Fame cannibale

Dalle foreste pluviali ai dormitori universitari, dal cannibale alla cannibale, metamorfosi di una fame che ha sempre fatto parte di noi

Chi non si è mai chiesto: sono un mostro o è proprio questo essere una persona? 
Clarice Lispector

Hai un sapore di merda.
Raw

Nel romanzo La strada di Cormac McCarthy, un padre e un bambino camminano lungo le strade coperte di cenere in un’America post-apocalittica dove il sole ha abbandonato l’umanità e la terra è ormai inabitabile. Spinti dalla fame, dalla sete e alla ricerca di un riparo dal gelo invernale, i due spingono un carrello in direzione sud, nella speranza di raggiungere l’oceano. Arrivati nei pressi di un cartello che invita a tenersi alla larga da quel luogo, perché nei paraggi si aggirano bande di cannibali, il bambino chiede al padre: “Noi non mangeremmo mai nessuno, vero? […] Neanche se stessimo morendo di fame?”, a cui il padre risponde: “Non mangeremmo le persone, per niente al mondo. Perché noi siamo i buoni”.

La netta dicotomia tra buoni e cattivi messa in luce questo scambio di battute ne rivela, di riflesso, un’altra: in un mondo dove le risorse naturali come acqua, flora e fauna come le conoscevamo sono andate estinte o seppellite dalla cenere che cade dal cielo, tra i sopravvissuti si diventa cacciatori o prede – cannibali o cannibalizzati.

Grazie al suo considerevole potere metaforico il cannibalismo non ha mai smesso di esplorare questioni legate al colonialismo, al consumismo, al desiderio, alla corporeità e alle relazioni di potere tra classe, razza e genere.

Pubblicato nel 2006 e vincitore del Premio Pulitzer, il romanzo di McCarthy prende invero in considerazione la figura del cannibale (seppure solo obliquamente e in un contesto distopico legato alla sopravvivenza), ma è solo una delle disparate rappresentazioni esemplificative dell’evoluzione di tale figura-tabù negli ultimi decenni – si pensi che solo negli ultimi due anni hanno goduto di un certo successo prodotti cinematografici come Fresh di Mimi Cave, Bones and All di Luca Guadagnino, Dahmer – Monster di Ryan Murphy e Yellowjackets di Ashley Lyle e Bart Nickerson.

Dalla letteratura al cinema, dall’horror alla commedia nera, grazie al suo considerevole potere metaforico il cannibalismo non ha mai smesso di esplorare questioni legate al colonialismo, al consumismo, al desiderio, alla corporeità e alle relazioni di potere tra classe, razza e genere. Tuttavia, è soprattutto grazie alla sua consacrazione filmica a partire dalla seconda metà del secolo scorso che il cannibale inizia gradualmente ad assumere dei contorni specifici, e da alterità collettiva acquisisce la forma di un individuo tout court. A fronte della sua multiformità, però, vi è sempre un elemento che accomuna queste narrazioni: secondo il saggista Antonio José Navarro, autore di El banquete infame. Representaciones del canibalismo en el cine, storicamente il cannibale è quasi sempre rappresentato come un’anomalia nel cinema: che sia un’alterità, una bizzarria, o la nostra controparte primitiva e retrograda, ad unire tutte queste declinazioni sarebbe sempre la sua mostruosità agli occhi degli altri.

Mondi Cannibali

In Cannibalism in Literature and Film, Jennifer Brown enuncia tre modelli paradigmatici del cannibale nella storia cinematografica dell’antropofagia, organizzati secondo specifici criteri spaziali e temporali: il primo è quello che compare nello spazio coloniale, ossia nello scontro tra il colonizzatore e il colonizzato, con la sua illusoria opposizione tra primitività indigena e civilizzazione occidentale. In questo caso, il cannibalismo rappresenta l’esperienza condivisa di una presunta ritualità collettiva, e la sua raffigurazione trova massima espressione a partire dagli anni Settanta e proprio in Italia, grazie al genere del cannibal movie reso celebre a livello internazionale da registi come Umberto Lenzi e Ruggero Deodato. 

