Il processo di registrazione fu straziante. Wilson si era sottoposto a una sconsiderata dieta tossicologica a base di acidi e cocaina, rendendo assolutamente atroce il già complicato compito di registrare una cosa così complessa. «Noi [Brian Wilson e Van Dyke Parks] eravamo così rallentati dalle droghe che riuscivamo a scrivere solo 20 secondi alla volta» affermerà in seguito.

Oltre alle sperimentazioni chimiche, Wilson era del tutto e, probabilmente, ancor più radicalmente assorbito da un’incrollabile mania creativa, interamente posseduto da qualcosa che sfuggiva sempre più al suo controllo. Il suo studio dell’inconscio sonoro del pop, da Pet Sounds in poi, aveva prodotto risultati inaspettati, portandolo in luoghi che probabilmente non aveva mai immaginato prima. Proprio come aveva previsto Guattari nella sua analisi delle radio libere, il fatto di giocare direttamente con la macchina stessa, con l’aspetto tecnico della registrazione e della produzione di suoni, ha messo Wilson di fronte a cose piuttosto strane: una valanga di domande politiche, esistenziali ed estetiche che probabilmente aveva ignorato prima di ritirarsi in studio. Domande che sicuramente lo hanno sconvolto, scuotendolo nel profondo della sua identità di musicista all’interno dell’industria musicale. Il suo isolamento discografico lo aveva portato a contatto con suoni non ortodossi e metodi sperimentali radicali, spingendolo a voler scrivere un’opera rock simile a una sala degli specchi in cui tutte le convenzioni e le norme, sia sociali che artistiche, dovevano essere sospese e stravolte. Un giorno di dicembre, nell’edificio di fronte scoppiò un minaccioso incendio. Wilson lo prese come un cattivo presagio. Sorprendentemente, lo fu davvero. Il disco non fu mai terminato.

Dopo un po’ di tempo, a causa di molte ragioni e vicissitudini, tutte piuttosto controverse e poco chiare – dai disaccordi interni a Carl Wilson che diserta la leva militare e viene incarcerato, oltre all’uscita di Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band, un disco impossibile da superare per le orecchie di Wilson –, il progetto viene dichiarato fallito. Nel 2004, Brian Wilson pubblicò una versione rivisitata dell’album, Brian Wilson Presents SMiLE; nel 2010 la band pubblicò le sessioni rimanenti, ricreando un’idea di ciò che SMiLE avrebbe potuto essere. Ma nessuna di queste era il vero prodotto finito, perduto per sempre. Nel corso degli anni sono state pubblicate alcune canzoni complete di quel periodo, in particolare la perfetta e famosissima «Good Vibrations» e la gotica e inquietante «Surf’s Up». La seconda, una descrizione di ispirazione poesca delle rovine di un mondo da lasciarsi alle spalle con la sua nauseante e cieca aristocrazia, dà un assaggio di come sarebbe potuta suonare l’impresa impossibile, prima che la fuga promessa affondasse nel regno dell’avrebbe-potuto-essere, trasformandosi eternamente in un futuro incompiuto e perduto.

Ma l’industria culturale capitalista voleva ancora la sua offerta. Da vampiro qual è, non poteva accettare un «non posso» come risposta: doveva ancora risucchiare la forza vitale e l’energia pulsante di qualcosa per produrre una qualche forma di valore e di guadagno per sé, dopo tutto. I Beach Boys cercarono di rescindere anticipatamente il contratto, ma avevano l’obbligo di pubblicare un altro album che pendeva sulle loro teste. Dovevano inventarsi qualcosa. Brian Wilson decise di optare per un inaspettato piano B: creò il suo studio casalingo nell’ormai mitologica Bellagio Road di Los Angeles, richiamò il resto dei Beach Boys, lasciando andare i turnisti che aveva impiegato in precedenza per registrare i suoi portenti hi-fi, e registrò un album frastagliato e bizzarro su un registratore a otto tracce. Il tutto fu realizzato in una manciata di settimane.

