Fuga dall’umanità

L’orso M49, la necropolitica e la cura nelle ecologie più-che-umane.

Negli anni ’90 si riscontra la totale sparizione dell’orso bruno dalle Alpi centrali italiane: un vuoto in termini di biodiversità che ha condotto a un progetto di ripopolamento territoriale della specie chiamato Life Ursus. Sulla Central Park West, a New York, uno stabile in stile neoclassico domina il panorama urbano: è l’American Museum of Natural History.

Musealizzazione della natura

Il balzo che compio sul planisfero è esorbitante se pensiamo alla collocazione della storia che, tra le mie dita, tesse le fila di questo scritto: una storia che inizia nel 2019 in Val Rendena, Trentino; la storia di un orso denominato M49 e degli umani che co-abitano il suo territorio. Perché, quindi, affiancarla a quella di un Museo di storia naturale situato nell’Upper West Side di Manhattan?

Quando varcai la soglia dell’American Museum of Natural History nel 2015 non avevo letto Teddy Bear Patriarchy: Taxidermy in the Garden of Eden, detonante analisi di Donna Haraway sugli impliciti che articolano i processi di musealizzazione di quella che abbiamo imparato a chiamare natura. Gioco con la memoria con i paragrafi di Haraway alla mano, e alzo lo sguardo sopra il portone di ingresso alle sale espositive. A sovrastarlo un’iscrizione che recita Truth, Knowledge, Vision: ciò che lə spettatorə incontrerà nel susseguirsi degli spazi museali è la verità sulla natura, accessibile ai suoi occhi mediante semplice rappresentazione. 

Proseguendo nella visita la promessa di verità prende corpo nei diorami, impianti espositivi costituiti da ambientazioni a scala ridotta in cui elementi appartenenti ai regni animale e vegetale sono presentati in una ricostruzione che si dichiara il più fedele possibile all’ambiente reale. Le enormi vetrine che ospitano animali tassidermizzati a grandezza reale svelano scorci di vita “selvaggia”. Ma quale fermo immagine carpito dal continuum della vita di un animale nonumano sceglie di catturare e presentarci il curatore del museo? Le teche museali aprono lo sguardo su fotogrammi che intrappolano arbitrariamente la complessità del reale. In particolare, i diorami non colgono le relazioni tra le specie nonumane e la specie sapiens: gli animali nonumani sono esposti in sale diverse da quelle riservate alla storia evolutiva umana, come se le due traiettorie fossero estrinsecabili l’una dall’altra.

Diorama dell’American Museum of Natural History di New York.

Qualche mese fa, con la storia di M49 tra le mani, la spinta a visitare il MUSE, il Museo delle scienze della città di Trento a firma dell’archistar Renzo Piano. Ma niente diorami à la newyork, qui: gli animali tassidermizzati sono sospesi nel cavedio coperto della struttura. Dinnanzi a strategie rappresentative tanto differenti, emerge una paradossale comunanza: l’animale nonumano è abitante di uno spazio in cui la presenza dei sapiens è concessa solo in qualità di osservatori esterni, fruitori non-implicati e slegati da promiscuità compromettenti. Si tratta di una distanza piena di significato che, nella prossemica museale, si manifesta laddove osserviamo l’animale senza osservare noi stessə nel rapporto con l’alterità. Tanto gli animali sospesi nel vuoto del MUSE, quanto quelli rappresentati nei diorami, prescindono le intersecazioni tra natura e cultura, materia e discorso

Però, fuori da queste rappresentazioni, se è pur vero che le relazioni che le alterità intessono non ci implicano necessariamente, come se le loro esistenze non esistessero fuori dal rapporto con l’umano, esse ci co-implicano spesso: ratti portatori di peste in una città europea nel medioevo; specie coinvolte in rapporti totemici con gruppi nativi; elefanti montati da turisti oppure giraffe che restituiscono lo sguardo a chi le osserva e fotografa durante un safari; OncoTopo™, progettato nei laboratori della DuPont con un gene tumorale umano per sviluppare carcinomi mammari ed essere modello per studi medici a vantaggio della salute della sola specie sapiens; mucche in un rifugio con chi di umano vi condivide quello spazio; visoni appena liberati da gruppi d’azione diretta accanto allə loro alleatə umanə; topi che si nutrono della spazzatura di un ristorante; gatti intenti a intessere rapporti quotidiani con le loro parentele umane, giocando o litigando per divergenze nella co-abitazione di uno stesso spazio domestico; specie amazzoniche in relazione ai popoli indigeni. 