Il comune denominatore delle loro pellicole più note, come Il paese del sesso selvaggio (1972) e Cannibal Ferox (1981) di Lenzi e Cannibal Holocaust (1980) di Deodato, è l’ambientazione nelle giungle e foreste tropicali di Sud America, Asia e Africa e il focus sulle usanze e ritualità di gruppi indigeni, grazie all’escamotage narrativo di un gruppo di giornalisti recatisi in loco per documentarne le abitudini considerate barbariche e primitive. In questo suo approccio documentaristico, il genere era influenzato e connesso al mondo film della decade precedente, esemplificato dal Mondo Cane (1962) di Gualtiero Iacopetti, dove venivano affrontati disparati tabù dell’epoca legati al sesso e alla morte, a tradizioni estreme locali e straniere.

Cannibal Holocaust (1980)

Vale la pena sottolineare che, in questo filone, Cannibal Holocaust di Deodato è la pellicola dal contenuto più esplicitamente politico e provocatorio: nel mettere in scena attraverso l’espediente del found footage (di cui il film è precursore) le efferatezze commesse dalla crew ai danni degli animali e degli indigeni, il regista decostruisce la pretesa di civilizzazione rispecchiata dal gruppo di americani in antitesi alla popolazione locale, mentre documentano con la videocamera il proprio crescendo di sadismo e violenza meramente allo scopo di ottenere fama e riconoscimento in denaro.  

Il secondo modello si discosta notevolmente da quello coloniale, trasponendo il fenomeno in Occidente, negli Stati Uniti, e avendo per protagonista l’opposizione spaziale tra urbano e rurale, tra la classe media e quella impoverita dalla deindustrializzazione. In questo senso, il processo di disumanizzazione passa dal “cattivo selvaggio” all’hillbilly del sud, da un conflitto razziale a uno di classe. Grazie al filone dell’horror redneck o hillbilly, il terrore di un agguato o una trappola nelle foreste tropicali viene traslato nelle sterminate distese del sud e ai piedi degli Appalachi, riprendendo l’inquietudine, tipicamente statunitense, della frontiera – un locus del terrore proprio per la sua vacuità, vastità e solitudine capace di celare infinite minacce.

Da questo punto di vista, la figura dell’hillbilly incarna anche le paure classiste statunitensi: secondo lo stereotipo, egli si presenta come arretrato socialmente ed economicamente, alcolizzato, promiscuo, sporco e spesso incestuoso; abita nelle cascine di luoghi isolati o nei campi caravan, ossia infesta i margini del sogno americano, minacciandone l’integrità. Geograficamente, quindi, risiede principalmente negli squallidi e impoveriti sobborghi di Texas, Mississippi e Virginia, contrapposto alla ‘civilizzata’ America settentrionale.

È evidente che l’immagine della dimensione rurale incarnata dall’hillbilly sia lontana da una concezione positiva della vita campestre, mentre la dipinge come violenta al punto da diventare cannibale. Laddove un certo ideale di progresso capitalista è fallito, la nascita del cannibale rurale funge da disfunzionale e deforme promemoria delle sue contraddizioni e crisi: rappresenta ciò che il capitalismo non è riuscito a uccidere e che, moribondo ma ancora in vita, mette in atto la sua vendetta. I due esempi più rappresentativi di questo paradigma sono The Texas Chainsaw Massacre (1974) di Tobe Hooper e Le colline hanno gli occhi (1977) di Wes Craven.

The Texas Chainsaw Massacre (1974)

L’iconografia di questa tipologia di cannibale si lega anche all’immaginario statunitense dei serial killer. Il più rappresentativo di questo modello è Ed Gein, un contadino del Winsconsin con un gusto per il cannibalismo e la necrofilia, arrestato nel 1957 e ispiratore del genere dell’hillbilly horror, la cui fama contribuì anche alla caratterizzazione della famiglia Sawyer nel capolavoro hooperiano. In ogni caso, ad accomunare il primo e il secondo paradigma, quello delle foreste tropicali e quello delle pianure paludose del profondo sud statunitense, è l’alterizzazione del cannibale e il terrore che scatena nella coscienza collettiva. Infatti, il cannibale è un individuo che ha trasgredito i limiti: quelli della civilizzazione occidentale nel caso dei cannibali indigeni, e della civilizzazione delle grandi città settentrionali americane in quello dei cannibali rurali – un individuo che, per questa violazione, risulta irredimibile.

