Può la cultura di Internet allo stato attuale resistere all’entropia e sfuggire alla registrazione infinita mentre fa fronte alla propria fine senza fine? Questa è la domanda che ci ha lasciato in eredità il filosofo francese Bernard Stiegler, scomparso nell’agosto 2020. Un’antologia su questo tema, intitolata Bifurcate: “There Is No Alternative”, è stata scritta durante i primi mesi del COVID-19: portata a termine poco prima della sua morte, è basata sul suo lavoro e redatta in consultazione con la generazione di Greta Thunberg. Bifurcate è anche un progetto per la giustizia climatica e l’analisi filosofica, firmato collettivamente sotto lo pseudonimo Internation. “Biforcare” significa dividere o bipartire in due rami. È un appello a ramificarsi, creare alternative e smettere di ignorare il problema dell’entropia, un quesito classico della cibernetica. Conosciamo il disordine nel contesto della critica di Internet come un problema dovuto al sovraccarico cognitivo, associato a sintomi psichici quali la distrazione, l’esaurimento e l’ansia, aggravati a loro volta dalle architetture subliminali dei social media estrattivisti. Stiegler chiamò la nostra condizione l’Entropocene in analogia con l’Antropocene: un’epoca caratterizzata dal “massiccio aumento dell’entropia in tutte le sue forme (fisiche, biologiche e informative)”. Come Deleuze e Guattari avevano già rilevato, “Non ci manca certo la comunicazione, anzi ne abbiamo troppa; ci manca la creazione”. Il nostro compito, perciò, è creare un nuovo linguaggio per comprendere il presente con l’aspirazione di fermare e superare l’avvento di molteplici catastrofi, esemplificate dal concetto plurimo di Extinction Internet.
Mentre Bernard Stiegler e altri hanno sottolineato come il disastro ecologico abbia bisogno di essere teorizzato sia a un livello fisico che biologico e psicologico, adesso l’enfasi dev’essere messa sulla riduzione dalla conoscenza all’informazione, alle conseguenze per le abitudini, le pratiche e le disposizioni psicosociali. Negli ultimi tempi, mi sono interessato a come la politica e l’estetica del rumore e della disattenzione influiscano sugli stati psichici (e ciò vale in special modo per le generazioni più giovani). Resta ancora da vedere se questi studi sull’ansia, la rabbia e la tristezza in rete possano fornire strumenti di partenza per la creazione di alternative valide.
Di recente ho iniziato a dubitare della mia tesi secondo cui un’analisi critica della desolazione psichica degli utenti digitali possa essere un primo, cruciale passo verso l’organizzazione, la mobilitazione e, infine, il cambiamento. La mia generazione ha scoperto in fretta che – per usare la terminologia di Derrida e Stiegler – Internet è un pharmakon: tossico e curativo. La critica agli assunti impliciti di Internet, a partire dalla Californian Ideology, è dunque sia un ripudio che un’affermazione. Ma quindi come possiamo riunire analisi e critica in reti di comunicazione radicali e funzionali per fare la differenza in termini di ricerca, politica e sviluppo di alternative?
Anzitutto la diagnosi, poi la riabilitazione. Questi sono i due passi fondamentali per intraprendere il processo di guarigione. Per quanto mi riguarda, queste idee mi riportano a due opere che hanno definito il mio Werdegang intellettuale. In primo luogo, Fantasie Virili di Klaus Theweleit, in relazione ai danni a livello psichico della classe operaia tedesca e come questi l’abbiano resa suscettibile alle promesse del partito nazista per la riconquista della propria dignità persa. E in secondo luogo, Massa e Potere di Elias Canetti, un classico dell’ormai defunta disciplina della “psicologia di massa” […]. Per ambedue, la storica domanda antifascista è, ancora una volta, la domanda di oggi: come demolire l’armatura psichica del fascismo? Come mai le persone sono sempre più suscettibili alle teorie del complotto, alle fake news e ai miti sull’immigrazione? Fornire informazioni “oggettive” e corrette non induce la smitizzazione. Il neopositivismo non ci porta da nessuna parte, ma si limita a riprodurre i modi dominanti propri della supremazia. C’è un’amara lezione che proviene dal passato: il dialogo non vincerà sul fascismo.
Provare a decifrare il codice fascista è stato uno dei tanti compiti della mia generazione: la generazione di mezzo cresciuta all’ombra della seconda guerra mondiale, della guerra fredda e del retaggio del Sessantotto. Il fascismo può anche essere stato sconfitto (a un alto prezzo) sul piano militare, ma le sue radici permangono. Durante la ricostruzione del dopoguerra, contrassegnata dalla guerra fredda e dall’accordo tra le classi, le radici del fascismo non vennero chiamate come si deve, figuriamoci estirpate. Non è un caso che la domanda sul come progettare e vivere una “vita antifascista”, per come l’ha formulata Michel Foucault, sia emersa negli anni Settanta, quando la recessione e l’austerità avevano fatto ritorno in Occidente. Andiamo avanti di cinquant’anni e la domanda può essere riformulata in questo modo: che tipo di “tecnologie digitali del sé” dovranno essere progettate per conoscerci in modi antitetici ai regimi normativi? Come vivere una vita fuori dalla piattaforma pur godendo dei benefici delle reti sociali?