Proprio qui, a partire dall’osservazione di queste fattispecie, oltre la mera contemplazione di una presunta wilderness in toto priva di presenze umane, si potrebbero aprire spazi di riflessione e sperimentazione per costruire relazioni multispecie migliori in spazitempi di incontri che contano.

Prospettiva sul cavedio del MUSE di Trento.

Un orso tra biopolitica e necropolitica

Restiamo in Trentino, emblematicamente regione-casa del MUSE: questo territorio ospita la storia e la carne di un orso che il Servizio foreste e fauna della provincia di Trento, competente per la tutela e la conservazione della fauna selvatica, ha denominato con la sigla alfanumerica M49. M49 è uno dei risultati di Life Ursus, il progetto di ripopolamento degli orsi bruni nell’arco alpino centrale, finanziato con 825.000 euro dall’Unione Europea e promosso dal Parco Naturale Adamello-Brenta in collaborazione con la Provincia Autonoma di Trento e l’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica. Massimo Filippi, nel suo saggio M49. Un orso in fuga dall’umanità, ci invita a pensare a questo progetto attraverso la lente della biopolitica come potere di “far vivere”, programmare, articolare e organizzare la vita biologica in modi coerenti a programmi e piani precisi, plasmando corpi, usi e forgiando le esistenze di individui e gruppi in loro funzione

La strategia messa in atto dinanzi all’incapacità di realizzare in vivo un progetto che aveva saputo entusiasmare su carta è prevedibile: confinare a distanza di sicurezza quegli orsi che, una volta immessi nel territorio, hanno fatto gli orsi.

Pensiamo, dentro questa ratio all’evoluzione di Life Ursus: se l’orso bruno aveva progressivamente abbandonato le terre trentine, per spostarsi nella vicina Slovenia, a causa dell’antropizzazione massiccia dell’arco alpino italiano che poco si adatta alle esigenze e spazialità della specie, il desiderio di tutelare una biodiversità andata perduta – senza considerare le ragioni dello spopolamento e le possibili ripercussioni di una reintroduzione forzata in un territorio immutato – spinse enti locali e istituzioni superiori a programmare il ripristino della specie prelevando esemplari da Est. Poco dopo il suo avvio nel 1999 venne a galla tutta l’impreparazione degli organi amministrativi a prendersi cura del processo, e con essa la reiterata inosservanza dei protocolli per la presa in carico e per l’educazione alla complessa convivenza delle comunità locali con gli orsi. 

La strategia messa in atto dinanzi all’incapacità di realizzare in vivo un progetto che aveva saputo entusiasmare su carta è prevedibile: confinare a distanza di sicurezza quegli orsi che, una volta immessi nel territorio, hanno fatto gli orsi. Filosoficamente parlando, per risolvere i problemi scaturiti dalla presenza degli orsi in un territorio poco preparato al loro reinserimento si comincia, per citare ancora Filippi, una vera e propria corsa necropolitica. Il riferimento è, qui, al filosofo camerunese Achille Mbembe che nella necropolitica –intesa come sistematica esposizione alla morte di certe individualità e gruppi umani da parte di chi detiene ed esercita il potere– vede una tecnologia di governo impiegata dalle potenze occidentali sui popoli colonizzati.

In Mbembe la necropolitica non si manifesta solo nella morte biologica di alcunə, ma altresì nella violenza e nella repressione agite sui corpi e sugli spazi che questə abitano, riducendo le persone e le comunità razzializzate a uno stato di morte sociale e politica. Il rimando di Filippi alla necropolitica prevede una ricollocazione del concetto nel campo dello specismo. Dalla morte via anestetico dell’orsa Daniza nel 2014 dopo il ferimento di un raccoglitore di funghi che si appostò dietro un albero per fotografarne i piccoli, fino alle tre catture (intervallate da fughe) di M49 fino all’ultima e definitiva reclusione nel 2020 nel Centro di recupero faunistico “Al Casteller” di proprietà della Regione Trentino e gestito dalla Protezione Civile, le grammatiche necropolitiche rappresentano piuttosto bene le sorti dei plantigradi: se a Daniza è toccata la morte, a M49 tocca in sorte la declinazione topografica della necropolitica, con l’annientamento delle potenzialità vitali dell’individuo tramite la gestione e la manipolazione dello spazio che esso attraversa.