Infine, il terzo modello di cannibale si trova al centro del mondo contemporaneo e urbano: per questo, costituisce una minaccia domestica più insidiosa rispetto al modello rurale. A segnare una dirompente rottura con i paradigmi precedenti del cannibalismo è l’uscita, nel 1991, de Il Silenzio degli Innocenti di Jonathan Demme, con la figura del carismatico psichiatra cannibale Hannibal Lecter. Anche se nella pellicola appare in scena per soli quindici minuti, Hannibal Lecter diventa subito un fenomeno di massa: per la prima volta, viene ritratto un individuo-cannibale la cui fame è dipinta in maniera meno brutale e violenta, ma più calcolata e sofisticata. 

Nell’ottica occidentale il cannibale tradisce la sacralità del corpo umano, inghiottendo letteralmente il confine fondamentale tra Sé e Altro: il suo appetito senza fine costituisce, quindi, un pericolo imminente per la società nel suo complesso.

Lecter è un cannibale anomalo rispetto alla tradizione cinematografica precedente, perché in lui convivono sia l’animale che l’esteta. È bestiale perché mangia carne umana, ma il suo appetito non nasce da una fame comune: al contrario, fa parte di un’ossessiva ricerca di superiorità e di controllo sulle sue vittime. È esteta perché cerebrale e raffinato, perfetto rappresentante del tropo narrativo horror del mostro sotto comuni sembianze. Da un punto di vista estetico, l’immagine di Hannibal Lecter non si sovrappone con quella del mostro cannibale, poiché con lui ci si trova dinnanzi a un uomo bianco, di classe medio-alta, altamente istruito e quindi presumibilmente munito degli strumenti etici per capire l’immoralità delle sue azioni.

Come per noti cannibali della cronaca nera moderna, come Jeffrey Dahmer, Issei Sagawa e Andrej Čikatilo, il finzionale psichiatra cannibale non provoca solo orrore o repulsione, ma si profila anche come una fonte di fascinazione. A seconda della specifica matrice di tale fame (psicosessuale, rituale, supremazia, vendetta, sopravvivenza), nell’ottica occidentale il cannibale tradisce la sacralità del corpo umano, inghiottendo letteralmente il confine fondamentale tra Sé e Altro: il suo appetito senza fine costituisce, quindi, un pericolo imminente per la società nel suo complesso. Inoltre, i cannibali lecteriani nascondono una minaccia aggiuntiva: a inquietare è anche la loro apparente normalità e ossequiosità, ossia il fatto che finché non vengono colti in fallo sembrano individui perfettamente integrati nell’ordine sociale. La fine del secolo scorso segna quindi un ribaltamento nel nostro sguardo verso il cannibale: dalla paura di un Altro remoto e proiettato oltreconfine, all’angoscia che quella fame possa avere sempre fatto parte di noi.

Fame cannibale, femme cannibale

Non sorprenderà che nei generi e nei film finora citati la donna sia stata a lungo esclusa dall’immaginario cannibale come agente attivo, rappresentata piuttosto come oggetto del desiderio maschile e soggetta a violenza fisica e sessuale, sacrificata e divorata viva, fosse dalla popolazione indigena nelle foreste pluviali o dai ‘buoni Americani’ nelle giungle urbane. Naturalmente questo tipo di rappresentazione non è esclusivo dei cannibal movie o degli slasher, ma si presenta come una tendenza più ampiamente diffusa nel cinema horror. Al di là dell’archetipo verginale e mascolino della final girl che resiste al killer e riesce a sfuggirgli, la donna nel genere horror – soprattutto se desiderante – è stata a lungo inseguita e punita con la violenza e la morte, preda impotente del suo uomo-carnefice in una trappola senza uscite.

La nuova donna cannibale assume delle sembianze differenti da quelle rappresentate dai registi degli anni Settanta e Ottanta: è un mostro umano, terrificante e abietto, poiché rifiuta e ribalta drasticamente le qualità comunemente associate al femminile e al materno.