Una delle componenti base per una critica dell’attuale stato tecno-sociale sarà una versione radicalmente rivista della psicoanalisi del XXI secolo. Ne Il Terzo Inconscio, il teorico italiano Franco Berardi propone una psicoanalisi che debba “assumere questo orizzonte di caos e di estinzione come un punto di partenza per una nuova riflessione”. Scrive poi della scoperta dell’inconscio nel XVIII e XIX secolo e di come abbia portato al fondamento della psicoanalisi al contempo come terapia e strumento di analisi culturale. In contrasto con l’accento che i suoi padri fondatori posero sulla negazione e la sublimazione, la seconda versione dell’inconscio associata a Lacan, e ancor di più a Deleuze e Guattari, sottolineò l’elemento della produzione: non la repressione ma l’iperespressione. Per questi ultimi, infatti, l’inconscio non era un teatro ma una fabbrica, gettato “all’inseguimento di una gioia che sfuggiva però continuamente, stimolando i frenetici tentativi di essere vincitori, generalmente frustrati dalla realtà”.
Come salvare il “tecno-sociale” dalle mani della Silicon Valley e del controllo statale senza necessariamente ricadere nel romanticismo offline o nel comunalismo difensivo e richiuso in se stesso?
Cinquant’anni dopo la liberazione del desiderio, Berardi propone di guardare le cose da una nuova angolazione: un terzo inconscio che ruota intorno all’analisi della dimensione tecno-sociale della psiche, in un mondo che non è più incentrato sulla crescita e sulla (schizo)produttività, ma sull’estinzione, l’ansia e la decrescita. Ketamina mescolata a Instagram e punk dal vivo. La mente umana ha raggiunto uno stato di saturazione. Berardi analizza e sottoscrive lo sviluppo di nuovi strumenti critici che possano aiutare a comprendere lo spettro odierno della sensibilità mentale e dell’attenzione emotiva. Dobbiamo esercitarci a “correre lungo la dinamica del disastro”, che egli reputa una descrizione accurata della “nostra condizione mentale durante l’attuale terremoto, che è anche un terremoto dell’anima e un terremoto mentale”. Secondo Berardi “il fascismo è una reazione psicotica all’impotenza”, come Theweleit ha dimostrato in precedenza nel suo Männerphatasien. La transizione senza interruzione dal COVID alla guerra in Ucraina, l’inflazione e la crisi energetica hanno soltanto rincarato il collasso del circuito bio-info-psichico sotto il peso dello stack delle crisi. A ogni nuovo shock ci muoviamo più in alto e ancora più in basso, sfogliando l’“atlante verticale” dei conflitti.
Nella mia lettura de Il Terzo Inconscio, le tecnologie dei media sono entrate nel corpo in modo tale che corpo e anima non possono più essere separate dall’infosfera semiotica. Non è solo la fisionomia a essere cambiata. Pensiamo, per esempio, ai neuroni nel nostro cervello che riorganizzano la possibilità stessa di come pensiamo, o ancora la fatica che sentiamo nei nostri occhi, nelle dita e in tutto il nostro corpo dopo l’ennesima sessione su Zoom. Questo è il modo in cui le tecnologie dell’estinzione operano per vie che si diramano attraverso tutta la società.
Franco Berardi rimane uno dei pochi intellettuali europei con una sensibilità sismografica fenomenale per gli stati oscuri delle menti delle ultime generazioni, incollate ai loro dispositivi. Leggere il polso in questo modo, in sintonia con la Gen Z – la prima generazione a sperimentare Internet come un dato di fatto, una sfera fissa – è qualcosa che Berardi condivide con Bernard Stiegler. C’è una strategia globale condivisa in gioco: una forte convinzione che la società debba, prima di ogni altra cosa, affrontare l’abisso. È qui che viene destinato il malcontento politico, nel cuore dell’inconscio sociale. È certo che la negazione accelererà ulteriormente le crisi in corso – ma nell’interesse di chi? L’ottimismo New Age va di pari passo con il controllo della percezione pubblica. Questo è il motivo per cui “pillola rossa o pillola blu” è il tema centrale della nostra epoca. Invece di somministrare un’altra volta procedure disfunzionali, una via d’uscita potrebbe essere quella di rappresentare – e mettere in pratica – l’atto farsesco della scomparsa e della ricomparsa (ma senza registrazione).
È tempo di sperimentare una procedura circolare di inizio e fine, in contrasto col ritorno senza fine dei tropi dell’ottimizzazione e dell’austerità. Secondo Berardi, il “circuito bio-info-psichico” deve essere elaborato prima ancora di varcare la soglia in cui ci troviamo. È necessaria un’elaborazione collettiva che si occupi di “segnali, gesti linguistici, suggestioni subliminali, convergenze subconscie. Questo è lo spazio della poesia, l’attività che plasma le nuove disposizioni della sensibilità” espressa in meme dai toni ironici, video divertenti, balli e gesti, recepiti in momenti di intossicazione estatica, i quali ci trascinano sempre più in profondità nel vortice della musica e dell’esperienza visuale.
