Feticismo della carne elettronica 

Pelle, collari, uniformi, chemsex e darkroom. Benvenutə nella “pornocultura”: dove clubbing, musica, arte e tecnologia incontrano le nostre pulsioni più devianti e nascoste.

Rimember/dismember: interstizi, suture, aperture della tecnopornologia

È nell’eccedenza della carne e delle sue visioni fameliche che s’ingenera l’immaginario porno, producendo un corpo paradossale, il cui desiderio, tuttavia, è sempre tinto da uno stato di grazia, la pornograzia, dove la carne è ovunque, tremula e in attesa. A partire dalla normalizzazione del feticismo in quanto estetica vestimentaria che ha avuto luogo intorno agli anni Ottanta del Novecento occidentale, attraverso linguaggi quali il videoclip musicale, la moda e alcuni luoghi culturali come i club di musica dance ed elettronica, si è giunti all’attuale fase di pornocultura

Chiamiamo pornocultura un paradigma interpretativo del nostro tempo, un asse simbolico ed estetico, nonché una sensibilità diffusa che, a partire dalla fine degli anni Novanta e in seguito con l’avvento dei free tubes basati sullo user generated content nei primi Duemila (Youporn, Pornhub, XHamster, XNXX ecc.), ha radicalmente sovvertito quello che prima era un settore di nicchia dell’offerta mediatica, il cinema porno in primis, rendendolo di fatto il paesaggio comune dentro cui galleggiamo e navighiamo dentro e fuori l’Internet. In tal senso quanto è comunemente definito “pornografia”, per via di quell’accento imperativo affidato alla scrittura sul e del porno – che indubbiamente ha determinato uno slancio oltraggioso, irriverente, ingiurioso, parodistico e scandaloso nei secoli passati e più intensamente nel Novecento grazie alla diffusione di fotografia e cinema, contro le imposizioni morali, religiose e sociali – non restituisce (e non poteva restituire), tuttavia, in alcun modo l’espressione di alterità assoluta del desiderio e del piacere, le cui imprevedibili declinazioni esondano inevitabilmente dall’orientamento tradizionale dello sguardo pornografico che è stato in prevalenza se non esclusivamente male oriented

Mustafa Sabbagh, Onore al Nero, Untitled (2014)

L’avvento di forme avanzate di interconnessione tra gli individui, i gruppi e le community, ha reso il web un luogo affollato di contenuti pornoerotici in forma di video e fotografie amatoriali, su piattaforme social o in scambi privati, dove strati di carne elettronica si sovrappongono, dando vita ad un paesaggio sensuale e costantemente condiviso. Con pornoerotismo, infatti – un apparente ossimoro – è sfumata la distinzione dicotomica tra porno ed erotico considerato quanto queste due dimensioni condividano ed esperiscano in termini di spazio, immaginario e media, ovvero la rete. Il pornoscape è come la colonna sonora del web emerso, se non il suo ambiente di fondo. In esso è impensabile ormai eludere incontri ravvicinati hot, hard e sexy, ed è altrettanto agevole, se non perfino necessario a tratti, concedersi il piacere superfluo di creare contenuti di tal fatta e diffonderli secondo modalità sempre più semplificate (invio in DM, post, chat…). Sicché fugaci visioni ed estemporanee apparizioni di corpi desideranti irrompono dal nulla sugli schermi e sembra che ci appartengano per il tempo in cui li possediamo con gli occhi: ci richiedono di appartarci per essere guardate in solitudine prima che ritornino alla sequenza numerica da cui sono state generate. 