Nel caso delle popolazioni colonizzate e black cui si riferisce Mbembe gli effetti di questa spazializzazione depotenziante, depauperante e mortifera si materializzano nelle frontiere, nei centri di detenzione per persone migranti e negli spazi di segregazione; nel caso di cui ci parla Filippi lo spazio necropolitico è Casteller: pensato come ricovero per animali feriti, si trasforma in un luogo di captivazione in concomitanza al tracollo del sogno biopolitico di ripopolare le Alpi centrali con esemplari di orsi bruni senza preoccuparsi di ciò che le ecologie più-che-umane necessitano, cioè relazionalità, cura, preparazione e un certo grado di duttilità. Prestiamo attenzione a questa spazialità necropolitica e alla sua prensione sui corpi: Casteller prevede per gli orsi una zona boschiva di circa 7000 m², quando l’homerange di questa specie, cioè la porzione di territorio abitata e attraversata da un individuo nell’arco della vita, raggiunge le centinaia di km². Stop, Breathe and Think.

Antropomorfismo contro-antropocentrico

Nel testo che dedica a M49, Filippi prende fra le sue mani antispeciste l’invisibilizzazione degli orsi nei processi che muovono tra Life Ursus e la “marcia indietro” che prova a far girare all’incontrario le lancette dell’orologio della sua stessa agenda biopolitica. È qui che M49 diventa una voce, tramite le parole di Filippi: la voce dell’autore pretende senza indugio di sovrapporsi e confondersi a quella di M49, e ciò mi ha subito indotta a pensare a una sorta di ventriloquismo, inteso come tendenza tutta umana a parlare per le alterità, supponendo di avere legittimazione e il giusto bagaglio di conoscenze per farne le veci

L’antropomorfizzazione può essere antidoto alla tossicità dell’antropocentrismo, smantellando le classificazioni eccezionaliste secondo cui intenzionalità, intelligenza, capacità affettiva, linguaggio, coscienza, immaginazione sono prerogative dell’umano.

Una seconda lettura del testo, però, mi ha riportato alla mente un passaggio dellə fisicə e teoricə queer Karen Barad in La performatività queer della natura in cui gli atti di antopomorfizzazione emergono nella loro paradossale funzione di strategie anti-antropocentriche:  l’antropomorfizzazione può essere antidoto alla tossicità dell’antropocentrismo, smantellando le classificazioni eccezionaliste secondo cui intenzionalità, intelligenza, capacità affettiva, linguaggio, coscienza, immaginazione sono prerogative dell’umano. Ecco allora che antropomorfizzare i quanti, le rocce, le amebe, i funghi, gli animali nonumani diventa strategia per riconoscere alle alterità virtù e capacità troppo spesso considerate esclusiva della sola specie sapiens: e dar loro voce è certamente uno di questi tentativi anti-antropocentrici.

Non sappiamo cosa direbbe M49 se potesse comunicare a parole o se noi potessimo farci immediatamente ricettivə alle sue grammatiche e strategie comunicative, ma, se prestiamo attenzione al suo “carattere” e alle sue ripetute fughe dal Casteller, cosa ci si presenta dinnanzi se non un animale che eccede le disposizioni che qualcuno ha previsto per lui? Attraverso la voce di Filippi, M49 ci spiega che la sua vita è ricamata nel delirio prometeico di Life Ursus e che la “natura” non esiste per goderne sempre e solo a distanza di sicurezza. Questa presa di responsabilità rimanda alla fabulazione speculativa di Vinciane Despret Autobiografia di un polpo e altri racconti animali in cui l’autrice invita l’umano ad aprirsi percettivamente alle alterità per potersi avvicinare ai loro affetti, alla loro spiritualità, alla loro ansia, alla loro paura o rabbia, al loro modo di intendere ed abitare i mondi, così da poter abitare insieme al meglio quello che condividiamo.