L’album era crudo e spigoloso, anche nei suoi momenti più bucolici. Abbandonava completamente e bruscamente la produzione immacolata di Pet Sounds. Si chiamava Smiley Smile, un titolo allo stesso tempo euforico e minaccioso, come labbra aperte che mostrano denti lucenti. Un vero e proprio disco lo-fi. Senza dire altro su Smiley Smile, è necessario risolvere un’enorme questione preliminare: di che tipo di lo-fi si tratta? Perché Brian Wilson ha scelto di abbandonare l’hi-fi? A ben vedere, sembrerebbe soprattutto che non sia stato realizzato con l’intento consapevole di suonare nel modo in cui suona. La registrazione scadente fu un danno collaterale causato dalle circostanze, l’assedio contrattuale di un’etichetta discografica affamata. In poche parole, era lo-fi per errore. Il vero SMiLE, quello che non è mai stato e che si aggira per i corridoi di Smiley Smile, doveva essere un altro album elevato e hi-fi come Pet Sounds, giusto? In molte interviste e dichiarazioni, sia Brian Wilson che il resto dei Beach Boys hanno ribadito questa idea: se fossero stati lasciati a loro stessi, il disco avrebbe avuto un suono molto diverso.

Sono stati costretti a farlo in quel modo perché avevano poco tempo per consegnarlo. La nostra storia lo-fi inizia davvero con un errore? Mettendo da parte il potenziale rivoluzionario del fallimento, che Jack Halberstam ha ampiamente esplorato e che potrebbe essere una grande linea di argomentazione per difendere l’importanza di qualcosa come Smiley Smile – una vera e propria falla nella matrice del mainstream che inciampa nella sua strada verso il pubblico globale e non riesce a essere all’altezza delle norme estetiche del mondo capitalista – credo che ci sia un’argomentazione ancora più forte. Un’argomentazione che, banalmente, recita più o meno così: sì, Smiley Smile è stato un pretesto e le circostanze hanno costretto Brian Wilson a ricorrere al lo-fi, ma in realtà il risultato non è poi così lontano da ciò che SMiLE avrebbe dovuto essere. Non è stato affatto un fallimento o un errore!

Il sound dell’album è in qualche modo legato alla sperimentazione che Wilson portava avanti nel suo studio di registrazione, ed è stato possibile solo perché Brian era già profondamente affascinato dalle potenzialità dei suoni poveri. Le prove a sostegno di questa idea sono davvero numerose. Innanzitutto, Smiley Smile non è il primo disco dei Beach Boys che si possa definire lo-fi, o forse più precisamente proto-lo-fi.

Nel 1965, poco prima che Wilson iniziasse il suo inquietante esicasmo in studio, prendendo confidenza con paesaggi sonori radicali e con il pieno potenziale dei mezzi di produzione musicale, i Beach Boys avevano registrato un album intitolato Party!. Si trattava di un divertente piccolo album di cover, facile da ascoltare ma anche da dimenticare – a parte, ovviamente, i numerosi tormentoni che si sarebbero immediatamente incollati all’ascoltatore. L’unica caratteristica degna di nota è che fu registrato come se si trattasse di una vera e propria festa in spiaggia, con tanto di rumore di fondo, chitarre acustiche strimpellate e occasionali difetti. Prendiamo, per esempio, «Barbara Ann», il singolo più famoso del disco. Inizia con la band che strimpella senza scopo per qualche secondo e poi procede come se fosse una qualcosa di improvvisato. In sottofondo c’è gente che ride e che batte svogliatamente le mani durante il ritornello.

La canzone termina con alcune ripetizioni casuali del ritornello, condite da gente che parla e si diverte. Nei momenti pi. sorprendenti, come in «The Times Are A-Changing» o «I Should Have Known Better», Party! si potrebbe facilmente inserire nel catalogo di etichette lo-fi come la Woodsist. Naturalmente, era tutto «finto»; non c’era nessuna festa, o perlomeno nessuno ti aveva davvero invitato. Ma è chiaro che i Beach Boys erano già affascinati da ciò che i suoni poveri erano in grado di fare: potevano, per esempio, creare un senso di intimità inedito, catturare una dimensione che i dischi hi-fi non potevano nemmeno lontanamente immaginare. I suoni cheap non erano di meno in confronto alla normalità dettata dell’alta fedeltà, ma potevano facilmente essere di più. Più profondi, più meravigliosi.