Quali tipi di pratiche artistiche fanno la differenza in questo contesto? A mio parere, l’estetica investigativa, volta a mappare le prove raccolte, inventare concetti e critiche partendo dalla riorganizzazione della realtà, non può che esistere all’inizio di un processo di trasformazione radicale. In seguito, tutto ciò contribuirà a un più ampio movimento di scrittura e analisi della storia dell’arte nel campo umanistico: un nuovo paradigma, se vogliamo, che non si limiti a replicare il movimento Digital Humanities, ma che si distinguerà dalla tendenza di quest’ultimo a concentrarsi sulla digitalizzazione degli archivi, in aggiunta all’analisi dei dati, innamorata di numeri, grafici e scale di valori. Siamo andati al di là del tempo delle “competenze digitali” a scopo di beneficenza e ci siamo immersi nella politica globale dei bisogni digitali. In questa fase, il progetto dell’estetica investigativa non perde di vista la questione del potere: reindirizzando la contesa politica sulla verità, contrastandone le narrazioni sull’autorità e l’espediente egemonico con la veracità degli oppressi, si concretizza in ultima istanza attraverso un’estetica computazionale impostata lungo assi spaziali e temporali.
C’è un’estetica del collasso che la cultura di Internet trasmette, rappresenta e riproduce. Affrettiamoci a scrivere la storia della labile cultura online: gli altri non lo faranno per noi
Può il “sé digitale” sfuggire alla trappola del vanity marketing? È possibile sperimentare la libera cooperazione e l’azione collettiva per fuggire dalla gabbia dell’io? Come salvare il “tecno-sociale” dalle mani della Silicon Valley e del controllo statale senza necessariamente ricadere nel romanticismo offline o nel comunalismo difensivo e richiuso in se stesso? Questo è un progetto politico e appassionato di molti amici italiani con i quali ho il privilegio di lavorare, tra cui Donatella Della Ratta, Tiziana Terranova e innumerevoli altr*. Il punto di partenza è anzitutto un’inversione dialettica abbastanza convincente. Il sociale è visto come una forza catalizzatrice primaria: un potere sovrano che a sua volta innesca invenzioni e nuove forme di produzione e riproduzione, invece di venire ritratto come un prodotto di movimenti storici su larga scala, come il capitalismo, l’industrializzazione, l’imperialismo, il patriarcato o il colonialismo. Da qui, la rete sociale può essere meglio definita come il reale motore delle tecnologie immaginarie – di volta in volta bersaglio dell’espropriazione capitalistica – per loro natura reattive, ma che alla fine obbligano il sociale alla resa. Insieme dobbiamo invertire questa tendenza e restituire al sociale la sua autonomia e risolutezza. Nonostante le battaglie perse, il tecno-sociale detiene il suo potere trasformativo ed è tutt’altro che una vittima indifesa. Questa è un’intuizione importante se vogliamo ostacolare la società tecnologica durante la movimentata “seconda crisi del petrolio”, per esempio, andando oltre quel disastro energetico che sono i data center, progettando nuove architetture computazionali di ridistribuzione in grado di complementare il diritto esclusivo di navigare le nostre librerie offline.
Gli italiani ci insegnano a prendere molto sul serio questa domanda: che cos’è il sociale oggi? Quarant’anni fa avremmo risposto: “i movimenti sociali autonomi”. Trent’anni fa le comunità ispirate ai media tattici, vent’anni fa i social network e il Web 2.0 e un decennio fa la piattaforma. Cosa altro c’è da offrire, a parte una chiamata ben intenzionata a tornare ai valori del software libero? Sul piano interpersonale, Franco Berardi propone una “conversione psico-culturale in favore della frugalità e dell’amicizia”. Con il mio amico di Sydney, Ned Rossiter, ho pensato a delle “reti organizzate”; eravamo certi che queste reti avessero forti legami con un’estetica distribuita e sviluppata su numerosi nodi e località, in opposizione alle strutture di rete classiche che hanno legami deboli e tendono a disgregarsi facilmente. Le reti organizzate rimangono ancora una promessa e così anche il potenziale irrealizzato di una “critica di Internet”. Un ritorno dell’appartenenza a organizzazioni come un partito, come mezzo per rivendicare il potere politico, sembra ancora più improbabile di quarant’anni fa quando studiavo questo argomento. Come trasformare il malcontento e la contro-egemonia in un’efficace transizione di poteri nella tarda età della piattaforma? La questione dell’organizzazione rimane ancora molto rilevante, non soltanto per i vari movimenti di protesta, ma anche, nel nostro caso, per artisti e designer e altri lavoratori nomadi e precari.