Despret invita ad una certa plasticità per cogliere quello che le alterità hanno da “dire”: gli animali nonumani disseminano nello spazio tracce che aprono alla conoscenza dell’altrə, e per “seguirle” è importante saperle riconoscere, quindi imparare linguaggi diversi, partendo dall’abituarsi a prestare attenzione. Queste forme di sapere sono un sapere utile, impiegabile per riformulare pratiche di convivenza e coabitazione sul Pianeta, e più concretamente là dove certi umani convivono con certi animali: si tratta di saperi parziali, locali, non intercambiabili, situati tra soggettività non-universali. Anche Despret presta la sua penna alle alterità animali: esse ci invitano a riflettere proprio su come la disattenzione umana alle alterità ha fatto finire nelle pattumiere della storia molte cose preziose. Gli animali despretiani ci dicono che non abbiamo voluto comprometterci abbastanza in quelle che Haraway in When Species Meet chiama zone di contatto, spazi di compromissione, luoghi di convivenza in cui imparare a condividere e negoziare questa condivisione in maniera non-romantica, ma scrupolosa e affidabile; prossimità che aprono a forme di affettività transpecie, attentə alle tensioni e dispostə a prendere seriamente le divergenze. 

Reitroduzione di un orso nel progetto Life Ursus.

È una danza terrena tra corpi che nell’incontro materializzano quella che la teorica afrobrasiliana Denise Ferreira Da Silva chiama difference without separability, una danza nella quale ciascunə danzatorə esce inevitabilmente cambiatə con buona pace del conservazionismo, nella vicinanza o nella negoziata lontananza che emerge come risultato di compromissioni abitate responsabilmente. Questa danza –parimenti a tutte le pratiche corporee che coinvolgono il corpo, i suoi movimenti, la sua carne e le sue articolazioni in una temporalità profonda, scandita da cura e costanza– crea nuove pratiche di sé che incentivano altrettante trasformazioni intime e politiche, esercitando un corpo che abita, occupa, attraversa territori comuni in cui l’equilibrio deve essere contrattato con le alterità che lì co-abitano, spostando assi, trovando compromessi, modificandosi reciprocamente. La categoria insolita dell’addestramento è qui applicabile per comprendere che è necessario impegnarsi a imparare a co-abitare con le alterità, addestrandosi per abituarsi a nuove posture cui solo la costanza riesce ad avvezzare. 

Filippi parla per M49 addestrandosi all’ascolto dell’alterità di cui si fa portavoce: cambia registro più volte nel corso della scrittura, e se la prima parte del testo ricalca un linguaggio consono, comune, quasi forbito, tutto umano, proseguendo nel monologo di M49 la sintassi si altera, la punteggiatura infrange ogni regola fino a scomparire, i neologismi prendono il posto dell’immediatezza. Oltre il linguaggio, lungi da voler essere una mimesi impossibile, questo provare a parlare come un orso e per un orso, con artigli e ruglii, è esercizio mai finito e mai perfettamente riuscito a mettersi in contatto con mo(n)di altri. La potenza di Filippi non sta in una prosa raffinata, ma nella funzione di lavorio multispecie in cui chi scrive prova rabbia e dolore per.

Un orso che abbiamo desiderato per ripopolare le Alpi si è dimostrato essere una presenza ingombrante, per nulla coerente alla discrezione e alla fissità cui pretendiamo di ridurre i non-umani.

La prensione a mettersi in ascolto mi riporta a una questione dirimente: il piano Life Ursus prevedeva la reintroduzione degli orsi bruni sulle Alpi centrali indicando areali – ossia aree di distribuzione degli esemplari – numerosi e a tal punto diffusi e disgregati tra loro che osservandoli su una carta geografica si ha l’impressione di trovarsi dinnanzi a un arcipelago, seppur l’homerange della specie si espanda per centinaia di kilometri quadrati. Questi areali disegnati a tavolino si posizionavano dove le comunità umane lasciano spazio per la “natura incontaminata” cara al conservatorismo, quella che non si interfaccia con l’impossibilità di replicare nella materialità del mondo le spazializzazioni pensate davanti a una rappresentazione cartografica: chi ambiva alla ristorazione di una biodiversità andata perduta disponeva per gli orsi bruni piccoli frammenti di habitat, spazi non adeguati alle loro esigenze, eppure integrabili in un territorio ad altissima concentrazione antropica, dietro l’illusione di poter contenere la mobilità degli orsi fuori dallo spazio-sapiens

