Esistenzialismo per androidi

Umano, post-umano: immaginare il futuro in NieR: Automata

«Ogni cosa viva è destinata a morire»: questo l’incipit di NieR: Automata (2017) per PS4, un raro caso di videogioco d’autore a grosso budget ideato da Yoko Taro e confezionato brillantemente dal team di PlatinumGames (The Wonderful 101, Bayonetta 2). Apparirà singolare che a pronunciare queste parole sia un androide e più precisamente la protagonista 2B, da pronunciare to be, come il quesito di Amleto: «Tutto ciò che vive deve morire, passando dalla natura all’eternità» sono parole della Regina, atto I, scena II. 2B prosegue: «Siamo intrappolati in una spirale infinita di nascita e morte per l’eternità. È una maledizione oppure una specie di punizione? Penso spesso al dio che ci ha fatto dono di questo enigma oscuro, e mi domando se mai avremo occasione di ucciderlo.»

Di che dio si parla? Dell’umanità creatrice, cui gli androidi tributano una reverenziale devozione? Della coscienza unificatrice delle macchine, i robot avversari degli androidi, che di questa spirale è l’artefice? Oppure del creatore stesso del gioco, Yoko Taro? Taro, in effetti, gioca disinvoltamente con la metanarrazione: il giocatore può «ucciderlo» sparando sul suo nome nei titoli di coda…

Ma torniamo a NieR: Automata. Siamo nel 11945, durante la 14esima Guerra delle Macchine. Gli esseri umani si sono rifugiati sulla luna per scampare a un’invasione di robot di origine aliena (le «macchine» eponime), i cui demiurghi tuttavia non si sono mai mostrati. Per riconquistare la terra, gli uomini hanno creato gli androidi YorHa, una forza d’élite costruita per riprendere il controllo del pianeta al grido di «Gloria all’umanità». Il comando centrale di YorHa se ne sta rintanato nel suo bunker spaziale dal quale impartisce ordini alle singole unità. Manda in missione 2B, l’androide femminile da combattimento di bell’aspetto di cui il giocatore prende il controllo, e 9S, il suo socio hacker dall’inesauribile curiosità.

Il gioco, postmoderno fin nell’impianto, alterna con sorprendente eleganza l’action rpg hack’n’slash in terza persona, sequenze bullet hell a bordo di navicelle spaziali e platform a scorrimento laterale, combattimenti a bordo dei mecha. La sua struttura ricorsiva impone di completarlo attraverso diverse run, in cui ci si muove all’interno delle stesse porzioni di mondo manovrando di volta in volta un personaggio diverso e ottenendo in ricompensa un finale più «autentico» del precedente. Fino a che ogni premessa non si sgretola. Sappiamo che Taro lavora a ritroso: tesse la trama a partire dalla conclusione della storia. Seguendo l’intreccio, lo vediamo invece manovrare i suoi burattini sulla scena fino a spogliarli completamente di ogni motivazione ad agire. Per prima cosa apprendiamo che l’umanità non è affatto in esilio sulla luna: è estinta da millenni e il comando di Yorha lo sa, ma lo tiene nascosto per evitare che gli androidi cadano preda di una profonda depressione, ritrovandosi da un giorno all’altro privi di scopo. Gli alieni hanno raggiunto le viscere della terra, ma sono a loro volta morti. Non c’è nessun dio, dunque. Il mondo diegetico di Nier Automata è fitto di riferimenti filosofici, con personaggi di nome Kant, Pascal, Marx, Engels, De Beauvoir, Hegel. E naturalmente Jean Paul (Sartre). Il robot Pascal, leader di un pacifico villaggio di macchine, da lettore instancabile qual è, lo cita puntualmente quando afferma che «l’esistenza precede l’essenza».

Sarte lo disse durante la sua conferenza al club Maintenant di Parigi del 1945: «L’uomo, secondo la concezione esistenzialistica, non è definibile in quanto all’inizio non è niente. Sarà solo in seguito, e sarà quale si sarà fatto. Così non c’è una natura umana, poiché non c’è un Dio che la concepisca. L’uomo è soltanto, non solo quale si concepisce, ma quale si vuole, e precisamente quale si concepisce dopo l’esistenza e quale si vuole dopo questo slancio verso l’esistere: l’uomo non è altro che ciò che si fa.» Così è l’androide in questo mondo di simulacri devastato da un capitalocene giunto al suo stadio terminale.

Ma c’è dell’altro: la guerra è finita. Le macchine l’hanno già vinta. Malgrado il loro aspetto primitivo, i robot sono dotati di un’arma molto evoluta: una rete che ne connette le menti. Grazie ad essa si è formata una sorta di coscienza unificatrice (la «mente alveare» di Kevin Kelly) che ha appreso tutti i segreti degli androidi, inclusa la scomparsa dell’umanità. Trovando l’avversario già sconfitto, ha deciso di replicare (per disperazione?) lo stesso schema in eterno. Ha elaborato un virus logico che a intervalli regolari infetta e distrugge tutte le unità YorHa che poi vengono ricostruite daccapo e così via, di guerra in guerra, di millennio in millennio, fino alla fine dei Tempi.