“Convincimi che questa non è l’era oscura digitale”, ha esordito Regina Harsanyi su Twitter nel 2022. La perdita di spazio privato sembra reale. E per molti versi lo è. Siamo stati trascinati in un buco nero virtuale. Eppure, c’è bellezza nel collasso. La ricerca sui meme radicali ce lo insegna da anni. C’è un’estetica del collasso che la cultura di Internet trasmette, rappresenta e riproduce. Affrettiamoci a scrivere la storia della labile cultura online: gli altri non lo faranno per noi. Dopo tre decenni, c’è una sensazione ancora più pressante che incombe su di noi e che va oltre la mappatura passata della regressione e della stagnazione, inclusi i loro rispettivi stati oscuri. Come disse Brecht: “Poiché le cose sono come sono, le cose non rimarranno come sono”. Ora la possibilità dell’estinzione di Internet è pensabile. Questo è il momento della nostra Scomoda Verità. Non solo infinite possibilità sono implose a causa del realismo digitale, ma ci affacciamo anche sull’orizzonte esistenziale della finitezza. Ma non è quello dei protocolli TCP/IP o della commutazione di pacchetto. Extinction Internet segna la fine di un’epoca di immaginazione collettiva che per molti versi ha dimostrato come organizzazioni tecnologiche verticali e orizzontali erano alternative possibili. Non uno stack ma molti piani.
La stagnazione e la recessione sono state cartografate in dettaglio; il compito è ora quello di teorizzarne la fine. La distruzione si sussegue alla decostruzione. L’ottimismo istituzionale non ricompenserà nessuno per gli allarmismi sul disastro, così come le critiche di Internet e le sue alternative sono cadute nel vuoto nel periodo pre-apocalittico. È tempo di infondere il freddo approccio manageriale della governamentalità algoritmica con l’hauntologia di Mark Fisher. Dobbiamo svegliarci e capire che il blackout è diventato sistemico. Le mode cripto-nichiliste del “far soldi facili” sono tecnologie dell’Ultimo Giorno. Ma che succede dopo che l’invisibile è diventato visibile e siamo andati oltre la vuotezza del nostro pensiero? L’odore dell’estinzione è nell’aria. Il realismo darwinista afferma che è una tua scelta quella di rimanere povero e disconnesso, al freddo, al caldo, nella siccità o nell’inondazione. È il momento di fare uno sciopero, uno sciopero contro l’ottimizzazione. Basta fare migliorie. Fermiamo l’incremento dell’efficienza e l’aumento della produttività. È tempo di insegnare il problem design. È ora di inventare dei provocatipi.
Consultiamo Angelicism01, la mia Greta Thunberg nichilista, una poetessa e-girl, teorica e personaggio virtuale tutto assieme, che scrive: “Internet è impossibile. Non ci penso perché mi schiaccia. Un giorno su Internet è tutto. Non posso dire se Internet finirà. Tuttavia, so che l’estinzione è vicina”. E aggiunge: “L’estinzione cambia. L’estinzione è uno scambio. L’estinzione stessa sta cambiando. Questo è ciò che dicono le macchine della trasformazione. Questo è ciò che significa andare fino in fondo con la mutazione. Internet e l’estinzione sono indissolubilmente legati. Far esperienza di Internet significa far esperienza dell’estinzione”.
Che cosa potrebbe occupare il vuoto nella nostra psiche deframmentata dopo che Internet ha lasciato la scena? E in cosa potrebbe consistere la vita dopo che le nostre fragili menti non saranno più aggredite dagli effetti anestetizzanti e deprimenti del doom scrolling?
La tecnica in quanto tale non estromette dagli interrogativi. Solo perché siamo immersi in questo sistema non significa che siamo catturati dalla sua presunta totalità. I social media sono progettati per fare doom scrolling. La deautomatizzazione di Internet in questo contesto basterebbe a spezzare le abitudini ripetitive che penetrano nelle viscere dei corpi connessi. C’è qualcosa di liberatorio nel perdere il proprio profilo per un qualche atto di dimenticanza. Che cosa potrebbe occupare il vuoto nella nostra psiche deframmentata dopo che Internet ha lasciato la scena? E in cosa potrebbe consistere la vita dopo che le nostre fragili menti non saranno più aggredite dagli effetti anestetizzanti e deprimenti del doom scrolling? I neuroni post-Internet sono il regno di una nuova e duratura riserva di immaginazione e reinvenzione della cognizione, i mattoni fondamentali della società. Questa era la lezione di Stiegler.
Extinction Internet non è semplicemente una fantasia apocalittica della tecnologia digitale che un giorno sarà spazzata via da un impulso elettromagnetico, scatenato da un’arma di distruzione di massa in un breve istante. Extinction Internet è la fine di un’era di possibilità e speculazioni, e in cui l’adattamento non è più un’opzione. Il lutto per la scomparsa di Internet ha avuto inizio da prima, quando la piattaforma estromise l’immaginario collettivo. Sembra che un altro Internet non sia più possibile. L’utente-programmatore è condannato a vivere come uno zombie, scorrendo con il dito e scrollando senza pensare: non più padrone della propria attività. Mentre in un passato recente avevo descritto questo comportamento a un livello subliminale o subconscio, nella fase successiva l’intermediario è decretato cerebralmente morto. Mentre uno stato di profondo sopore sta rapidamente emergendo, i nostri gesti informatici di tutti i giorni funzionano ancora in maniera automatica.