Sono lontani i tempi in cui si cercava di capire come procurarsi materiali porno, dal momento che gli unici linguaggi a disposizione erano i giornaletti e i film a luci rosse i quali, però, proponevano contenuti di scarso interesse per un pubblico che non fosse quello maschile genericamente etero; nella condizione tecnopornologica del XXI secolo, diviene complesso, al contrario, districarsi dal porno online o evitarlo, poiché vi è una inedita continuità e contiguità tra i selfie dei profili di IG, le chat private e le piattaforme (da Onlyfans a Grindr, da Pornhub alle chat di X), sicché si finisce per scrollare liste di corpi smanianti nel web nel tentativo di approdare a contenuti che non siano sessuali. La saturazione della pornografia tradizionale ha generato una proliferazione incontrollabile di feticismi visuali, ha incrinato i rigidi confini del genere e dell’identità per slittare in uno scenario erotico sconfinato, che attinge da forme sofisticate di seduzione online e le rifrange nel quotidiano in carne ed ossa, rilanciando desideri vertiginosi di consumo e consumazione del corpo in tutte le sue declinazioni. A ben vedere sembra impossibile per le generazioni più giovani, cresciute con la possibilità di consultare Youporn – non tanto come luogo di informazione o di formazione, quanto piuttosto come punteggiatura del quotidiano, intrattenimento radicale e osceno, dove a essere in scena, sempre disponibile, è la carne – ancorarsi a messaggi politici e femministi derivati dal post-porno, o tantomeno avvertire il senso di colpa, che tuttora tormenta molte persone illuminate, circa l’inconciliabilità dei contenuti che generano eccitazione con quanto si ritiene e/o viene considerato accettabile sul piano della realtà. 

lo sdoganamento festoso di immaginari fetish, violenti, di sottomissione e di umiliazione è rinvenibile sul dance floor delle scene urbane più contemporanee segnate dall’hardtechno

Benvenute e benvenuti nella pornocultura: è infatti in atto la fase orgiastica della tecnopornologia, quella condizione accelerata dalla reclusione domestica dei tempi pandemici durante i quali sono fiorite insolite competenze nelle pratiche di sexting e video amatoriali. È difficile immaginare cosa resterà da svelare se si considera che mai prima d’ora la specie umana ha vissuto una tale pornificazione del quotidiano, consistente, per fare un esempio, in esperienze pornoerotiche non più relegate a momenti ricercati in solitudine bensì esperibili a intervalli frequenti che si aprono come finestre sugli schermi di portatili, iPad e smartphone, accanto a email professionali, ascolti musicali, chat di gruppo, quotidiani online. Se il porno sembra essere ovunque, evidentemente è vicina anche la sua sparizione in quanto linguaggio e forza modellante capace di generare forme e pratiche erotiche, poiché, in più di un senso, la sua rivoluzionaria accessibilità ne ha depotenziato il principio dirompente e trasgressivo, rendendo paradossalmente inconsistenti, se non per analisi teoriche, e privi di capacità di attrazione quei prodotti audiovisivi porno che promettevano di liberare il corpo delle donne dall’iconografia dello sfruttamento e dell’abuso, introducendo prospettive di genere e sguardi femministi. 

A chi consuma, guarda e crea contenuti porno dal basso, nel momento di raptus durante il quale alcune azioni hanno luogo, si può chiedere lucidità nella scelta delle categorie, responsabilità e coscienza di fronte a fantasie eccitanti e inconfessabili? Esistono, ad esempio, categorie bizzarre e fantasiose come quella definita #TimeStop, di matrice giapponese, che consiste in uno stratagemma tecnomagico che ferma il tempo solo per alcuni dei soggetti presenti in scena, rendendo possibile che altri ne approfittino, godendo di quei corpi momentaneamente immobilizzati e ipnotizzati, dunque disponibili. Oltre all’avanzata competenza delle attrici che devono restare nella posizione nella quale si trovano quando scatta il #TimeStop e in quella farsi molestare, va registrata un’inammissibile azione di stupro di donne inconsapevoli, sedate o drogate. Il #TimeStop, insieme ad altre aberranti e stravaganti messe in scena, narra di un espediente narrativo che dà vita a fantasie altrimenti impraticabili e che solo con una magia si rendono possibili. Inevitabile l’associazione di queste messe in scena ad hoc con quei contesti festivi in cui una dose sbagliata di G (Ghb o Gbl) può rendere una persona inconsapevole di cosa le accade e dunque vittima di violenza. In effetti, i video #TimeStop offrono trame parodistiche dovute anche alle ambientazioni: supermercati, sedi di telegiornali, scampagnate all’aperto. Il porno in questi casi è il medium che innesca narrazioni surreali come quella del romanzo di Kawabata del 1966, La casa delle belle addormentate.

