Folk Horror Topofobia

Da The Wicker Man a La pelle di Satana, da Prigionieri delle pietre a Penda’s Fen: quando il paesaggio è la soglia del perturbante

Pubblichiamo un estratto da Antropocene Horror. Mostri, virus e mutazioni: il cinema dell’orrore nell’era della crisi climatica, il nuovo libro di Fabio Malagnini appena pubblicato da Odoya, ringraziando l’editore per la disponibilità.

Davanti all’Isola di Man, a poche miglia dal villaggio di Whithorn, in Scozia, l’aspra scogliera di Burrowhead si affaccia sul Solway Firth, la lunga insenatura sabbiosa, punteggiata da basse colline e insediamenti rurali, che separa a nord la contea inglese di Cumbria dal distretto scozzese di Dumfries Galloway. All’interno dell’area dove si trova oggi il Burrowhead Holiday Village, un parco vacanze per caravan e roulotte, percorrendo il sentiero lungo la scogliera e visibile un basamento di cemento da cui sporgono due ceppi di legno. Fino al 2006 i ceppi, poi trafugati da un turista in cerca di souvenir, raggiungevano un paio di metri in altezza e risultavano essere (più o meno riconoscibilmente) i resti bruciacchiati di due enormi gambe di legno.

Sulla base di cemento si possono ancora leggere scolpite le lettere “WM” e “1972”. Se ancora ci fossero dubbi: quell’anno, in questo punto, è stato eretto il Wicker Man, l’uomo di vimini che dà il nome a un film destinato a cambiare la storia del cinema horror moderno. Per la verità, si tratta solo del più piccolo dei due pupazzoni di legno realizzati per il set, ossia quello alto circa 4,5 metri utilizzato per le riprese ravvicinate. L’altro Wicker Man (10 metri per 5 di diametro) è stato infatti interamente divorato dalle fiamme come vediamo nella scena finale del film.  […]

In The Wicker Man il sergente Neil Howie (Edward Woodward) è un rigido ufficiale di polizia identificato dalle prime inquadrature come un fervente bigotto. In seguito a una segnalazione anonima si reca su una remota isola delle Ebridi scozzesi, Summerisle, alla ricerca di un’adolescente che crede scomparsa, scontrandosi con il tipico “muro di gomma” della comunità rurale. Ben presto si accorge che la religione dell’isola non è quella biblica, che gli isolani disprezzano, ma quella degli “antichi dei” precristiani della fertilità, impartita anche ai bambini a scuola e in particolare di “Nuada”, il dio sole. Mentre prosegue le sue indagini fa conoscenza delle usanze locali, scoprendo a ogni angolo emblemi fallici, impudichi rituali neopagani e scene di libero amore open air

A capo del villaggio c’e Lord Summerisle (Christopher Lee), il proprietario dell’isola, convinto fautore del culto che la sua famiglia ha reintrodotto un secolo prima. Intanto la festa del raccolto, dopo un anno disastroso alle spalle, è alle porte e Howie scopre che la ragazza scomparsa è stata Regina di maggio l’anno precedente. Dapprima la crede uccisa, poi si convince che sarà sacrificata il giorno dopo durante la cerimonia, non rendendosi conto che in realtà il prescelto – cioè il fool, il Punch, il “Re per un giorno” della tradizione – sarà invece lui stesso, un “adulto adeguato” in quanto ancora vergine. 

The Wicker Man è un film unico nel suo genere ed è anche un quasi musical, accompagnato per metà delle scene dalle ballate di sapore folk, composte da Paul Giovanni, autore della colonna sonora, con testi allusivi ai cicli della natura e alle gioie del sesso. Per altri versi può essere considerato un antesignano dell’horror elevated e autoriale degli anni Duemila: niente sangue, niente scene di violenza, solo la sottile atmosfera di suspense che pervade ogni attimo del film, propagata dalla realtà “capovolta” e sempre più perturbante di Summerisle, a mano a mano che il cerchio si stringe attorno a Howie.

Il paesaggio ha un ruolo da protagonista in Wicker Man e in generale nei film del cosiddetto folk horror britannico del suo tempo. Nella versione theatrical per le sale, fronteggia dalla prima inquadratura l’idrovolante di Howie che plana su Summerisle. È un paesaggio collinare e agricolo, addomesticato dalla mano umana, che si presenta alla luce del sole, non nelle notti di luna piena, solare come la deità celebrata dai nativi. Un paesaggio all’apparenza pacificato che rivela solo nel tempo il suo carattere perturbante e, alla fine, sembra sospingere i personaggi verso il loro destino rituale come un villain vero e proprio.