Lo sforzo dovrebbe essere quello di allungare il tempo, rivendicare e squattare il futuro di Internet e insieme progettare configurazioni spaziotemporali autonome che consentano a riflessioni e attività inutili di essere sviluppate. Il post-Internet sarà venduto come una tecnologia irreversibile. Come contrattacco dobbiamo ripensare gli attuali sistemi che stanno causando un deficit di memoria e conoscenza. Il progetto non è soltanto quello di affermare l’estinzione del protocollo Internet, ma allo stesso tempo di superare la sua corrispondente depressione programmata.
“Le crisi, siano quelle del capitalismo oppure della protesta”, scrive Matt Colquhuon, “non generano più nessun cambiamento; la negatività distrugge il vecchio ma non produce più il nuovo”. Allo stesso modo, ho dovuto provare sulla mia pelle che né la critica della rete né la psicoanalisi collettiva del sé digitale porteranno al cambiamento. Il nostro compito sarà, per usare le parole di Bernard Stiegler, “mettere gli automatismi al servizio di una disautomatizzazione negentropica”. La strategia per superare l’entropia può includere la disautomizzazione di tutto, da un esodo dai social media, alla demolizione dei centri dati, al reindirizzamento dei cavi in fibra ottica, al ritiro di Siri e Alexa.
Invece di prendercela con discipline accademiche già affermate, dobbiamo andare al di là e fare un’analisi amorale della situazione attuale, in cui avremo prefigurato la scomparsa di Internet. “Internet non esiste”, scrive Angelicism01. “Forse esisteva soltanto poco tempo fa, tipo due giorni fa. Ma ora rimane solo in quanto sfocatura, specchio, doxa, scadenza, reindirizzamento, 01. Se mai è esistito, non potevamo vederlo. Internet è scomparso, nessuno può portarci con sé. Quando non esisti, lo spazio in te continua a fingere di essere”.
Paul Virilio e Jean Baudrillard mi hanno insegnato fin dall’inizio l’esistenza di un’estetica della scomparsa. Dobbiamo scoprire come mettere in scena un’estinzione elettronica alternativa e radicale invece di affrettarci a dichiarare: “Internet è morto, lunga vita a Internet”! Un’altra fine è possibile. Questo non avverrà semplicemente prendendo d’assalto i generatori di energia elettrica come stanno facendo gli invasori russi in Ucraina o installando, rimuovendo e reinstallando una tra le connessioni Star Link di Elon Musk. Forse abbiamo già esaurito il tempo restante per fare della ricerca essenziale; il minimo che possiamo fare è dare supporto agli artisti, ascoltare attentamente la loro immaginazione cosmotecnica e “cli-fi”.
Non solo nella biosfera, ma anche nell’infosfera, la perdita di diversità è entropica, è sterilizzante e fragile: collassa su se stessa. Reti sociali al servizio della critica in rete, computing al servizio del digital detox e progettazione di app alternative in nome della prevenzione dei dati, non solo della protezione. Che cos’è la decrescita di Internet, il machine unlearning, l’idiozia artificiale? Questo è il modo in cui il pensiero farmacologico e i flussi della riflessione possono essere riconvertiti in prassi funzionali per la progettazione. La sfida allora, nello spirito di Stiegler, consiste nell’introduzione di improbabili e incalcolabili biforcazioni nell’istruzione superiore per mettere in pratica concetti, protocolli e prototipi di ripristino. Con Anaïs Nin, possiamo dire che il canale di comunicazione che ci piace “deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi”.
La proposta riguarda una concezione delle reti sociali con un accento sulla cura, nonché gli strumenti per il calcolo intergenerazionale a loro volta utili per la risoluzione dei problemi a ciascun livello dello stack di crisi. Questo è il tipo di pensiero integrato in cui la questione non è più su cosa fare del flusso infinito di app scaricabili che vanno e vengono, da TikTok, Ethereum, Dall-E, Zoom e Clubhouse a BeReal e i loro secondi fini legati all’estrazione informatica. Piantiamola di costruire soluzioni alla Web3 per problemi che non esistono, e promuoviamo strumenti che decolonizzano, ridistribuiscono i significati, cospirano e organizzano. Come Bogna Kronior ha spiegato in un tweet: “Non voglio la libertà di parola. Voglio una rete che non sia connessa al meatspace e che non renda tutto un concorso di popolarità e narcisismo gravato da dipendenza da dopamina. Bisogna spersonalizzare, fare padroni i nostri occhi e i nostri sistemi nervosi; basta con l’economia dell’identità. Non più dipendenti dalle piattaforme, controllati da autorità invisibili e distanti”.