“Potremmo anche scrivere sceneggiature originali di contenuti erotici e porno su noi stesse o provare qualche nuova narrazione femminista, in modo da sperimentare l’erotismo senza dover pagare il prezzo della complicità con la nostra stessa oppressione”, scrive adrienne maree brown in Pleasure Activism. E se queste sceneggiature originali fossero rinvenibili, a uno sguardo esterno, perfino alieno, a partire dallo scroll dei nostri profili social e dalla mappatura dei selfie inviati e delle foto archiviate nelle nostre cartelle nascoste, inclusi i testi di accompagnamento di certi scambi di dialogo, non constateremmo in pochi istanti di essere già parte di una nuova sexistenza, identificabile a partire dall’estetizzazione e dalla presa in carico delle innumerevoli forme del porno ma svuotate del loro carattere di sfida e di politica del piacere? Un’inconfutabile legittimazione dello sdoganamento festoso di immaginari fetish, violenti, di sottomissione e di umiliazione è rinvenibile sul dance floor delle scene urbane più contemporanee segnate dall’hardtechno. 

Club, darkroom, harness e altri parafernalia del piacere

“P*rn Games: dei contro Giochi Olimpici dedicati al piacere e al desiderio tra i ravers: cuoio, harness e techno si organizzano a Lione”, si legge sul profilo Instagram di Electronewsfr. Similmente, su Techno.Body.Music si invita il pubblico a vestirsi in pelle e catene per potersi lasciar andare liberamente in pista. Un tono meno festivo e mirato a evitare intrusi e fraintendimenti è quello adottato dal sito ufficiale di LMDV, acronimo per La Monta delle Vacche, “un gioco di ruolo per adulti gay che si richiama alla monta delle Vacche tipica delle origini contadine dei nostri antenati”, si legge in apertura alla pagina delle Regole Ufficiali, dove è possibile iscriversi ai canali Telegram e individuare data e area regionale dei nuovi eventi. Scorrendo la pagina delle regole dedicate al dress code di vacche, vitelli, tori e stallieri, si giunge al finale dove, in seguito al conferimento del titolo di Vacca Imperiale, si apre la sessione denominata “Spacca la Vacca”: “Finita la Monta la Vacca Imperiale, o la riserva, può entrare in area con accesso riservato ai soli tori che lo desiderano per una GANG a TEMPO. La gang dura 7 minuti e mezzo oppure appena la vacca dice STOP. Ovviamente il termine ‘spacca’ è puramente figurativo e non mira a far del male in alcun modo alle vacche!”. 

Decisamente meno espliciti sono i profili  sulle chat di incontri in cui si comunicano i chemsex: festini sessuali ad alto consumo di specifiche droghe – “chems” – che disinibiscono, prolungano la prestazione, ritardano l’orgasmo, rilassano e anestetizzano, rendendo così meno dolorose pratiche come il fisting. Gli account dei chemsexer sono riconoscibili da emoticon e termini in codice per non essere decifrati da chiunque; si tratta per lo più di uomini che fanno sesso con uomini, non necessariamente etero. Si comunica via chat con il dealer, che coincide con l’organizzatore dell’evento, per conoscere ora, luogo e listino prezzi delle sostanze disponibili, oppure ci si vede in casa, in contesti più festivi ma riservati, oppure ancora in talune saune. Ancor prima di concludere una sessione in un luogo, a causa degli effetti di alcune droghe, come la metanfetamina – “crystal meth” – che tiene svegli a lungo e in cerca di soddisfazione sessuale per molto tempo (da 24 ore a fino anche tre giorni), subentra l’ansia e l’urgenza di trovare subito un altro chemsex-party dove continuare a consumare corpi e sostanze. 