Il suolo di Summerisle non è semplicemente quello che sembra. La sua natura è doppia, sotto al manto erboso c’è il sottosuolo non visibile al forestiero o al visitatore di citta. La sua persistenza attraverso il tempo e la premessa di un’identità collettiva che si reinventa nella tradizione folk e che la narrazione degli “old gods” lascia talvolta intravedere attraverso la toponomastica. Anche negli horror più mediocri, costruire una chiesa sopra un luogo di culto precristiano può scatenare la revanche di mostruose creature dal makeup approssimativo (Rawhead Rex, 1986). Questa stratificazione del suolo inglese è programmaticamente riproposta anche in un found footage recente come The Borderlands (2013) di Elliot Goldner, rappresentativo della seconda ondata di folk horror, quella degli anni Dieci del Duemila: qui non è un poliziotto bigotto ma sono addirittura tre emissari del Vaticano – il sacerdote in crisi, il prete razionalista e il nerd – a essere spediti nel Devonshire per investigare il presunto miracolo segnalato in una sperduta chiesetta di campagna. Se in fase uno l’approccio hi-tech della Chiesa ufficiale ha facilmente la meglio sulle fantasie del povero curato, in fase due il sottosuolo si scoperchia per poi rivelare il suo “vero” volto, tellurico e millenario, in un labirinto di stanze rituali e sacrifici umani che si richiude come un sarcofago sugli intrusi vaticani.

A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta il suolo e più in particolare i paesaggi inglesi si affermano dentro al palinsesto di BBC come primari dispositivi narrativi nelle fiction ispirate al mistery e all’horror popolare, tratte dai racconti di Dickens o di M.R. James. Serie televisive young adult come The Owl Service (1969-1970) o Prigionieri delle pietre (Children of the Stones, 1977) o gli short movies di A Ghost Story for Christmas (1971-1978) concorrono alla riscoperta del racconto folklorico e fantastico di almeno tre generazioni di inglesi con “il sostegno entusiasta di persone di ogni ceto sociale – da astronauti e cosmologi alle casalinghe e agli spazzini”. Il folk catodico e i brividi adolescenziali sotto il piumone evocano i vecchi racconti davanti al caminetto in una rivisitazione collettiva che intreccia le antiche leggende con i plot di nuovi autori fantastici: il mito dell’origine incontra le prime ansie ecologiste sullo sfondo di un’identità nazionale percepita come ormai vecchia e problematica.

Questo “folklore televisivo” è oggi, a sua volta, studiato come cultura popolare o come sua “ostensione mediatica”, prescindendo dall’ossessione della purezza e delle origini, nonché dall’effettiva corrispondenza con il primitivo folklore tradizionale, rurale eccetera. Secondo Diane A. Rodgers l’azione ostensiva, cioè rappresentativa, descrive “un comportamento basato su, o influenzato da, folklore e leggenda: i racconti leggendari sono quelli che, anche se non letteralmente veri, hanno la possibilità di esserlo. Questo comportamento, a sua volta, può creare o perpetuare il folklore. L’azione o il comportamento ostensivo, quindi, si basa su un racconto. Il racconto, presentato in azione, diventa così realtà, poiché l’azione e la credenza si influenzano a vicenda”.

Nella Gran Bretagna degli anni Settanta, il mito del suolo e dell’eccezione neopagana si sovrappone alla cronaca inverosimile dei giornali popolari. La “fine della storia” (imperiale) inglese trova nell’immaginario folk horror le sue chiavi critiche e favorisce la sospensione dell’incredulità in tacito accordo con lo spettatore. Ritroviamo questo “patto” collettivo in alcune memorabili fiction prodotte da Play for Today (1970-1984), un’antologia televisiva succeduta al precedente The Wednesday Play che terrà banco ancora fino alla metà degli anni Ottanta, a cui hanno contribuito nel tempo scrittori come Ian McEwan o John Osborne e registi come Stephen Frears, Ken Loach, Lindsay Anderson, Mike Leigh. Benché l’idea dei due produttori, Graeme MacDonald e Irene Shubik, si ispiri soprattutto al realismo sociale e all’indagine della realtà inglese, il programma contribuirà anche a rendere popolare il filone mistery e horror britannico.