Se William Burroughs una volta sosteneva che i suoni violenti e crudi di un’insurrezione suonata in mezzo alla folla potevano effettivamente crearne una, i Beach Boys capirono che ricreare i suoni grezzi di una festa in spiaggia poteva portarne una nell’intimità delle camere da letto del mondo e nelle orecchie degli ascoltatori. «Non c’è nulla di mistico in questa operazione. Gli effetti sonori di una sommossa possono produrre una vera sommossa in una situazione di sommossa. I FISCHI DELLA POLIZIA REGISTRATI ATTIRANO I POLIZIOTTI. COLPI DI PISTOLA REGISTRATI, ED ECCO CHE TIRANO FUORI LE PISTOLE» – chiacchiere di una festa registrate, ed ecco che tutti tirano fuori sandali e tavole da surf. Sotto il parquet, la spiaggia! Ci volevano solo i suoni giusti.

Non possiamo considerare questo album come il primo disco lo-fi, soprattutto per il modo in cui i suoni lo-fi vengono utilizzati – come un espediente cartoonesco –, ma la fascinazione per i suoni poveri era comunque già presente. In secondo luogo, cosa più interessante, SMiLE è sempre stato destinato a essere un disco costellato di suoni dozzinali e grezzi fin dall’inizio, anche prima che il tremendo breakdown costringesse Wilson ad abbracciare completamente il lo-fi. Sappiamo, dopo tutto, che Brian Wilson si era imbattuto in qualcosa di piuttosto radicale nei suoi esperimenti in studio, qualcosa che in SMiLE avrebbe dovuto assumere la sua forma più compiuta e completa. Ma, fino a questo momento, non abbiamo ancora specificato che cosa sia esattamente questa tecnica sperimentale, o questo insieme di suoni eterodossi destinati a sconvolgere il pop per sempre.

Semplicemente, quando Wilson ha iniziato a immaginare come avrebbe dovuto suonare il suo prossimo progetto, ha avuto una chiara intuizione su come voleva che fosse: un disco «modulare». In parole povere, per registrazione modulare intendeva indicare che l’album sarebbe stato registrato utilizzando moduli distinti, frammenti di melodie sciolte, sequenze di rumori e di altri suoni riassemblate in studio. Piuttosto che scrivere una canzone come un’unica entità coerente, voleva registrare pezzi e frammenti che si armonizzassero e contrastassero in base al tipo di atmosfera o di flusso che potevano creare insieme, avventurandosi al di fuori dei confini della classica canzone pop e imitando gli schemi che si susseguono durante un viaggio – fisico o meno.

Una sorta di album «sampladelico», un precursore degli ipnotici cut-up di gruppi folk come i Books e, pi. in generale, della musica ricca di campioni, dalla musica elettronica alla trap, che avrebbe dominato i decenni successivi. Wilson aveva già sperimentato questo stile di lavorazione del suono, ma ora voleva che prendesse il sopravvento e diventasse la sua firma sonora. Questa tecnica lo emancipava dai vincoli della struttura-canzone: poteva fare canzoni più o meno lunghe, sinfonie o frammenti, a seconda della loro natura, e poteva usare rumori non ortodossi, purché si adattassero in qualche modo.

Poteva anche registrarle in modi disparati e altrettanto eterodossi. La composizione delle sue canzoni era, in altre parole, un modo per mettere insieme suoni di qualità e suoni poveri, sperimentando vari gradi di asprezza e di lucidità, che si scontravano artificialmente l’uno con l’altro – insieme all’ukulele strimpellato a tentoni, agli strumenti più soavi e alle atmosfere più strane che era in grado di registrare. L’esempio più eclatante è quello che avrebbe dovuto essere il brano più lungo di SMiLE, «Elements», una canzone estremamente sperimentale sui quattro elementi.

La struttura di base voleva essere piuttosto bizzarra: groove contrastanti che si incastrano l’uno nell’altro e, per dare all’ascoltatore un assaggio degli elementi, una raffica di rumori, dall’ululato del vento agli schizzi d’acqua e molto altro. Per registrare la parte sul fuoco, costrinse i musicisti di sessione a presentarsi con dei caschi da pompiere in testa, in una sorta di gioco sciamanico per evocare gli spiriti del fuoco. Registrò un falò scoppiettante, riempiendo lo studio di fumo e portando il processo di registrazione ai suoi limiti. Naturalmente, l’incendio nell’edificio di fronte scoppiò proprio mentre stava registrando questo preciso pezzo. Per i superstiziosi: traete le vostre conclusioni.