Mustafa Sabbagh, Onore al Nero, Untitled (2014)

Questi scenari, insieme a innumerevoli altri, non sono molto diversi, se non nei canali e nelle forme di comunicazione, da quelli di fine millennio, come ad esempio il Torture Garden. Nato a Londra nel 1990 e ormai itinerante, è considerato il primo club fetish globalmente riconosciuto per aver legittimato – sebbene con una forte carica spettacolare connessa con l’aspetto performativo delle pratiche BDSM, di body art, del burlesque, di messa in scena della tortura sadomasochistica – l’immaginario fetish connesso con la musica elettronica (electro, techno). Vi capitai la prima volta nel 2005 per un’edizione speciale: si trattava del Birthday Ball del Torture Garden e aveva luogo nel London Dungeon, quella zona di Londra di per sé gotica e che allora ospitava una sorta di parco a tema horror con citazioni di eccidi, mostri urbani, vampiri e squartatori della tradizione letteraria londinese. Fui immediatamente attratta dalla sala delle torture, poiché, senza che si trattasse di una darkroom, vi poteva entrare chiunque a curiosare tra macchine per le torture d’ogni genere e tempo, avvolte in una penombra che permetteva di vederle nitidamente; alcune erano già occupate da chi sceglieva di mettersi in mostra, ad esempio alla gogna, ostentando il corpo nudo ed esponendo le natiche, e vi erano persone in coda, in attesa di essere fustigate da partner casuali che invocavano con lamenti. In un’altra sala iniziava uno spettacolo di bondage suspended giapponese, lunghi fasci di luce bluastra e rossa irroravano gli orifizi divaricati dai tiranti e dalle corde delle donne che si trovavano molto in alto mentre il pubblico era sotto con la testa rivolta verso i loro genitali sospesi. Talune persone si accoppiavano in pista e altre in disparte, strusciandosi nei bizzarri costumi, mentre accanto si veniva affiancati da creature vestite secondo stilemi da manuale BDSM. 

Il Torture Garden aveva individuato la perfetta ibridazione tra una performance circense e spettacolare e le pratiche pornoerotiche. Nulla sembrava essere vietato né controllato, eppure vigeva un perfetto controllo di tutto. Sebbene non vi fosse niente che generasse eccitazione, eppure l’eccitazione era dappertutto e l’aria gonfia di carne desiderante. Inquadrati in questa tipologia di cornice d’intrattenimento, desiderio e piacere si sollecitano per il tramite della musica elettronica lanciata a volumi altissimi e si manifestano grazie a stili vestimentari fetish degni dello sguardo di Jean Paul Gaultier, Gareth Pugh, Dsquared2, Alexander McQueen. D’altra parte, l’interesse della moda verso il porno negli ultimi anni è divenuto clamoroso: non solo attori e attrici porno sfilano per i brand in passerella, ma in altri casi è proprio il marchio Pornhub a essere indossato.

In breve tempo, il Torture Garden divenne il punto di riferimento per la scena dance legata all’universo fetish e BDSM. Il nome derivava dalla traduzione in inglese del romanzo del 1899 di Octave Mirbeau, Le jardin des supplices. La sigla TG, divenuta poi logo, rievocava invece quella della band seminale inglese industrial, Throbbing Gristle, il cui nome in gergo significa erezione. I Throbbing Gristle si sono sempre distinti per un’estetica porno e disturbante, veicolata non solo dalla Fetish Records londinese che ristampò nel 1978 il loro primo album, ma anche dai loro live psicotici, ossessivi, morbosi, ricchi di distorsioni, performance e cantati estremi. Tutto questo immaginario ha nutrito la crowd di cui si compose sin dal principio il party inglese. 