In Penda’s Fen (1974), scritto da David Rudkin e diretto da Alan Clarke, è ad esempio attraverso la toponomastica che l’adolescente Stephen vagando per le campagne del Worcestershire collega il nome del paesino di Pinvin, dove vive, al mitico re Penda degli Anglo-Sassoni che, al termine della sua erratica ricerca, gli apparirà in persona per invitarlo ad accettare la propria sessualità queer e a disertare una società bigotta e oppressiva. Il film oppone chiaramente i valori libertari “pagani”, tacitamente condivisi da tutti i paesani e dal padre pastore anglicano, e materialmente richiamati dalla “autenticità” del paesaggio, ai rigidi dettami della società britannica, coloniale e tradizionalista, a cui in un primo momento Stephen si era affidato. Penda’s Fen, che accentua la quota esoterica cooptando bizzarramente la figura del compositore Edward Elgar e un’interpretazione decisamente enigmatica del suo lavoro orchestrale più noto, The Dream of Gerontius, si accoda in realtà a una narrazione comune che, attraverso il protagonismo del paesaggio e della “natura”, associa il folklore dei “vecchi dei” ai valori della controcultura (1968- 1973) del suo tempo.

Niente di strano, quindi, se i sabba e i riti iniziatici che troviamo in Satana in corpo (Cry of the Banshee, 1970, Gordon Hessler), La pelle di Satana (The Blood on Satan’s Claw, 1971, Piers Haggard) e nello stesso The Wicker Man possono ricordare una versione nudista e low budget di Hair. Il paesaggio della campagna inglese e, in generale, la chiave immaginativa per introdurre un mondo alternativo, nascosto sotto la coltre dei secoli, che la terra spurga attraverso i suoi reperti, espulsi come capsule temporali. Come i frammenti archeologici che in Robin Redbreast (1970) Norah (Anna Cropper) scopre nel giardino di casa, prima di associare un passato inquietante alla minacciosa ospitalità dei paesani. O come il teschio interrato con un occhio verminoso ancora intatto e una peluria malaugurante che il contadino trova all’inizio di La pelle di Satana durante l’aratura. Il paesaggio negli horror popolari e un doppiofondo sinistro che presenzia, da una prospettiva invisibile, alla nostra quotidianità di moderni. Siamo in sua balia perché, a differenza delle “comunità devianti” dei folk horror, siamo inconsapevoli delle interazioni umane e non umane che hanno contribuito a definirlo nel tempo e, quindi, incapaci di decodificarlo come costruzione sociale, veicolo di mitologia o di preistoria.

Red Shift (1978) di John Mackenzie, di nuovo prodotto da Play for Today – adattamento del romanzo di Alan Garner, erede a buon titolo della tradizione gotica inglese di M.R. James –, pone anche più chiaramente il tema del tempo mitico. La storia si svolge attraverso i tre piani temporali che più spesso ritroviamo nelle ambientazioni del folk horror inglese: tre giovani coppie vivono, rispettivamente, nell’epoca precristiana, durante la guerra civile e nel presente cinematografico fine anni Settanta. Il solo termine comune tra loro è rappresentato da un oggetto neolitico – la stessa ascia votiva che assume un significato simbolico per i protagonisti – e dal luogo in cui si svolge l’azione drammatica, una località del Cheshire di cui riconosciamo, attraverso i secoli, le pietre e le inclinazioni del paesaggio. Il film, montato in parallelo in una successione di stacchi e controcampi ravvicinati tra le tre linee temporali, le fa interagire sul piano dinamico della grammatica cinematografica senza lasciare emergere un intreccio comune. 

Come osserva Mark Fisher in relazione al romanzo: “Ciò che Red Shift rivela non è, chiaramente, una temporalità lineare, dove diversi episodi storici si succedono semplicemente uno dopo l’altro. Né il romanzo presenta gli episodi secondo un puro e semplice rapporto di giustapposizione, privo di ogni connessione causale tra le parti che appaiono legate tra loro solo da alcune somiglianze. E nemmeno vediamo all’opera l’idea – ormai familiare nelle convenzioni fantasy e fantascientifiche – di una casualità che opera ‘all’indietro’ e ‘in avanti’ nel tempo, facendo in modo che passato presente e futuro si influenzino a vicenda”.