Prestare attenzione alle alterità, conoscerle e far contare le loro culture è antidoto contro la violenza di quello che con Haraway ne Le promesse dei mostri potremmo chiamare il sogno di un paradiso naturale sotto una campana di vetro. Le tassidermie volanti del MUSE di Trento, a due passi dal Casteller e dalle zone che M49 attraversava libero, sono rappresentazioni perfette di come Life Ursus abbia considerato l’animale nonumano un ente discreto, dai confini ben definibili, irrelato, senza attaccamento ad ambienti, dinamiche, pulsioni, mobilità: un orso che abbiamo desiderato per ripopolare le Alpi si è dimostrato essere una presenza ingombrante, per nulla coerente alla discrezione e alla fissità cui pretendiamo di ridurre i non-umani.

Le tassidermie degli animali sospesi al MUSE e M49 sono alienate dalle ecologie che li hanno informati e che essi hanno informato: sono pensati come forme di vita indipendenti dagli intrecci e dal continuismo della vita in territori comuni, ma M49 ha incontrato l’umano nel corso dei suoi spostamenti sulle montagne del Trentino, e durante questi incontri ha arrecato danni alle proprietà degli abitanti di malghe e rifugi. Seguo ancora Haraway ne Le promesse dei mostri per provare a guardare con responsabilità alla faccenda, e, in particolare, mi rifaccio alla sua idea di politica come di una politica dell’articolazione, lavoro senza fine e situato tra corpi che condividono uno spaziotempo tangibile, per far emergere nuove collettività agenti che sappiano articolare diverse, inedite e mobili compromissioni.

Per una politica dell’articolazione

Invisibilizzare le rimostranze delle comunità montane rispetto alla presenza degli orsi non è una strategia valida per perorare la causa di M49; piuttosto, trovo interessante la tensione a una politica dell’articolazione non-innocente tra bisogni, istanze e desideri degli umani e bisogni, istanze e desideri degli orsi. Questo prevede da parte dell’umano una disponibilità a sapere qualcosa dell’alterità, e a pensare al posto che si occupa nel territorio in relazione a essa. Non basta spiegare come una certa gestione di rifiuti e pascoli possa disincentivarli ad avvicinarsi alle abitazioni umane, soprattutto a partire dalla comprovata prevalenza vegetale dell’alimentazione di questa specie. E neppure che è necessario saper convivere con gli animali nonumani che attraversano un territorio, per esempio, imparando che non è sicuro né per gli stessi animali né per la propria incolumità avvicinarsi ai cuccioli di orso per fotografarli. 

La soluzione non è la dismissione dei guai, ma piuttosto un impegno a pensare modi per abitare un territorio che non prevedano l’epurazione di chi crea interferenza, ma una trasformazione della propria postura in mondi popolati anche da chi occupa spazio in modo differente.

In un passaggio cruciale di Aboliamo le prigioni? Angela Davis, interrogandosi sull’indignazione che suscitano le istanze abolizioniste a favore della liquidazione di carceri e prigioni, comprende che l’emozione della paura e il senso di impossibilità derivano da una prospettiva di stretto respiro. Abolire prigioni e carceri sembra forse impossibile se pensiamo alla loro assenza in una società che rimane immutata in tutti i suoi altri aspetti. Ma in una società libera dalle gerarchie indotte dal capitalismo, dove sfruttamento e dominio non sono più grammatiche fondamentali – cioè poste a fondamento dell’organizzazione sociale –, e in cui la ricchezza è impiegata per garantire salute e diffusione della cultura, la presunta necessità dell’istituto detentivo potrebbe venir meno, da un lato in relazione a una diminuzione dei cosiddetti crimini e reati, dall’altro in relazione a dinamiche di cura collettive capaci di farsi carico delle inevitabili controversie in modo meno coercitivo. 