È lì che ha luogo lo sgretolamento della fortezza in cui l’Occidente crede di poter ancora salvaguardare l’individuo. Un tale processo non può accadere in un bosco durante un rave, deve necessariamente manifestarsi in un palazzo brutalista nel cuore della metropoli

Party hard & realcore

Non da meno sono stati gli anni Novanta berlinesi, segnati da feste votate all’universo feticista e kinky che hanno traghettato l’immaginario più farsesco e cupo del pornoerotismo prussiano e nazista verso il clubbing del nuovo millennio. Non sorprende che quei dance floor siano frequentati da persone vestite come Charlotte Rampling nella macabra scena de Il portiere di notte, allorché, vittima e prigioniera, calcandosi il berretto nazista di qualche taglia più grande, sulla cui visiera fa bella mostra di sé il Totenkopf – il teschio posto su due ossa incrociate delle SS – si esibisce con le mani fasciate nei guanti neri a coprire il seno nudo e segato dalle bretelle tese che reggono un paio di calzoni più grandi di lei, nella danza farsesca e sensuale in cui sfiora i corpi ben chiusi nelle divise dei camerati ipnotizzati ed eccitati dallo spettacolo, poco prima di scoprire il sadico regalo che Max, il suo aguzzino, le ha preparato nello squallido bistrot dove lei è costretta ad esibirsi. Di questa mise esiste una citazione divenuta di culto ad opera di Siouxsie Sioux fotografata da Anton Corbjin a Kyoto nel 1981. Più che club quali il Kit Kat o party come lo Snax al Lab.oratory del Berghain, che costituiscono degli eventi speciali e dedicati a pratiche sessuali specifiche, è il  Berghain nella sua totalità ad aver reso manifesto lo iato interpretativo tra il male inteso in senso generico e vasto, inclusa la sua banalizzazione, e l’estetizzazione del malessere coincidente con l’apoteosi del piacere esplicitato essenzialmente da accessori e abiti, molti dei quali entrano a pieno titolo nel regime della pornocultura di stampo fetish. 

Nato nel 1998 con il nome di Ostgut, quello che oggi è noto come Berghain è stato il primo club etero-friendly dove si suonava la techno di fine Millennio a Berlino all’interno di uno stabile della città che celebrava il culto della catastrofe per quanto era decadente. Nel 2004, cambiata la sede, si conservò il nome Berghain frutto della crasi dei due quartieri di confine del club: Kreuz-berg e Friedrics-hain. La zona che circonda il Berghain risponde in modo didascalico a uno scenario distopico, si potrebbe anzi affermare che esso è la distopia. Tale interzona prepara chi vi si reca sin dalla stradina scalcinata in estate e ricoperta di neve sporca in inverno al rituale dell’attesa in fila prima della severa selezione all’ingresso. I corpi in coda esprimono sin da quella fase, guardandosi e studiandosi superficialmente, il desiderio di aderire, reinventandone frammenti, alla macchina desiderante della techno i cui principi sacrosanti saranno celebrati una volta superato l’ingresso. “Il Berghain apre così le porte di uno spazio Oscenico, in cui il Corpo è libero di performarsi, emancipandosi dai discorsi che lo assoggettano, libero di vivere la piega senza interrogarla […], libero di sperimentare il limite dell’abisso” scrive Salvatore Simioli in Berghain. Per un’architettura del perforante. La mutazione dei soggetti che vi fanno ingresso sembra rinnovarsi ad ogni visita al Tempio – come spesso viene identificato il club – e, al di là del bene e del male, le performance sessuali in atto per i pertugi, dentro i bagni, negli anfratti e in pista sono parte del viaggio che intraprende il genere nella sua sperimentazione del sé. 