Rispetto alla rappresentazione maschile, infatti, nella storia del genere horror la donna è stata più di rado ritratta come una minaccia e un pericolo reale; spesso, le figure femminili dell’horror sfruttano a proprio vantaggio quegli stereotipi dell’ideologia patriarcale che le riducono a corpi vulnerabili, controllabili e innocui. In controtendenza, negli ultimi decenni ha iniziato a farsi sempre più spazio l’archetipo della donna cannibale, in pellicole che ribaltano gli script patriarcali a favore di donne mostruose e complesse. Con i loro corpi e appetiti insaziabili e indisciplinabili, queste donne sono perfette rappresentanti del mostruoso secondo la definizione di Jude Ellison Sady Doyle in Il Mostruoso Femminile: “un mostro è un corpo che avrebbe dovuto essere sottomesso, ma che è diventato una smisurata minaccia, un mostro è una donna che si è sottratta al controllo [dell’uomo]”.

Va detto che l’archetipo cinematografico della donna cannibale non è propriamente una novità. Sebbene la rappresentazione novecentesca del cannibale sia stata convenzionalmente maschile, diversi registi hanno messo in scena la loro controparte femminile, spesso in pellicole comedy-horror: Femmine Carnivore (1970) di Zbyněk Brynych, Cannibal Girls (1973) di Ivan Reitman e Cannibal Women in the Avocado Jungle of Death (1989) di J. F. Lawton. Ma a essere inedite nelle nuove protagoniste femminili dell’horror sono le modalità rappresentative e lo studio psicologico che le caratterizzano. Infatti, a segnare una prima rottura netta col paradigma della cannibale ancora plasmata dallo sguardo maschile – sempre bella e seducente, anche quando psicotica –, è il Nuovo Estremismo Francese nei primi Duemila, rispettivamente con Trouble Every Day (2001) di Claire Denis e Dans ma peau (2002) di Marina de Van.

Cannibal Girls (1973)

Includendo i due titoli appena citati in ciò che Barbara Creed in Return to the Monstrous Feminine definisce come Feminist New Wave Cinema, la nuova donna cannibale assume delle sembianze differenti da quelle rappresentate dai registi degli anni Settanta e Ottanta: è un mostro umano, terrificante e abietto, poiché rifiuta e ribalta drasticamente le qualità comunemente associate al femminile e al materno, quali il generare vita e prendersi cura degli altri. Sovvertendo le restrizioni socialmente imposte al suo desiderio sessuale, appetito e aspirazione di emancipazione, la cannibale mina non solo al principio dell’integrità fisica, ma anche l’ordine costituito: divorando il corpo maschile, sta facendo a pezzi il corpo della legge e della lingua patriarcale.

Ad accomunare tutte queste cannibali è il ribaltamento dei ruoli paradigmatici nelle narrazioni maschili: le donne non sono più prede, ma cacciatrici, e in larga parte le vittime sono proprio gli uomini.

Le protagoniste cannibali di film come il francese Raw (2016) di Julia Ducournau, il remake americano We are What We are (2013) di Jim Mickle, persino la cheerleader-demone di Jennifer’s Body (2009) di Karyn Kusama e le sorelle sirene del musical-horror polacco The Lure (2015) di Agnieszka Smoczyńska mettono in scena il cannibalismo come parte di una nuova quotidianità femminile, un’afflizione o eredità genetica matrilineare da cui non si vuole – o non è possibile – liberarsi.

Lontane dalla triade maschile del cannibale indigeno, rurale o urbano, lontane anche dal mito del survival cannibalism, in queste ragazze e donne convivono tanto l’umana quanto la cannibale. Il ricorso al tabù dell’antropofagia permette di esplorare la transizione violenta dall’adolescenza all’età adulta, la costruzione di un proprio ideale femminile al di fuori di quello socialmente imposto, l’emancipazione dalla propria famiglia e da altre istituzioni oppressive, così come il perseguimento dei propri desideri senza limiti, imposizioni o vergogna. Ad accomunare tutte queste cannibali, dal comedy horror all’horror fino all’art-house, è il ribaltamento dei ruoli paradigmatici nelle narrazioni maschili: le donne non sono più prede, ma cacciatrici, e in larga parte le vittime sono proprio gli uomini. Si muovono da sole alle feste, lungo le autostrade o i fiumi, nei boschi o nei parcheggi isolati, in luoghi dove la loro presenza solitaria verrebbe immediatamente associata a una situazione di pericolo, quando la vera minaccia è costituita proprio dal loro trovarsi lì, a danno dei malcapitati che le approcciano.

