Una sala spoglia e immersa nella penombra è gremita di donne, giovani e vecchie, che portano i capelli intrecciati in corone vegetali. Sono tutte a piedi nudi e cantano, ballano, suonano il flauto e la lira, si aggirano per la sala facendo dondolare incensieri, mentre una di loro tiene in mano mazzolini di spighe e canta di fronte a un piccolo fuoco, con le braccia alzate. Ognuna pare assorta nella propria occupazione, ma questi gesti individuali sono connessi tra di loro da una costellazione di coppette, probabilmente in terracotta. Chi serve, chi beve, chi travasa, chi versa sulle fiamme: gran parte delle mani ritratte è impegnata a maneggiare piccole coppe rosse, che uniscono i singoli gesti in un unico atto comunitario. Al centro della scena, isolata dal trambusto eppure in primo piano, una ragazza è accovacciata di spalle, davanti a un’apertura circolare che affiora dal pavimento. Nella mano sinistra tiene una di queste coppe, che sta rovesciando nello specchio limpido della fonte misteriosa.
Il liquido è un fermentato carico di ergotamina, sostanza prodotta da un fungo della segale che contiene una serie di alcaloidi altamente velenosi e psicoattivi, e che nel Novecento porterà alla sintesi di vari composti chimici, tra cui l’acido lisergico (LSD). Seppur di dubbia qualità artistica, l’illustrazione che riproduce questo rituale iniziatico del II secolo a.C. mi ha ipnotizzato, mentre la osservavo sovrapporsi al muro scrostato di una casa di campagna durante la proiezione di un documentario sui misteri eleusini. Scanditi da invocazioni a Demetra e Persefone e guidati da sacerdotesse, i riti misterici che si celebravano nel santuario di Eleusi sono solo una delle evidenze storiche che testimoniano il ruolo focale delle donne nel trattamento delle risorse vegetali e nella pratica di forme primigenie di farmacologia botanica.
“Il mito e la sacra Scrittura collocano l’origine del mondo umano in un giardino, spazio vitale ricco di significati simbolici e metaforici”, scrive Massimo Venturi Ferriolo in Oltre il giardino. “Nelle antiche lingue mediterranee un’unica parola nominava il giardino e il grembo femminile, recinto dell’amore e fonte della vita. Spazio della generazione e della corruzione, simbolo della totalità del cosmo, il giardino è il grembo della vita e si consolida custodia e salvaguardia dell’esistenza, ventre materno da rispettare”. Quella tra il mondo botanico e quello femminile è un’associazione radicata in diverse tradizioni culturali, filosofiche e religiose, anche in quelle fortemente patriarcali, che raramente hanno concesso alle donne ruoli di potere paragonabili a quello oggi attribuito alla farmacologia. Ne è un buon esempio l’iconografia di Maria Maddalena, tradizionalmente raffigurata con un vaso contenente un unguento. Simbolo di trasformazione spirituale e testimonianza della dimensione femminile dell’epoca, quest’olio vegetale è riflesso di un’ampia tradizione di cura della quale le donne erano le principali custodi. Per millenni la cura della famiglia e della comunità fu incentrata su forme di farmacologia primitiva, e vide le donne come depositarie di questa sapienza: antica e profondamente legata al mondo naturale, se non addirittura a quello mistico.
Visionaria, artista, guaritrice, cosmologa, filosofa, poetessa, drammaturga, musicista, linguista canonizzata solo in tempi recenti, la badessa Ildegarda di Bingen è certamente una delle donne più eclettiche ed enigmatiche della cultura medievale. Esperta botanica ed erborista, al punto di venire considerata da molt3 la fondatrice della storia naturale tedesca, Santa Ildegarda promuoveva un approccio olistico alla medicina, in cui la salute era vista come un equilibrio tra corpo, mente e spirito. Incentrava le preghiere delle consorelle, alle quali faceva portare i capelli sciolti e indossare ghirlande di fiori, su meditazioni, canti e composizioni da lei scritte, che celebravano la divinità verdeggiante attraverso un linguaggio poetico e visionario.
Tra i contributi più rilevanti di Santa Ildegarda spicca il concetto di viriditas, parola latina traducibile come “verdura” o “vitalità”: in altre parole, l’aspetto visibile e lussureggiante del divino in natura. Il termine rappresentava la forza soprannaturale e vivificante che permea il creato, un’energia che dà vita a tutte le creature, umane e non. Una vera e propria linfa (sudor) che riempie foglie e germogli. Tale viriditas però non andava solo riconosciuta, o tuttalpiù celebrata attraverso metafore di umidità e crescita: andava ricercata. Secondo la mistica, infatti, quando si consumava una pianta curativa il suo potere veniva trasferito nell’organismo, creando un “momento di viriditas”. Questa energia però non veniva solo assorbita passivamente dall’esterno, poteva essere generata direttamente grazie a pratiche quotidiane di cura, alimentazione o preghiera. In altri termini, era già presente nell3 fedeli, andava solo riattivata.