Chiaramente, una registrazione modulare non equivale a un disco lo-fi, ma dimostra qualcosa di molto più interessante: ciò che ha reso grandioso e sconcertante il processo di registrazione di SMiLE è stato il tentativo di Wilson di catturare la totalità dello spettro sonoro, utilizzando suoni che la norma musicale avrebbe spesso rigettato come rifiuti. Armeggiare direttamente con la macchina ha fatto sì che Wilson sovvertisse le proprie idee su come la musica potesse suonare. Lavorare esclusivamente in studio, ossessionandosi con i tecnicismi della registrazione musicale, gli ha fatto mettere in discussione il modo in cui le cose vengono normalmente eseguite. Gli ha dato la possibilità di vedere i recinti che l’hi-fi aveva imposto alla produzione e al consumo di musica e dunque di oltrepassarli – un atto di fuga diretta attraverso una sorta di hacking sonoro. Voleva abbracciare tutto ciò che la macchina del pop poteva effettivamente produrre, profanando ciò che era ritenuto accettabile e infestando le sue canzoni con materiali vietati.

La sua analisi sonora del rovescio nascosto della musica pop lo ha condotto dritto nel regno dei suoni poveri e lo ha portato a considerarli di per sé un elemento radicale da usare ed esplorare, nonché un modo per incendiare le canzoni e liberarle dalle loro catene. Questo, naturalmente, ha aperto alla possibilità di realizzare, se necessario, un intero disco composto unicamente da suoni poveri: la possibilità di concepire un album completamente lo-fi. Queste considerazioni hanno alcune conseguenze interessanti, credo, per chiunque cerchi di cogliere il potenziale rivoluzionario della musica lo-fi: sfatano fin dall’inizio una certa immagine che ha accompagnato il lo-fi per tutta la sua esistenza e che ha in qualche modo limitato e nascosto le implicazioni radicali di questo «genere» musicale. Spesso, quando si parla di lo-fi, si può facilmente cadere nello stereotipo che lo descrive come una musica più «naturale», organica e priva di artifici. Poiché è più spoglia, si pensa, deve essere anche più immediata e ingenua.

Uno stereotipo che potrebbe calzare a pennello a Smiley Smile: un album affascinante per la sua immediatezza perché privo di quei pomposi artifici da studio. Una band che suona sul momento, senza grossi studi di registrazione in vista. Sebbene, come la maggior parte degli stereotipi, possa essere a volte vero, questo non riesce comunque a cogliere il quadro generale e la cosa veramente degna di nota da segnalare in questa sede: Smiley Smile e il lo-fi che ha seguito la sua scia è interessante perché punta esattamente nella direzione opposta. Infatti, la scoperta dei suoni lo-fi da parte di Wilson attraverso la sua ossessione per lo studio di registrazione, con la sua ricerca maniacale delle minuzie tecniche legate alla musica registrata, non è stata una coincidenza né una contraddizione: dimostra, al contrario, che la musica lo-fi non è più «naturale» di qualsiasi altro suono registrato. In realtà, è molto più artificiale, nel senso che implica un’analisi pratica dell’atto stesso della registrazione e del modo in cui questa avviene, oggi, sotto il capitalismo.

C’è una grande liberazione in una cosa registrata di merda. E chi altro avrebbe potuto scoprirlo se non qualcuno che, più di chiunque altro all’epoca, si era immerso nel vivo del processo di registrazione, trafficando con microfoni, corde e cavi?

La radicalità della musica lo-fi deriva dal fatto che, paradossalmente, essa blocca il flusso naturale della registrazione, decostruendone le pratiche e le convenzioni, e utilizzando tutti quegli elementi prima esclusi per creare qualcosa di nuovo e stranamente bello. L’unica cosa che il lo-fi sembra essere «naturalmente» è uno strumento di critica, nel senso meno pedante del termine, ma non c’è nulla di naturale nella critica. Le pratiche critiche mettono in crisi i nostri usi, costumi e abitudini più comuni facendo emergere come tutto, dal modo in cui registriamo le nostre canzoni fino all’enormità del sistema mondiale capitalista, sia temporaneo e riposi su condizioni materiali e storiche contingenti.