Raw (2016)

Origini, legami di sangue e segreti di famiglia

Una ragazza vegetariana viene costretta a mangiare un rene di coniglio crudo come parte di un rito di iniziazione universitario; una donna si ferisce gravemente la gamba in un cantiere, senza rendersene conto o provare dolore; la cheerleader più popolare della scuola viene sacrificata a Satana da una band indie per ottenere fama; dopo la scomparsa improvvisa della madre, due sorelle devono coprire il suo ruolo in preparazione a un rito cannibale annuale che assicura salute e prosperità alla loro famiglia.

La questione delle origini della donna cannibale è intrinsecamente legata alla famiglia e ai suoi legami di sangue, ed è la sua metamorfosi a rendere possibile l’esplorazione di queste relazioni e le modalità in cui influenzano la sua fame.

Se nelle narrazioni dal boom italiano fino ad Hannibal Lecter il cannibalismo risultava una pratica scelta, fosse nelle sue rappresentazioni rituali o nelle fantasie psicosessuali o di vendetta, la sua origine diventa molto più ambigua per quanto concerne le sue protagoniste femminili. In qualche modo, la questione delle origini della donna cannibale è intrinsecamente legata alla famiglia e ai suoi legami di sangue, ed è la sua metamorfosi a rendere possibile l’esplorazione di queste relazioni e le modalità in cui influenzano la sua fame. Infatti, nel destino della cannibale sembra spesso aleggiare una sorta di predeterminazione: si tratta di un fato a cui non si può sottrarre, come per i ruoli di genere entro i quali il suo orizzonte dovrebbe rientrare. Se la trasformazione mostruosa della celebre Carrie coincide con il suo menarca, anche nelle cannibali protagoniste dei film citati l’antropofagia si manifesta grazie ad alcuni eventi scatenanti che, però, innescano qualcosa di già fondamentalmente insito in loro, fino ad allora sopito.

In diversi film recenti che hanno per protagonista la donna cannibale, l’uomo non ricopre solo il ruolo della malcapitata vittima, ma anche quello paterno – sebbene l’uno non sempre escluda l’altro.  Nella scena finale di Raw (2016), per esempio, il padre rivela a Justine il suo petto pieno di morsi e porzioni di carne mancanti, comunicandole che anche la madre è cannibale e mostrando il compromesso che ha trovato in tutti questi anni per ovviare alla sua fame e suggerendo, così, la speranza che anche la figlia troverà un modo per dominare i suoi impulsi: il padre si presenta come un eroe tragico, carne che si presta consensualmente alla moglie per mantenere l’unità della famiglia e i suoi segreti.

Per contrasto, il patriarca in We are What We are (2013) di Jim Mickle si offre come carne in una prospettiva nettamente differente. Il film è un remake del messicano Siamo quel che mangiamo (2010) di Jorge Michel Grau, di cui Mickle, però, capovolge i ruoli di genere. Nel film, dopo l’improvvisa morte della madre a causa di una misteriosa malattia, Iris e Rose Parker si preparano per un rituale religioso annuale chiamato il Giorno dell’Agnello. In questa occasione, la famiglia Parker, dopo giorni di digiuno, si nutre della carne di una giovane ragazza rapita dal padre, mentre alla figlia maggiore spetta l’uccisione, il sezionamento e la preparazione del corpo. Nel doversi per la prima volta fare carico dei doveri tradizionalmente coperti dalla madre, Iris e Rose iniziano a interrogarsi sulle credenze famigliari e sulla propria complicità in questa brutale celebrazione. 