Secondo Davis, le alternative al carcere e alle prigioni non riempiono un vuoto lasciato, ma sono un continuum di alternative che implicano ambiti e strutture apparentemente lontane dal ruolo occupato dalla detenzione nell’organizzazione dello spazio comune. Questa suggestione può essere applicata al caso di M49. La presenza di animali come l’orso in territori abitati dall’umano non è a priori priva di complicanze: affermazioni quali “gli orsi abitano queste zone da prima di noi” oppure “la natura è qualcosa da preservarsi a tutti i costi” non tengono testa alla sfida in gioco. La vicenda di M49 ci obbliga a interrogarci più ampiamente sulla presunzione antropica di poter disporre delle alterità, tenendo conto che la “natura” non è una cosa fissa e stabile, e che l’umano non ne è estrinseco – seppur, previa un complicato gioco di astrazioni e divincolamenti, vi si erga violentemente a padrone.

La soluzione non è la dismissione dei guai, ma piuttosto un impegno a pensare modi per abitare un territorio che non prevedano l’epurazione di chi crea interferenza, ma una trasformazione della propria postura in mondi popolati anche da chi occupa spazio in modo differente, a partire da una profonda ricostruzione del modo di pensare le alterità: cercare un continuum di alternative al presente delle relazioni tra umanə e nonumanə è la sfida che richiede tempo, abitudine, allenamento. I termini con cui impostare una nuova sfida mi sono offerti dalla lettura congiunta di Filippi e della filosofa femminista María Puig de la Bellacasa con Matters of Care. Da lei prendo in prestito la nozione di neglected things come realtà trascurate, dimenticate, ignorate, abbandonate a vari gradi e varie forme di incuria; e altresì attingo dalla sua preziosa filosofia politica per mettere sul tavolo quella di matters of care intesa come insieme delle emergenze differenziali della materia che diventano vera e propria materia di cura, riferimento di attenzioni e pensieri che fanno contare e agiscono di conseguenza.

Scarti contro l’obsolescenza

Abbandono momentaneamente M49 per dare spazio a un tropos della letteratura giapponese contemporanea: quello dell’obsolescenza delle creature cyborg. Miliare è, qui, il dialogo tra una ricercatrice e un poliziotto nel film d’animazione del 2004 Ghost in The Shell 2: Innocence di Mamoru Oshii. In un mondo abitato da cyborg e sapiens, una squadra investiga su omicidi perpetuati da alcune ginoidi commerciate come strumenti sessuali. La biotecnologa interpellata come consulente nel corso delle indagini è una tale Signorina Haraway, la quale dichiara che «negli ultimi anni i problemi provocati dai robot sono aumentati a dismisura, specialmente tra i modelli da compagnia», e, alla richiesta di ulteriori spiegazioni per questa situazione la sua risposta è:

“Contaminazione del cervello elettronico da parte di microbi e virus, errori umani di produzione, difetti funzionali da troppa usura…c’è una vasta scelta, ma secondo me il motivo è che quando sono in sovrannumero, gli umani rottamano i loro robot, li sostituiscono con modelli più nuovi, e a volte alcuni dei robot abbandonati si smarriscono e degenerano per mancanza di manutenzione. Forse è una protesta verso la loro stessa obsolescenza!”

 Donna Haraway in Ghost in The Shell.

Il cammeo di Donna Haraway mi torna forte alla mente poche sere fa, di fronte al classico del cyberpunk giapponese 964 Pinocchio del 1991, firmato Shozin Fukui. La disturbante storia gira attorno alla vicenda di un altro cyborg sessuale, Pinocchio, gettato in strada a causa di malfunzionamenti: di colpo immerso nel marasma della vita urbana, Pinocchio non ha strumenti e chiavi per stare al mondo, e vi ci si muove in maniera grottesca. Le ginoidi di Ghost in The Shell e Pinocchio condividono moltissimo: sono prodotti di industrie biotech, e dunque sono il risultato di progetti umani, sono abbandonatə dai loro padroni poiché divenutə inadeguatə ai loro scopi, sono sostituitə da modelli all’avanguardia e in grado di soddisfare le richieste dei clienti, ma soprattutto non hanno un mondo proprio. Ma come possono storie tanto distanti, provenienti dal mondo nipponico high-tech e dalle sue problematizzazioni letterarie, risuonare con la vicenda di M49?