La critica estrania il suo oggetto per rivelare come è nato, per intensificare i punti di rottura e le vie di fuga. Quando Karl Marx, nel Capitale, si preoccupava di come un cappotto diventasse una merce di valore, non era per un feticismo masochista, ma per dimostrare come anche la più banale delle merci poggi su un substrato di processi che la rende ciò che è. O, in termini più complessi e marxiani, per dimostrare che «la forma definitiva dei rapporti economici, quale si manifesta alla superficie, nella sua esistenza reale […] differisce considerevolmente dalla intima, essenziale, ma nascosta struttura fondamentale di questi rapporti e dal concetto che ad essi corrisponde, anzi ne rappresenta addirittura il rovesciamento, l’antitesi».

La critica mostra, in altri termini, gli schemi non detti e nascosti che guidano la produzione capitalistica. Una canzone lo-fi, sovvertendo il modo in cui un suono viene normalmente prodotto nell’industria culturale capitalista, mette in discussione le condizioni e le strutture di potere che la modellano, così come le strutture intime ed essenziali. Non c’è bisogno di ulteriori messaggi o elaborazioni oltre ai suoni stessi. Il gesto di registrare qualcosa in questo modo è già un affronto estetico e un’azione politica in un senso davvero fondamentale: agisce, quasi come un parassita, sulle condizioni materiali della produzione musicale e le apre a nuove possibilità.

Il lo-fi è una forma d’arte critica non perché aderisce necessariamente a questo o a quello, ma perché mette palesemente e direttamente in discussione, deviando dall’interno i motivi e i metodi che stanno alla base del più quotidiano degli oggetti sonori: la canzone pop. C’è una grande liberazione in una cosa registrata di merda. E chi altro avrebbe potuto scoprirlo se non qualcuno che, più di chiunque altro all’epoca, si era immerso nel vivo del processo di registrazione, trafficando con microfoni, corde e cavi?

Smiley Smile non è stato un errore, ma una conseguenza più o meno imprevista dell’avere ripreso il controllo della propria musica, di aver scoperto come e in quali condizioni è stata realizzata e di aver esplorato la quantità di suoni che possono comporre una canzone pop. Il semplice fatto di registrare male qualcosa, questa peculiare forma di critica, porta immediatamente i suoi frutti sui temi concettuali e sul registro complessivo della registrazione stessa. In effetti, in Smiley Smile il tono cambia radicalmente. Non c’è più la duplicità, né la fuga da questo mondo che affliggeva Pet Sounds. Le canzoni, pur essendo chiaramente plasmate nella visione di Wilson, sono molto più bizzarre e artisticamente deformate di quelle che avevamo sentito in qualsiasi altro disco dei Beach Boys.

Le imponenti canzoni d’amore hi-fi e le frustrazioni solari che avevano riempito i lavori più riusciti di Wilson fino a quel momento non ci sono più; ora c’è solo la pura beatitudine dell’equivalente sonoro di un racconto di Lewis Carroll o Russell Hoban: sognante, fiabesco, pieno di delizie psichedeliche. è un disco utopico, nel senso che Herbert Marcuse ha dato alla parola: non come «ciò che non ha posto e non può avere posto nell’universo storico», ma come la liberazione in forma sonora di «ciò che è bloccato dal potere delle società costituite». Ci sono momenti di puro terrore e claustrofobia, assolutamente, ma fanno parte di un viaggio meraviglioso.

C’èanche un aspetto sperimentale nella struttura delle canzoni: il modo in cui incedono, inciampano o sbandano in avanti; una caratteristica che la registrazione spoglia a otto tracce porta a un livello massimo. La maggior parte dei brani suona come una canzone pop esplosa nel salotto di qualcuno. La fuga è, ancora una volta, uno dei temi principali del disco, ma gli sberleffi e i doppi sensi forzati appartengono al passato.

Il più delle volte, la fuga si presenta come compiuta, come qualcosa che è accaduto, con successo, in un certo momento – come se l’atto di registrare un album lo-fi avesse di per sé infuso un ritrovato senso di libertà e speranza nella poetica di Wilson. L’incipit della prima canzone, «Heroes and Villains», un residuo delle sessioni di SMiLE che è stato completamente rivisitato e lo-fizzato nel processo di registrazione di Smiley Smile, la dice lunga in questo senso: I’ve been in this town so long that back in the city I’ve been taken for lost and gone And unknown for a long, long time.

Siamo fuori dai confini, ora. Gli oggetti nello specchietto retrovisore possono essere più vicini di quanto sembrino, ma l’universo delle cose normali è svanito nella polvere rossa di un deserto inesplorato.