Ecofemminista ante litteram, Santa Ildegarda professava che la salute umana, sia fisica che spirituale, fosse inseparabilmente connessa a quella della Terra
Un’energia ancestrale, eppure assolutamente mortale. Un potere che bastava risvegliare attraverso l’annullamento dell’immaginario confine tra le persone ed il resto del creato – se non addirittura del Creatore, che in questa visione non appare esattamente come un tutto oltre la somma delle parti, ma quasi come un’entità interconnessa, non separata dal resto. Il verde flusso divino è a tutti gli effetti un collegamento tra microcosmo e macrocosmo, al punto da insinuare il dubbio che l’universo sia un insieme fondato su armonie mutue, più che gerarchiche. Una cosmovisione forse più vicina alla Teoria di Gaia che non a quella dogmatica dell’undicesimo secolo. Ecofemminista ante litteram, Santa Ildegarda professava che la salute umana, sia fisica che spirituale, fosse inseparabilmente connessa a quella della Terra, ora vista come un’unica entità vivente di cui il genere umano è parte.
Elevata a intermediaria tra il mondo naturale e quello soprannaturale, la figura femminile è connaturata al manipolare le forze incorporee attraverso le piante curative, strumenti simbolici capaci di influenzare il mondo spirituale e proteggere la comunità dai pericoli invisibili – siano essi malattie o spiriti maligni. Come sottolinea Piero Camporesi ne Il pane selvaggio, “si delinea l’immagine d’una società febbricitante e insonne che tentava di contrastare le visitazioni notturne, le presenze degli abitatori della notte, di difendersi dall’aggressione tormentosa dei sogni paurosi e orribili con tutta una farmacologia apotropaica che inducesse oblio e serenità”.
Sedativi, digestivi, antidolorifici e antinfiammatori: la demonicità vegetale, sublimata dalle donne nel corso dei secoli, trova ancora oggi spazio nella farmacologia contemporanea. Primo su tutti è il Papaver somniferum, le cui proprietà narcotiche e antidolorifiche erano già note dai tempi dell’antichità. La sua resina veniva somministrata sia per alleviare sofferenze fisiche che per ottenere sollievo mentale. L’assunzione, spesso praticata con dosaggi a cavallo tra il medico e il ricreativo, faceva dell’oppio il farmaco assoluto dell’Europa preindustriale: come spiega Camporesi, “l’Europa dei sogni e delle allucinazioni notturne […] aveva nelle donne di casa, nelle madri, nelle nonne, nelle zie, nelle «comadri», nelle balie che allattavano gl’infanti, nelle dolci fattucchiere domestiche, le prime iniziatrici alle delizie artificiali, alla narcotizzante dolcezza d’un regime onirico affatturato e pilotato.”
Una mano schiusa allunga indice e medio, appoggiando le dita a una piega di carne, e penetrandola con garbo. Il gesto sensuale si ripete più volte, in un moto lento e ipnotico. La porzione anatomica inquadrata è così piccola da risultare quasi inintelligibile, appena al di qua dell’astrazione che carica la scena di un’ambiguità erotica. Non si tratta di un monte di venere ma dell’incavo di un’ascella, che ora la mano strofina con veemenza per permettere alla pelle di assorbire i principi attivi di un balsamo. La camera indugia tra un close-up e l’altro, attardandosi su un bacio vischioso e intontito, prima di interrompersi su due pupille chimicamente dilatate. La sostanza protagonista di questo episodio è di nuovo un unguento – non più un simbolo di pentimento, ma comunque sacro, alla sua maniera. La scena di sesso saffico che ho appena visto, stretta il cuscino e ora carica di desideri difficili da esaudire in pieno lockdown, è tratta dal film Ritratto della giovane in fiamme, scritto e diretto da Céline Sciamma. A film terminato l’unica voglia saziabile è la curiosità, e passo il resto della notte su internet, cercando informazioni sugli unguenti volanti.
Utilizzati dalle streghe per indurre stati alterati di coscienza, gli unguenti volanti erano delle preparazioni a base di erbe psicotrope, diffuse a partire dal periodo medievale in Europa. Gli effetti di questi balsami includevano allucinazioni, sogni vividi e una sensazione di levitazione. Un vero e proprio viaggio mistico, corredato di visioni ed esperienze extracorporee; il che potrebbe spiegare come, in seguito a interrogatori e torture, alcune donne accusate di stregoneria abbiano testimoniato di saper volare. Nel medioevo infatti, gli unguenti volanti erano associati a pratiche esoteriche, in particolare al leggendario volo delle streghe, reso popolare durante i processi per stregoneria. Secondo alcune descrizioni più pruriginose, l’unguento veniva addirittura applicato su bastoni e scope che le streghe “cavalcavano” per incontrare il demonio a qualche sabba.