Il nostro compito in veste di teorici, artisti, attivisti, designer, sviluppatori, critici e altri irregolari sarà quello di andare oltre la ripartizione e sviluppare una modestia radicale per quanto riguarda le potenzialità del digitale. Dobbiamo biforcarci in modo da poterci muovere verso nuovi orizzonti
Cos’è la decrescita di Internet nel momento in cui il numero dei suoi utenti ha superato i cinque miliardi? Jean Baudrillard ci ha insegnato che l’esplosione dell’informazione è vissuta come un’implosione. Che succede quando le smart cities collassano nel buco nero del metaverso? Quando le società post-COVID si misurano con il rifiuto del lavoro? Che significa quando rappiamo “dicendo la verità alla piattaforma” e condividiamo video di “propaganda climatica”? Che significa la parresia nel contesto di Internet, al di là della libertà di parola democratica? Quali sono le nostre preoccupazioni ambientali al di là dell’uso di elettricità dei centri dati e le procedure di cripto-mining, estremamente inefficienti dal punto di vista energetico?
Il nostro attuale stato cosmotecnico, come lo chiama Yuk Hui, è definito da un inquietante groviglio di accelerazione degli eventi storici e stagnazione sociale. La cosmotecnica ha luogo quando non c’è più ritorno alla fase innocente della globalizzazione, e aggiungiamo l’incertezza sulla questione della resistenza all’isolazionismo geopolitico. Questo stato di confusione porta a tecno-mostruosità: dall’ideologia cripto della destra libertaria, a fake news e deep fake, ai bias dell’intelligenza artificiale. L’aspettativa che le decisioni politiche guidino e tengano a bada questi progressi tecnologici è stata quasi del tutto abbandonata. Neppure i mercati lo faranno. Insieme a Pieter Lemmers, Yuk Hui scrive: “La verità del nostro tempo è una verità a cui, secondo Stiegler, praticamente tutti preferiscono chiudere gli occhi poiché è troppo traumatica, inconcepibile e spaventosa. Parla non solo del possibile, ma anche della fine piuttosto probabile e imminente dell’umanità, o almeno della civiltà umana come la conosciamo”. Anche quei pochi e ricchi “prepper” che si rifugiano nei bunker sepolti in Nuova Zelanda, o che si preparano a un esodo nello spazio, sono altrettanto condannati. Nessuno sfugge al collasso della civiltà combinato al disastro climatico. La notizia dell’estinzione di specie è un dato incontrovertibile.
Le fini di Internet che conosciamo, o più precisamente, la fine delle culture della rete per come le abbiamo conosciute (e studiate), è sempre più vicina. Nell’ultimo decennio Internet è rapidamente cambiato da uno stadio freddo e positivo a essere esso stesso parte del problema, incapace di invertire le proprie tendenze distruttive. Forse abbiamo già passato il punto di non ritorno. Zittire i non-umani non funziona più come una volta. Come rispondere alla domanda retorica di Douglas Rushkoff (“programma o sarai programmato”) adesso che l’open source e il software libero sono moralmente in bancarotta a causa dei loro sell-out aziendali e, di conseguenza, hanno perso il loro fascino sulle generazioni del futuro? Che succede quando neanche i tedeschi riescono ad affrontare le loro shitstorm e i francesi riportano in voga gli insegnamenti della collassologia? In breve, che significa quando diciamo che Internet ha compiuto una svolta catastrofica ed è diventato irreparabile?
Pensiamo un attimo a Infinite Detail di Tim Maughan, una storia di fantascienza dell’immediato futuro sviluppata attorno al concetto di un interruttore d’emergenza. Un attacco informatico spegne definitivamente Internet, provocando la fine del mondo per come lo conosciamo. Il taglio dei cavi oceanici e gli attacchi alle telecomunicazioni e ai centri dati stanno accadendo mentre stiamo parlando. Stiamo ritornando alle origini militari della cibernetica e di Internet, alle opere di Paul Virilio e Friedrich Kittler che hanno determinato le mie basi intellettuali fino ad oggi. Se Internet prometteva resilienza, il collasso è ormai reale.
Extinction Internet concerne la decrescita, la fine dell’estrazione dei dati e, sì, anche quei momenti in cui gli schermi diventano neri e il doom scrolling si arresta di colpo. Ma è anche una questione di progettazione d’emergenza, una promessa radicale che afferma che l’implementazione dei principi di prevenzione dei dati nei dispositivi e nelle app è ancora possibile se diamo per assunto che raggiungeremo presto il “picco dei dati” e che i provvedimenti in corso come l’intelligenza artificiale “etica” e i “buoni dati” non saranno in grado di produrre né giustizia sociale né la fine del capitalismo razziale né la scongiura della catastrofe climatica. Per dirla in termini post-apocalittici e fantascientifici: non solar punk ma lunar punk.