Le tradizioni della famiglia Parker, oggetto della narrazione fanatico-religiosa del padre, opprimono la quotidianità delle figlie, spingendole a uccidere e cibarsi di altre donne con la premessa illusoria di salute e prosperità. Nonostante la loro iniziale riluttanza, le due uccidono la donna rapita, giacché è ciò che il padre si aspetta da loro: non hanno scelta, possono essere o figlie acquiescenti e complici, o vittime del loro padre-carnefice come le altre donne. Nel finale, Iris e Rose si ribellano finalmente al padre, divorandogli la faccia e uccidendolo: in tale atto non rinnegano, quindi, il cannibalismo imposto da secoli di tradizioni patriarcali, bensì optano per la sua perpetuazione, creando una nuova tradizione per sé. Il legame di sorellanza tra Justine e Alexia in Raw e tra Iris e Rose in We are What We are presenta anche la complessità dell’essere sorelle accomunate da tale fame: mentre Iris e Rose affrontano il loro cannibalismo insieme, Alexia e Justine lo scoprono e affrontano separatamente, ciascuna con le sue modalità e compatibilità, spesso in un rapporto conflittuale tanto a livello personale che interpersonale.

We Are What We Are (2013)

Se il padre è la carne di cui nutrirsi, per salvare la propria famiglia o per crearne un’altra ex novo, la figura della madre resta più elusiva. Fatta eccezione per Trouble Every Day (2001), film horror erotico dove la magnetica Coré seduce e divora sconosciuti dopo aver contratto un virus tropicale, o Jennifer’s Body (2009) di Karyn Kusama, dove l’omonima protagonista diventa un demone cannibale dopo essere stata sacrificata da un gruppo di musicisti, erroneamente convinti della sua verginità, in un patto col diavolo, negli ultimi anni il cannibalismo femminile è stato presentato come un’eredità biologica, che per le donne presenta spesso una natura matrilineare. 

Emblematico, in questo senso, è il recente Bones and All (2022) di Luca Guadagnino, dove l’adolescente Mauren si mette alla ricerca della madre per capire se sia cannibale come lei, scoprendo che la donna è ricoverata da quindici anni in un istituto psichiatrico ed è arrivata ad auto-cannibalizzarsi le mani. Anche Raw è rappresentativo di questo legame tra cannibalismo, eredità genetica e identità femminile: attraverso la protagonista Justine e i crudeli riti di iniziazione universitari a cui è soggetta, seguiamo parallelamente anche la sua iniziazione privata al cannibalismo, fino al momento in cui scoprirà di condividere tale impulso con la madre e la sorella maggiore, Alexia.

Jennifer’s Body (2009)

Ad accomunare Mauren e Justine non è solo questo marchio ereditato dalle madri, ma anche la solitudine che le accompagna nella scoperta della loro fame: se la madre di Mauren non ha altra scelta se non abbandonarla, poiché terrorizzata dalla possibilità di ferirla, quella di Justine lascia la figlia all’oscuro dei cambiamenti che dovrà affrontare una volta iscrittasi all’università di medicina veterinaria. Entrambe le madri sanno ciò che attende le loro figlie, ma anziché fornire loro una guida e prepararle all’inevitabile, le lasciano sole a fronteggiare le complessità di essere donna e cannibale, una doppia sfida nella quale possono optare per accettare il proprio cannibalismo oppure morire.

Figlie abiette del desiderio

Esther, la protagonista di Dans ma peau (2002) di Marina de Van, si ferisce gravemente una gamba durante una festa, senza accusare alcun dolore e rendendosene conto solo diverso tempo dopo. La profonda ferita alla gamba segna l’inizio di un’ossessione: la donna continua a scavarsi la carne con le unghie e con altri oggetti contundenti, passando gradualmente dalla ferita a nuovi perimetri del suo corpo, fino ad arrivare all’auto-cannibalismo. Il corpo desiderabile di Esther diventa abietto in seguito alle ferite che si auto-infierisce: la sua smania autodistruttiva, che le permette di liberarsi da quel marchio di desiderabilità femminile, la alienerà dai suoi affetti e dall’ambiente di lavoro, dalla possibilità futura di diventare moglie e madre, fino al punto di non ritorno.

Il cannibalismo, in quanto comportamento che divora i confini tra sé e altro, civilizzato e barbarico, cristiano e pagano, soggetto e oggetto, cultura e natura, umano e non umano, incarna il più abietto dei fenomeni umani.