Niente sembra infatti veramente collegarli, anche quando un dettaglio per un attimo potrebbe suggerire il contrario. Il tempo mitico emerge quindi dal non umano e dal paesaggio, in grado di raccontare storie come se il tempo lineare della nostra esperienza non fosse esistito. Come la terra che Ben Wheatley mette al centro de I disertori – A Field in England (A Field in England, 2013), molti anni dopo, pronta a negare tesori nascosti ma al contempo a offrire funghi allucinogeni ai disertori in fuga dalla guerra civile: il paesaggio non è solo lo sfondo ma il prodotto di una storia non esclusivamente umana né puramente inorganica, persistente e sanguinaria. La sensazione che se ne ricava è “che il tempo “stesso” sia stato “traumatizzato”, al punto da fare giungere a intendere la “storia” non come una sequenza casuale di eventi, ma come una serie di agglomerati traumatici.

La sua partecipazione alle vicende umane si rivela perlopiù paurosa e inquietante, persino in una serie mistery per ragazzi come Prigionieri delle pietre: qui il potere che trasforma gli abitanti di Milbury, dove approda l’astronomo Rafael Hendrick con il figlio, in creature ebeti e apparentemente felici spegne in loro anche il desiderio di lasciare il paese. Non a caso la possessione non proviene dall’alto e dal futuro, dallo spazio o dai buchi neri, come immagina in un primo tempo lo scienziato, ma dal basso e dal passato, dal suolo e dal magnetismo new age delle pietre megalitiche disposte in un cerchio magico al centro del paese. La “tranquilla campagna inglese” si trasforma così in un placido luogo del terrore. A questo riguardo James Thurgill descrive come “topofobia” il sentimento di spaesamento e di inquietudine indotto dal paesaggio degli horror popolari inglesi:

“La topofobia descrive in modo appropriato la paura evocata nel perturbante, esperienze minacciose e spaventose di spazi, luoghi e paesaggi che incutono orrore al pubblico, ci presenta e descrive più accuratamente il funzionamento della geografia nel sottogenere che la sola ruralità. L’orrore popolare articola i paesaggi come siti di paura coprodotti, che richiedono specifiche forme di intervento umano e di venerazione attraverso le quali manifesta il terrore. L’agency offerta al paesaggio nel contesto dell’orrore popolare non è ne chiaramente naturale né del tutto ultraterrena.”

 Il paesaggio e anche il primo anello della cosiddetta folk horror chain – la catena dei dispositivi narrativi che definirebbe l’horror popolare come sottogenere – secondo il filmmaker e ricercatore inglese Adam Scovell. Nel suo saggio Folk Horror Hours Dreadful and Things Strange del 2017,  Scovell prova a fare chiarezza su un filone cinematografico riapparso a sorpresa dopo quarant’anni grazie a film come Eden Lake (2008, James Watkins), Wake Wood (2009, David Keating) o alla trilogia di Ben Wheatley (Kill List, 2011; Killer in viaggio, 2012; I disertori A Field in England, 2013), e che da allora non accenna a venir meno. Il termine stesso, “folk horror”, entra nella conversazione solo nel 2010, in un documentario in tre parti della BBC, A History of Horror with Mark Gatiss, un viaggio alle origini dei cliché gotici inglesi condotto dal popolare attore britannico. Durante la seconda puntata, Gatiss, archiviato il capitolo Hammer, annuncia che “c’è poi un gruppo di film che potremmo definire folk horror“. Piers Haggard, regista di La pelle di Satana, un classico horror degli anni Settanta, intervistato dall’attore, subito concorda con lui: “suppongo che quello che stavo cercando di fare fosse un film horror popolare”. 

In verità quarant’anni prima, commentando il film di Haggard, lo scrittore Rod Cooper lo aveva già definito su Kine Weekly (un settimanale popolare di cinema) uno “studio sul folk horror“. Il termine, nato in tv e nei pulp media, viene oggi ripreso in ambito accademico dai cultural studies. L’obiettivo di Scovell e di altri ricercatori e di evitare che un’etichetta intrigante ma vaga come folk horror venga applicata a caso, per qualsiasi soggetto genericamente ispirato a motivi folklorici, “autentici” o inventati che siano. Il suo modello non è l’unico in circolazione, né del tutto esente da critiche, ma è quello oggi piu spesso utilizzato. Per costruirlo riparte da tre horror di culto apparsi a cavallo tra gli anni Sessanta e i Settanta, oggi ormai noti come l’“empia trinità del folk horror”. All’interno di questa triangolazione, la scelta dei film permette di descrivere un perimetro abbastanza ampio di opzioni narrative utilizzate in questo sottogenere. 