Attualmente il Berghain sembra essersi attestato su una sorta di taylorismo sessuale che incasella e distingue stili, estetiche e pratiche, come per renderne più afferrabili i confini; cionondimeno la puissance sprigionata da una tale esperienza resa potenzialmente accessibile a chiunque si configura come rara modalità esistente per l’individuo di pensare e sentire il piacere al suo grado zero, dove qualsivoglia domanda relativa alla giustezza e legittimità di ciò che procura eccitazione e desiderio perde di senso. È lì che ha luogo lo sgretolamento della fortezza in cui l’Occidente crede di poter ancora salvaguardare l’individuo. Un tale processo non può accadere in un bosco durante un rave, deve necessariamente manifestarsi in un palazzo brutalista nel cuore della metropoli, in orari in cui un’altra parte della città è al lavoro, dopo aver pagato un biglietto, aver superato una imperscrutabile selezione e aver depositato al guardaroba ogni resto dell’habitus con cui si è entrati.

Mustafa Sabbagh, Onore al Nero, Untitled (2014)

Flashback: Fascino, fascismo, feticismo

Ascoltando Pain, Boy Harsher

L’incubatrice europea occidentale che ha covato il primo e il secondo conflitto mondiale ha anche alimentato una quantità di visioni morbose con al centro il corpo sofferente, mutilato e denudato dalla violenza delle guerre. Tra gli episodi che vanno annoverati per aver nutrito l’immaginario pornoerotico novecentesco vi è indubbiamente quello dell’Esposizione Internazionale del Surrealismo tenutasi a Parigi nel 1938 e organizzata da André Breton e Paul Éluard, per la quale Marcel Duchamp creò un allestimento con sacchi di carbone che pendevano dal soffitto gonfi sulle teste dei visitatori come grossi organi sessuali e il pavimento cosparso di foglie secche. André Masson presentò il celebre manichino di una mistress racchiusa in una gabbia per uccelli mentre dei piccoli pesci cristallizzati erano colti nell’atto di attraversare le sbarre (Testa in una gabbia e imbavagliata con un pensiero sulla bocca); altri simulacri femminili realizzati da Man Ray, Salvador Dalì, Max Ernst riempivano le sale e occupavano con un potenziale sessuale esorbitante lo spazio critico dell’Europa al tempo già invaso dalla furia nazionalsocialista. 

La stessa furia che portò in quegli anni alla distruzione delle sconvolgenti e perturbanti Puppen di Hans Bellmer – anche lui presente con una delle sue bambole all’esposizione. Bellmer, cittadino tedesco di origine polacca, aveva cercato e trovato rifugio a Parigi proprio nel 1938 dopo che le sue opere erano state censurate e bandite come arte degenerata. Disarticolate creature abnormi, acefale tranne un paio, dalle labbra vogliose e gli occhi vacui e fissi, della stessa grandezza di una donna vivente, create dall’artista per essere i suoi soggetti fotografici; espressione di una sfrenata e oscura fantasia del corpo societale di quel tempo, incapace anch’esso ormai di chiudere gli occhi dinanzi al ribollire della carne e al crepuscolo dei valori dell’umanesimo. Di poco successivo a questa prima ondata surrealista di episodi densi di frenesia sessuale vi è l’Aktionismus viennese, movimento artistico radicale degli anni Sessanta e Settanta, che inscenava visioni di panico, dove “il corpo era utilizzato sia come medium che come campo di azione (Krystufek) o come essenziale punto di riferimento (West)”. Quarti di carne uniformi, riassemblati e accatastati in performance di body art, documentati dal medium fotografico che induceva un rapporto feticistico con le immagini delle azioni catturate: scatti osceni perfetti che nel tempo hanno legittimato critiche rivolte al movimento stesso, secondo le quali vi era stato uno scivolamento dalla denuncia contro la violenza del perbenismo borghese, attraverso l’esposizione nella performance e nella body art del corpo vivo represso e martoriato, all’estetizzazione, al consumo e al culto delle immagini stesse perpetrato tramite la consumazione voyeuristica dei corpi. 