A livello di stati psichici, negli ultimi tempi ci siamo concentrati principalmente sul deficit d’attenzione indotto dalla piattaforma, sull’impotenza riflessiva e sull’edonia depressiva, come le aveva descritte Mark Fisher. Questa situazione d’allarme ha trovato il suo corrispettivo nella solastalgia, “una forma emergente di depressione e angoscia causata dai cambiamenti ambientali, come i cambiamenti climatici, i disastri naturali, le condizioni meteorologiche estreme e/o altre alterazioni negative o sconvolgenti dell’ambiente o della propria casa”. Con milioni di rifugiati climatici, siamo sfidati a pensare insieme a uno “stack di crisi” in cui la dipendenza dalla piattaforma è solo una tra le nostre tante e urgenti preoccupazioni.
Il fatto che Internet stia accelerando i problemi del mondo e divenendo sempre più una parte del problema sta raggiungendo il consenso generale. I protocolli presumibilmente “buoni” e la decentralizzazione attraverso le “rete di reti” si sono entrambi rivelati incapaci di tenere testa alle piattaforme centralizzate e al controllo autoritario. Al contrario, questi approcci si sono dimostrati suscettibili a un ulteriore controllo, inadeguati a “ruotare attorno” alla politica globale e “interpretarla come qualcosa di dannoso”, come si cantava una volta in coro negli anni Novanta. Mentre gli organi di governo sono amministrati da ingegneri ben intenzionati e funzionari dei ministeri delle telecomunicazioni, è triste pensare che, mentre Facebook e Google occupano le posizioni di spicco, le possibilità di una rivoluzione strutturale sono minime. Questo rende sempre più necessaria la stesura di tabelle di marcia con iniziative concrete su come riprenderci Internet. Soprattutto qui, ad Amsterdam, coi suoi centri della tecnofinanza, lo strategico Amsterdam Internet Exchange e i suoi stravaganti edifici. Dopotutto, aspettare Bruxelles è come aspettare Godot. In aggiunta, come possono le università essere affrancate dalla loro dipendenza da Google e Microsoft? Come possono gli artisti sperare di essere liberati da Adobe e Instagram?
Nella conclusione di Le Paludi della Piattaforma ho tracciato come potrebbe essere intrapreso un esodo dalla piattaforma. A tal scopo, ho usato il termine “stacktivismo”, una forma di attivismo di Internet che diventa consapevole delle dipendenze interconnesse delle sue proposte alternative e della sua forma stratificata, dai repository pubblici, alle infrastrutture decentralizzate e ai sistemi operativi su software aperti e gratuiti, fino a interfacce non manipolative, filtri AI e forum con pratiche decisionali libere. Allunghiamo e apriamo il tempo, progettiamo configurazioni spaziotemporali autonome in grado di lasciare spazio alla riflessione. Cruciale è che tutto questo non suoni né criptico né utopico. Infatti, non supporto le fantasie mondiali di “calcolo su scala planetaria” e “terraformazione” promulgate da Benjamin Bratton, l’autore di The Stack, o tanto meno la metafisica della cosiddetta “teoria digitale”.
La scomparsa della possibilità di un cambiamento è ormai in corso da un decennio o più: al suo posto ci sono interfacce utente di facile navigazione e video di gattini
Ma quindi, come possiamo “disturbare i disturbatori”? Per prima cosa, dobbiamo assicurarci che i nostri concetti e progetti possano essere effettivamente scalati e messi in pratica. Questo è il caso del passaggio da un modello di business di tipo estrattivista a quello che Bernard Stiegler e collaboratori hanno definito “economia contributiva”. Il modello, per fare un esempio, in cui i pagamenti peer-to-peer si aggiungono a un’economia circolare, sostenibile e globale che lavora per la ridistribuzione della ricchezza e delle risorse, a livello sia locale che globale. Sono convinto che questa sia la dimensione decoloniale del problema informatico, un’area che richiede ancora del lavoro sull’impronta carbonica, sull’estrazione di materie rare e sulla questione dei rifiuti elettronici prodotti dal mondo digitale.
Come afferma la Filosofia per Passeggeri di Michael Marder: “Dopo che il viaggio nel mondo finisce, ecco che inizia il viaggio della comprensione”. Capire Internet. Il nostro compito in veste di teorici, artisti, attivisti, designer, sviluppatori, critici e altri irregolari sarà quello di andare oltre la ripartizione e sviluppare una modestia radicale per quanto riguarda le potenzialità del digitale. Dobbiamo biforcarci in modo da poterci muovere verso nuovi orizzonti, aprendo la strada a quello che Stiegler chiama il Negantropocene. Rispetto al disastro climatico in corso e alla crescente disuguaglianza sociale, lo sforzo computazionale è relativamente minore. Dopotutto, un codice può essere riscritto, nuovi sistemi operativi costruiti, cavi e segnali reindirizzati, centri dati decentralizzati e infrastrutture pubbliche installate.