Sebbene Esther e, in parte, la madre di Mauren in Bones and All siano i soli due esempi femminili di auto-cannibalismo in un panorama dove la vittima prediletta del cannibalismo è l’uomo, ad accomunare queste donne è l’abiezione nella rappresentazione corporea della cannibale. In Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione, Julia Kristeva definisce l’abiezione come ciò che disturba l’identità, un sistema o l’ordine, ovvero ciò che non rispetta i confini, i ruoli e le regole. Secondo la filosofa, è abietto ciò che disintegra il confine tra vita e morte, interno ed esterno, sé e altro, spesso generando orrore, disgusto o angoscia in chi lo osserva. Il materiale abietto per eccellenza è tutto ciò che dall’interno del corpo viene espulso all’esterno – ovvero ciò che, come l’eerie, non si trova dove dovrebbe essere: i fluidi corporei come il vomito, il sangue, gli escrementi e le secrezioni. Queste espulsioni ci costringono a confrontarci con la nostra corporeità e con i suoi confini, con ciò che è simultaneamente parte del nostro corpo e con ciò che ne viene scartato. Ecco che il cannibalismo, in quanto comportamento che divora i confini tra sé e altro, civilizzato e barbarico, cristiano e pagano, soggetto e oggetto, cultura e natura, umano e non umano, incarna il più abietto dei fenomeni umani.

L’abiezione si manifesta nell’auto-scoperta della donna cannibale attraverso i due comportamenti più regolamentati dell’esperienza femminile: il sesso e la fame. Non è un caso, infatti, che in molte delle pellicole contemporanee che ho citato il desiderio sessuale e desiderio cannibale vadano di pari passo nella nuova quotidianità delle protagoniste, manifestandosi con un’intensità e impulsività impossibili da controllare e reprimere. Le adolescenti Justine e Alexia in Raw e l’adulta Coré in Trouble Every Day manifestano la loro fame in maniera ferina, masticando pezzi di carne umana con la bocca aperta, la faccia e le mani ricoperte di sangue: non c’è alcuna restrizione femminile nell’atto del mangiare, né alcuna auto-sorveglianza. Nel caso di Justine, inoltre, la metamorfosi cannibale e sessuale passa attraverso il body-horror: dopo essere stata obbligata a mangiare carne cruda come rito di iniziazione, inizia a soffrire di rush cutanei che rievocano la muta di un rettile, una seconda pelle, che coincide con l’emergere dei suoi istinti predatori cannibali e sessuali. Saliva, fluidi corporei, peli e libido, nonché la nuova posizione di cacciatrice per la donna cannibale, permettono loro di riappropriarsi del controllo e, anche solo temporaneamente, di sovvertire lo sguardo maschile.

Dans ma peau (2002)

In Gender and Contemporary Horror in Film Louise Flockhart descrive la duplice identità della donna cannibale: non soltanto questa figura, in quanto mostro femminile, sfida il significato di femminilità, ma, in quanto cannibale, sfida anche la stessa nozione di umanità. Si tratta di una doppia sfida che le cannibali devono affrontare in solitudine, tra la vergogna e il senso di colpa di chi si percepisce come un’anomalia del sistema e non sa come controllare i propri desideri. Se le protagoniste cannibali di Trouble Every Day e Dans ma peau erano due donne sempre più isolate rispetto alla collettività, per quelle di Raw e We are What We are sembra profilarsi la possibilità di un percorso meno cinico e alienante. Come le confida il padre di Justine, d’altronde, si può sempre soddisfare la propria fame, a patto di ridurne i danni e passare inosservate.

Concludendo l’esplorazione cinematografica della cannibale, risulta evidente che se nei primi cannibal movie la donna era invisibilizzata o relegata a una subalternità primitiva o barbarica, vittima dell’abuso e del massacro maschile, trasformandosi poi in carnefice nei film comedy-horror degli anni Settanta dove rispecchiava i timori maschili legati alla sua emancipazione e autodeterminazione nel pieno della rivoluzione sessuale, la cannibale contemporanea ha imparato ad accettare la sua fame come un atto di rivolta femminile contro il potere e l’oppressione maschile, ricorrendo alla violenza e al sesso non come elementi di aggressione ma come una riappropriazione del proprio potere. Anziché fuggire dal coltello o dalla motosega, è lei a sedurre le sue vittime e a cacciarle: i suoi abiti e il suo volto sono finalmente macchiati di un sangue che non è il suo, e quando dischiude le sue labbra è ormai già troppo tardi.