L’esperienza dell’Aktionismus viennese, con il suo carico porno-macabro financo splatter aveva anticipato gli aspetti più virulenti della cultura proto-punk: è emblematico il lavoro registico di Richard Kern, autore di The right side of my brain (1985) con Lydia Lunch, dove un erotismo corrotto domina le scene al punto che il corto fu accusato di estetiche fasciste per l’esasperante dose di sadomasochismo. Questo, insieme ad altri film contenuti in una collezione dal nome New York Underground Collection (2004), rappresenta il filone di “porno-punk-pop-art degenerata”. La carica liberatoria veicolata dai performer dell’Aktionismus, espiata sulla propria pelle, non è dissimile dall’attuale potenza che l’immaginario fetish di cui si servono talune scene urbane nel nuovo millennio è stato capace di sprigionare. Sollecitati da vetrine, pubblicità e brand che rinviano a bondage e stili sensuali molto spinti, i profili digitali accumulano selfie e scatti che attesterebbero assidue frequentazioni di club techno, hardtechno, darkroom dall’estetica BDSM, di festini privati con dress code, di camerini, palestre, spogliatoi e camerette usati per pose osé con accessori dark e gotici. È nell’internet che assistiamo alla più alta concentrazione della fenomenologia soft-fetish-porn. 


Mustafa Sabbagh, Onore al Nero, Untitled (2014)

Non è certamente il corpo seviziato e martoriato al centro delle sottili strategie di comunicazione visuale che hanno sdoganato, in circa cinquant’anni, la vulgata più commerciale del sadomasochismo poi confluita in prodotti edulcorati e di largo consumo, quali ad esempio il film intitolato Cinquanta sfumature di grigio , la vendita di manette con imbottitura pelosa zebrata nei negozi popolari di intimo, e altri elementi vestimentari che ne rievocano in lontananza la violenza. La matrice feticista che permea l’immaginario di fine Novecento e inaugura il nuovo millennio si è insinuata nel nostro quotidiano fino a integrarne le punte più radicali e atte a produrre voluttà e piacere – pensiamo alle calze a rete autoreggenti fino agli anni ’80 introvabili, allo smalto nero per donne e uomini, ai jockstrap, alle trasparenze lasciate a vista, agli harness, alle scarpe stringate e agli stivali con stiletto vertiginoso, ai copri-capezzoli di paillettes in vendita accanto alle casse di catene commerciali. 

Fascino, fascismo e feticismo, archiviati in maniera surrettizia per immagini divenute feticcio e poi accessori e capi indossabili a buon mercato, inventariate e catalogate come altro da ciò che intrinsecamente e sommessamente intendono esprimere, costituiscono un’insidiosa triade che raramente è stata messa a nudo. Da un lato i fantasmi fotografici dell’Harem Coloniale dell’Occidente, dove donne rese schiave e serve di padroni intransigenti e vogliosi, alimentavano fantasie immortalate in scatti divenuti feticci per una sessualità morbosa e dall’altro film esemplari quali Salò e le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, unitamente al coevo Il portiere di notte, hanno liberato il male traducendolo in feticismo. Quest ultimo, ostentando tratti distintivi esorbitanti (come l’asservimento di esseri umani nudi in ginocchio, le gabbie, l’umiliazione, le catene, gli accessori delle uniformi, quali berretti, bretelle, guanti di pelle), edulcora e depotenzia talmente a fondo gli aspetti lugubri e di denuncia da riuscire ad istituire un piano unicamente formale. È sulla superficie di questo piano che agisce l’attrazione per le forme, appunto, una specie di irresistibile fascino che seduce nel mentre sciorina i suoi contenuti ripugnanti. È sulla superficie di questo piano che danzano i corpi scatenati a suon di techno, avvinti da culti ancestrali, legami invisibili e sensi in estasi.