Come Walter Benjamin aveva osservato: “Che le cose vadano avanti così è la catastrofe”. Il problema qui non è che Internet crolli da un momento all’altro – e che la tesi sulla sua estinzione venga in qualche modo falsificata. Ci sono già abbastanza blackout nel mondo, come i miei amici in Ucraina mi ricordano. Oltre all’“alleggerimento automatico del carico”, ci sono filtri, paywall, gli algoritmi e l’intelligenza artificiale, la censura di stato, gli hack, le patch fallimentari e la moderazione dei contenuti, tutti grazie alla manodopera a basso costo. Avremo a che fare con sempre più “eventi improbabili” al di là della cyberguerra hacker del passato. Questo mondo post-naturale sta per fare strani salti e balzi. Il mistero cosmotecnico sorprenderà coloro che credono in una connettività fluida e stabile. Ma quello che è veramente in gioco è un collasso dell’immaginazione collettiva di un sistema tecnologico che sta giocando un ruolo così cruciale nella vita quotidiana di miliardi di persone e che nonostante tutto può essere modellato, governato, progettato, e piegato in virtù di fini non ufficiali. La scomparsa della possibilità di un cambiamento è ormai in corso da un decennio o più: al suo posto ci sono interfacce utente di facile navigazione e video di gattini.
Sono stati fatti progressi lenti ma costanti nello sviluppo di app online alternative. Oltre ai già consolidati Linux, Wikipedia e Firefox ci sono DuckDuckGo, Signal, Telegram, Mastodon e il Fediverse, deepl, OpenStreetMap, Jitsi e Cryptpad; la lista è in crescita. Tuttavia, gli strumenti di social networking, ora più che mai necessari, si sono rivelati estremamente difficili da decifrare. Durante il decennio perduto di Internet, abbiamo ridisposto le sedie a sdraio sul Titanic sotto la guida ispiratrice della classe aziendale. Purtroppo, l’ottimismo sistemico ha prevalso sulle critiche. Questa è la vera tragedia della critica di Internet, made in Europe. Dov’è la nostra resilienza ora che ne abbiamo bisogno? Mentre l’attenzione si è rivolta alle cripto, alla blockchain e ai sistemi di pagamento, il tecno-sociale è stato trascurato. È possibile tornare dalle piattaforme ai protocolli? C’è ancora tempo per scrivere codici e creare nuovi script di connessione? Con livelli di angoscia e rabbia in aumento, molti sentono che sarà fatto troppo poco e troppo tardi. È avanzata poca pazienza per le varie cerimonie di consenso burocratico, ora che le soluzioni sono state ancora una volta delegate ai responsabili delle pubbliche relazioni, ai “mercati” e agli ingegneri (che non sono così “neutrali”) che avrebbero dovuto risolvere il problema.
Non ho l’ambizione di diventare la Cassandra della piattaforma, né sto morendo dalla voglia di scrivere l’elogio funebre per il mio amato medium. Eppure la paura legata alla sua scomparsa pare essere così diffusa che il suo stesso nome è citato raramente come segno di rispetto per i defunti. “Usiamo i social media, non più l’i-…”. Nel 1995, Bruce Sterling, scrittore cyberpunk, aveva già preparato il terreno con il suo Dead Media Project – come tra l’altro uno si aspetterebbe da un autore di fantascienza di questo calibro. Il sito web puntava a mettere insieme tecnologie di comunicazione obsolete e dimenticate, annotate in una guida ai fallimenti, ai collassi e ai nefasti errori dei media. Sterling e i suoi collaboratori hanno ormai aggiunto funzionalità di testo come telnet, gopher e newsgroup al loro necrologio di media defunti. Prima o poi anche Internet potrà essere messo in lista; è molto probabile che questa notizia ci sarà venduta in nome del progresso e della convenienza dell’utente.
Aumentare l’entropia, mettere i meme sottosopra, far ballare gli schermi e scrollare tutta la notte. All’alba l’umanità si preoccuperà di cose più urgenti. Alcuni rinnegati ricorderanno la “breve estate di Internet”, seguita da un lungo regno dei Titani, fino a quando una rottura non ricoprì le culture della rete con uno spesso strato di cenere semiotica, soffocando i dialoghi e gli scambi restanti. Come ci ricorda Walter Benjamin nelle sue Tesi di Filosofia della Storia, scritte poco prima di morire in fuga dai nazisti, è nostro compito di cronisti recitare gli atti minori all’interno di questo episodio notevole della storia della comunicazione. Ci invita così a “impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo”. Lasciarsi alle spalle la breve epoca della libertà di Internet con tutte le sue stranezze e difetti non è un segno di progresso irrefrenabile. Ci sono mucchi di rifiuti informatici davanti a noi. È nostro compito quello di rifiutare di schierarci con i miliardari e altri governanti autoritari, combattere la tecno-nostalgia e perseguire di nuovo “come suo compito passare a contrappelo la storia”.
Rivendicando la fine, l’energia è liberata per la creazione di nuovi inizi.
Vorrei ringraziare Ned Rossiter, David Berry, Patricia de Vries, Nadine Roestenburg, Niels ten Oever, Chloë Arkenbout e Sabine Niederer per le loro preziose correzioni e commenti. Pubblicato originariamente su networkcultures.org. Traduzione dall’inglese di Alessandro Sbordoni.