[…]

Dopo Smiley Smile, i Beach Boys pubblicarono a sorpresa un paio di altri dischi lo-fi: Wild Honey e 20/20. Purtroppo, sono entrambi poco interessanti. Canzoni pop spogliate e nulla più. Divertenti finché ci sono. A volte sono piacevoli, ma le stranezze selvagge e le grandi melodie sono completamente scomparse. Brian Wilson aveva perso il controllo sulla band e la sua vena creativa sembrava prosciugata: l’unica cosa degna di nota è il senso di stanchezza che trasuda dal gruppo. L’inquietante e straordinario escapismo rimane, ma appare come un fantasma, spettrale e distorto da altre presenze fantasmatiche molto più oscure.

Ma Brian Wilson era riuscito a fuggire, almeno una volta. Di fronte agli orrori e agli orizzonti che si chiudevano, un disco può sembrare poco, ma anche se la rivoluzione diventava sempre più difficile da concepire e la psichedelia si imbrattava di terrori orribili, il lo-fi era ancora là per restare e fare scalpore

In un giorno di primavera del 1968, Dennis Wilson fa salire a bordo due autostoppiste, Ella Jo Bailey e Patricia Krenwinkel. Diventano amici e, per un po’ di tempo, si trasferiscono nella casa di Dennis sul Sunset Boulevard con un gruppo di persone chiassose – una vera e propria setta, che ruota intorno a un carismatico trentaquattrenne di nome Charles Manson. Manson voleva diventare una star del rock’n’roll e convinse Dennis a fargli registrare alcuni demo nello studio di Brian. Il rapporto tra Dennis e Charles si deteriorò velocemente. Nessuno voleva quei demo. Manson puntò un coltello contro Wilson e Wilson, in cambio, gli rubò una canzone. Si chiamava «Cease to Exist», ma Wilson la ribattezzò «Never Learn to Love You». È apparsa su 20/20. Inizia con un drone minaccioso per poi scivolare in un’inquietante canzone d’amore che parla di come attirare qualcuno ad abbandonare le proprie resistenze e a innamorarsi.

 Per qualche motivo, il netto contrasto tra il drone e la minacciosa canzone pop mi ricorda una delle più straordinarie esploratrici dell’oscurità lo-fi, Liz Harris e il suo progetto Grouper. Una sorta di oscuro precursore delle forme più cupe che il lo-fi avrebbe assunto in seguito. Nell’agosto del 1969, Charles Manson inviò Tex Watson, Susan Atkins, Linda Kasabian e Patricia Krenwinkel in quella che era la villa di Terry Melcher a Cielo Drive, un produttore noto ai Beach Boys che aveva rifiutato i demo di Manson. Non trovarono Melcher, ma uccisero comunque altre cinque persone: Sharon Tate, Jay Sebring, Abigail Folger, Wojciech Frykowski e Steven Parent. Il sogno di una rivoluzione acida morì quella notte nella coscienza collettiva dell’Occidente, con «PIG» scritto con sangue secco sulle pareti della villa. O perlomeno iniziò a tramontare in modo irreversibile. È difficile non pensare che i Beach Boys abbiano ereditato quella morte, che abbiano portato sulle loro spalle il lutto di un tempo in cui la felicità era reale, la fuga possibile e la rivoluzione imminente. L’unico momento che avrebbe potuto portare al mondo qualcosa come Smiley Smile.

Ma Brian Wilson era riuscito a fuggire, almeno una volta. Di fronte agli orrori e agli orizzonti che si chiudevano, un disco può sembrare poco, ma anche se la rivoluzione diventava sempre più difficile da concepire e la psichedelia si imbrattava di terrori orribili, il lo-fi era ancora là per restare e fare scalpore. Era la testimonianza sonora che le cose avrebbero potuto essere diverse, e che possono ancora esserlo. I fan di Brian Wilson assemblano ancora oggi album ucronici realizzati con i suoi demo grezzi e i suoi outtake in studio, come l’ossessionante Trinidad Cassette. Sono fantasmi di una fuga che, per una frazione di secondo, è stata davvero tale; schegge di un universo in cui è durata per sempre. Il suo lo-fi scuote ancora le persone fuori dai confini della normalità. Li riporta al sogno di un mondo che poteva essere libero.