Che fare di esseri ed esistenti a cui ci siamo legatə, e che non assolvono le funzioni per cui sono stati fattə entrare nel nostro mondo? 

Anche M49 è il risultato di un progetto biopolitico a firma anthropos. Anche M49 non ha un mondo proprio: è dapprima immerso in uno spazio che la sua specie aveva abbandonato, spostandosi verso le meno antropizzate alpi slovene, e successivamente si vede rinchiuso nell’angustia del Casteller per il troppo disturbo recato a quella spessa specie che ne aveva voluto e progettato il ripopolamento nelle proprie terre per la salvaguardia di una biodiversità che suona piuttosto come un fallimentare tentativo di bio-assimilazione. Quello che accomuna i personaggi della cinematografia giapponese e M49 è l’incuria da parte di quell’umano che li ha voluti e se ne disfa senza presa di responsabilità. Che fare di esseri ed esistenti a cui ci siamo legatə, e che non assolvono le funzioni per cui sono stati fattə entrare nel nostro mondo? Cyborg obsolescenti e M49 condividono, per dirla con le parole di Puig de la Bellacasa, lo statuo di neglected things, cose neglette, scarti, residui. Sono presenze ingombranti: cyborg non più in grado di adempiete al loro scopo, eppur ancora materialmente presenti; un orso che, lungi dal presenziare su un territorio come cifra di una diversità del vivente docile e statica, ha abitato come un orso il territorio che gli era stato assegnato, e ora è stanziato in un recinto perché là fuori non c’è più ragione (antropica) per cui dovrebbe stare.

Nella prima parte di questo articolo, ho rivolto una critica verso le biopolitiche che fanno dell’umano il padrone della casa-mondo; in chiusura, la domanda che mi preme è: che cosa fare di quello che abbiamo creato, prodotto, posizionato nel mondo comune e che non serve più, o ha disatteso le aspettative? Al di là delle critiche all’attitudine prometeica dell’umano a fare le alterità e collocarle sugli scacchieri del mondo antropocentrico, il punto è porsi anche il problema di come comportarsi con tutte quelle che hanno smesso di servirci. Che siano scarti veri e propri (come il residuo di attività nucleari), o scarti prodotti da una precisa strategia (come le tecnologie obsolescenti e gli animali nonumani pensati per scopi antropici a cui, tuttavia, la loro agentività non ha reso piegabili), essi contano, che ce ne prendiamo cura oppure no. 

Che relazione, dunque, per che mondo? Ancora è Puig de la Bellacasa ad aiutarci a mettere nero su bianco che l’abbandono, ossia l’assenza biocida di cura, ne rivela l’importanza, e, infatti, quando la cura è sospesa esperiamo le conseguenze della sua mancanza. Ai tempi della crisi socio-ambientale, cura è manutenzione della rete di relazioni che informano il mondo: ciò apre la strada a una visione della nostra esistenza come un intreccio di materia, azioni, conoscenze, interscambi e influenze. Il libro di Filippi in cui M49 prende voce mi spinge a pensare con la sua potenza oltre il testo, usandolo come strumento per rivendicare spazio, peso e agentività per il nonumano, oltre ogni romanticizzazione, nelle maglie di un mondo che condividiamo, per poterlo almeno un po’ guarire a partire da un impegno a pensare e agire differentemente. Allenandoci ad abitare le ecologie più-che-umane per disporre le comunità e i singoli a compromissioni oltre il regno e la specie, «infrangendo le museali vetrine commerciali dove gli altri sono stati esposti con suprema violenza umaniforme» per creare mondi in cui le alterità, anche quelle di “scarto”, contano.

Elisa Bosisio è attivista e dottoranda in filosofia politica. Sta bene soprattutto in alta quota dove non ci si può dimenticare di respirare. Con Angela Balzano e Ilaria Santoemma ha co-curato l’antologia Conchiglie, pinguini e staminali. Verso futuri transpecie, edita da DeriveApprodi.