È l’Uroboro, l’eterno ritorno dell’uguale. Diviene così fondamentale la ricerca del senso, una ricerca che non può che risultare frustrata. L’appiattimento sul presente, «la cancellazione della profondità temporale, della percezione stessa della continuità dell’esperienza personale nel passato nel presente verso il futuro» che per Francesco «Bifo» Berardi è il risultato del sovraccarico sensoriale in epoca postmoderna, ha come conseguenza che «l’input di senso sembra ridursi a zero… Il narcisismo investito nella ricerca di senso si rovescia quindi in depressione. (Il paradosso della libertà, 1990).

Il postumano che Taro immagina è paradossalmente antropocentrico. «L’unicità dell’uomo sta nel fatto che sarà la prima specie che fabbricherà il proprio successore nell’evoluzione» scrive Nayef Yehya in Homo cyborg. Qui l’epigono dell’uomo ha l’aspetto seducente ed eternamente giovane della sex doll, non avverte né la fame, né il freddo, né il sonno, sopravvive ad ogni temperatura, si muove velocemente e con precisione. La cibernetica non ha salvato l’umanità, ma in compenso ha abbattuto ogni frontiera; è finalmente in grado di «trapiantare il cervello in un corpo più resistente, o, meglio ancora, trasferire la mente fuori dal cervello, renderla volatile ed eterea».

Eppure l’androide si dibatte alla ricerca di uno scopo. Malgrado il titolo dell’opera, non potrebbe essere più lontano dagli «automata» costruiti da Ctesibio e del suo discepolo Filone di Bisanzio nell’epoca della rivoluzione scientifica ellenistica (fine IV secolo a. C.). Somiglia forse più alle figure del mito fatte di fango, metallo, mais, carne inerte creata dallo spirito: la statua di cui s’innamorò Pigmalione, il gigante Talos forgiato da Efesto, il Golem di Oria. Il ragazzo di Oria, che i rabbini sottrassero alla morte per consegnare alla vita eterna, se ne stancò dopo un lungo peregrinare. Così gli androidi, che hanno sottratto i loro corpi di silicio alla corruzione, simulano il ciclo vita-morte come se dell’immortalità non sapessero proprio che farsene.

Eppure qualcosa sfugge alle maglie dell’eterno presente. Agli androidi, che qui osservano pedissequamente le tre leggi della robotica di Asimov, è rigorosamente vietato provare sentimenti. Tutte le volte che un androide muore, la sua coscienza e i suoi ricordi vengono trasferiti in un nuovo corpo della stessa serie. Il vero scopo di 2B è uccidere 9S ogni qual volta esso si avvicini troppo a scoprire l’estinzione umana, perché ne siano cancellati i ricordi e la menzogna possa perpetuarsi. «Finisce sempre così», commenta 2B dopo averlo strangolato per la prima volta, rivelandoci che non si tratta affatto della prima. Sceglierà diversamente nel momento in cui sentirà di ricambiarne l’amore. Le macchine sono considerate addirittura incapaci di provare emozioni; eppure, dopo i millenni trascorsi sulla terra, dimostrano l’esatto contrario. Si producono in imitazioni grottesche dei comportamenti umani: simulano coiti, inventano culti, formano famiglie nucleari e clan che scelgono i propri capi. Una di loro, Pascal, è persino riuscita a realizzare a un’utopia: un villaggio pacifico dove istruisce i propri simili. Purtroppo durerà poco, coi suoi membri più giovani (esistono robot bambini, inspiegabilmente) incapaci di sopportare la maledizione della conoscenza. Le due macchine più sofisticate esistenti, (il Super-Io) ed Eve (l’Es), hanno invece una sete inarrestabile di sapere. Adam è un pensatore affascinato dal mistero dell’esistenza; l’amore, l’odio, la rabbia sono invece alla base dell’impulsivo agire di Eve.

Qui come nelle pietre miliari del genere cyberpunk, da Blade Runner a Matrix, ciò che i cyborg e gli androidi incarnano non è tanto una minaccia, ma la domanda: «Cosa significa essere umano nel mondo moderno?». È forse vero anche l’inverso. Sempre Yehya scrive, citando il John Brockman di Close to Singularity: «Nuove tecnologie implicano nuove percezioni. Nel momento in cui creiamo nuovi strumenti, ricreiamo noi stessi a loro immagine. […] Un tempo gli uomini concepivano l’universo come un grande orologio, oggi, invece, lo immaginiamo come una specie di videogioco.» Nella visione di Taro, un videogioco-mondo. Che si chiude con una tenue nota di speranza: «Il futuro non è qualcosa di dato – sono le ultime parole del pod-aiutante – devi prendertelo.»