Il primo è The Wicker Man, l’unico dei tre horror declinato al tempo presente dello spettatore. Il secondo è Il grande inquisitore (Witchfinder General, 1968) di Michael Reeves, un “western inglese” a basso budget, basato sulla figura storica di Matthew Hopkins, sadico e prezzolato “cacciatore di streghe” al tempo di Cromwell, e del suo braccio destro, John Stearne (Robert Russell). Per il ruolo di Hopkins, inizialmente pensato per il giovane Donald Pleasence, la produzione AIP impose alla fine un veterano come Vincent Price. Per passare il visto di censura della British Board of Film Censors (BBFC), la sceneggiatura fu riscritta più volte da Reeves e da Tom Baker, con un completo stravolgimento del finale (che inizialmente prevedeva tra l’altro la macabra esecuzione di Hopkins). Un censore la definì comunque “uno studio sul sadismo che indugia amorevolmente su ogni dettaglio di crudeltà e sofferenza”. Malgrado i tagli, l’uscita del film indignò la stampa inglese che non gradì affatto la rappresentazione truculenta del sanguinoso passato britannico. Lapidario il Sunday Times:  “L’impiccagione, il rogo, lo stupro, le urla del xvii secolo e Vincent Price come sorvegliante delle torture d’Inghilterra. Particolarmente nauseante”.

L’ultimo della trilogia è La pelle di Satana, un horror soprannaturale ambientato nell’Inghilterra del primo Settecento, prodotto come altri film sulla scia del successo de Il grande inquisitore. Piu compiacente verso la morale dominante rispetto alle altre due pellicole, blandisce in parte la diffidenza degli adulti verso le controculture giovanili: qui i buoni stanno dalla parte della legge e dell’ordine costituito mentre Satana gioca nell’altra squadra, quella degli hippie. Cosi, agli albori dell’Illuminismo, il Giudice (Patrick Wymark), inizialmente scettico sull’esistenza della stregoneria, si trova ad affrontare una banda di teenager satanisti che evoca Behemoth minacciando l’ingenua e indifesa comunità rurale. Dietro all’intonazione moraleggiante il film presenta, rispetto al “materialismo horror” di Reeves, i tropoi riconoscibili della ruralità perturbante e della “comunità infestata” in un contesto chiaramente magico e rituale.

Da questa trilogia, Scovell ha ricavato i quattro anelli della sua folk horror chain, ovvero i quattro  passaggi trasformativi che configurano un quadro narrativo riconoscibile ma al tempo stesso flessibile e inclusivo di altri motivi e dispositivi, senza quindi asserire la rigidità di un canone costituito a tavolino. Gli anelli si presenterebbero in quest’ordine:

Paesaggio. Non inteso semplicemente come il set dove si svolge l’azione drammatica, è piuttosto la premessa dell’azione drammatica, “essenzialmente il primo anello dove gli elementi all’interno della  sua topografia producono effetti avversi sull’identità morale e sociale dei suoi abitanti”.

Isolamento. È la condizione che il paesaggio produce sulla comunità, che risulta separata dal resto del mondo e, in un certo senso, bandita “non a causa di un esilio come quello del ‘Clan di Caino’ ma in seguito all’adempimento di circostanze, situazioni e del paesaggio stesso”. L’isolamento della comunità e dei suoi membri produce quindi…

Credenze. Un sistema di credenze e una moralità deviate. All’isolamento fisico corrisponde infatti quello psichico, radicato in una prospettiva “che abbraccia folklore, superstizione e in qualche misura religione”. Il contesto del folk horror si stabilizza lontano da occhi indiscreti, che si tratti di “un’isola della Scozia affacciata sulla corrente del Golfo, un villaggio in East Anglia abbastanza sfortunato da restare tagliato fuori dal progresso o persino una stazione del metro di Londra, ancorché dimenticata dalla frenetica società al di sopra del livello stradale”. Ciò conduce presto o tardi al quarto e ultimo anello della catena, e cioè…

Evento. Siamo al centro dell’azione drammatica e la gamma delle possibili situazioni è lasciata solo all’immaginazione del regista e degli sceneggiatori, il che rende questo anello forse il più debole e indefinito della catena. Se l’epilogo è, come di regola, violento, la violenza può essere, ad esempio, di natura rituale, religiosa, territoriale, agita a sua volta da un attore umano, soprannaturale, indeterminato eccetera.