La presenza di questo elemento nel film trasforma una scena di intimità sottintesa in un’icona di chemsex femminista, nella quale l’unguento diventa effettivamente il mezzo per raggiungere una dimensione di libertà e desiderio, lontana dalle restrizioni sociali imposte alle donne dell’epoca. Non a caso, le due donne che estraggono a ditate il balsamo da un barattolino di vetro lo hanno preso la sera prima a un ritrovo di contadine. Hanno passato la serata stringendosi attorno attorno a un falò, bevendo vino e intonando un suggestivo canto polifonico ispirato da un estratto di Così parlò Zarathustra: “Più ci alziamo in volo, più sembriamo piccoli a chi non può volare”. Questo raduno notturno è un’ottima diapositiva di come le sottoculture basate su valori ancestrali e legati alla natura siano sopravvissute per secoli attraverso fragili reti clandestine. Allo stesso tempo, quel barattolino apre la via verso una delle più evidenti testimonianze del rapporto tra il femminino e il naturale: la stregoneria. Se per secoli l’indiscutibile legame tra donne e mondo botanico aveva donato loro una certa dose di autonomia e potere, nell’alto Medioevo diventerà la scusa per demonizzarle e soggiogarle a un nuovo ordine sociale.
Per generazioni, le donne avevano svolto un ruolo fondamentale nella comunità grazie a pratiche erboristiche essenziali alla sopravvivenza sociale. Durante la prima parte del Medioevo, infatti, l’arte della medicina era soprattutto appannaggio delle donne oltre che dei monaci, a pari merito dei quali venivano riconosciute le qualità di carità, devozione, assistenza a bambini, malati e feriti. Un fenomeno condiviso da tutte le classi sociali del tempo, come racconta la capostipite dell’ecofemminismo Françoise d’Eaubonne nel suo libro Il sessocidio delle streghe. “L’educazione delle figlie della nobiltà”, scrive d’Eaubonne, “prevedeva un corso di piccola chirurgia, perché potessero prestare aiuto ai «fieri» cavalieri durante i tornei o in guerra. Le matrone trasmettevano le conoscenze ostetriche e il re teneva sotto la sua protezione un consiglio di queste dame chiamate a giudicare certi casi dubbi. […] Le dottoresse, chiamate «fisiche», erano richieste a causa del divieto imposto ai monaci di prendersi cura del corpo delle donne. […] Non si trattava di semplici erboriste”. Ma questo stato di cose durò solo fino a quando Carlo VIII non vietò la professione medica a monaci e medichesse, per riservare la nobile arte a una facoltà elitaria, ora protetta da ogni concorrenza.
Il sapere resistente è destinato a perdurare: forse proprio ripartendo dal folklore e dai rimedi delle nonne, che a lungo hanno nutrito e guarito affidandosi a sapienze ataviche
L’autonomia femminile andava neutralizzata, per spostare il potere nelle mani di poche figure totalizzanti: non c’era più spazio per attività frutto di sottoculture contadine — specialmente se di matrice pagana e gestite al di fuori del diretto controllo del clero. Paradossalmente, in un’epoca in cui la Chiesa condannava le cure mediche autogestite tra pover3 ma le permetteva all3 ricch3, le streghe-guaritrici non erano solo l’unica risorsa medica disponibile per le classi indigenti, ma anche la più fruttuosa. La medicina domestica, seppur praticata da persone non istruite, risultava infatti più efficace rispetto a quella ufficiale, tendenzialmente basata su presunzione accademica e principi galenici fermi alla teoria. Come analizzano Barbara Ehrenreich e Deirdre English in Witches, Midwives, and Nurses. A history of women healers, le streghe-guaritrici erano temute poiché il loro operato era in contrasto con l’approccio indubitabile della Chiesa. “La strega era un’empirica: si affidava ai sensi piuttosto che alla fede o alla dottrina, credeva nella prova e nell’errore, nella causa e nell’effetto”, scrivono le autrici. “Nella persecuzione della strega, l’ossessione anti-empirica e quella misogina e antisessuale della Chiesa coincidono: empirismo e sessualità rappresentano entrambi una resa ai sensi, un tradimento della fede”.
Il colpo di grazia non sarà però inferto direttamente dall’istituzione della Chiesa, ma da quella secolare e materialista del capitalismo. Il genocidio delle donne contadine, innescato dalla privatizzazione dei terreni prima e giustificato dalle accuse per stregoneria poi, giocherà un ruolo cruciale nella ridefinizione del ruolo femminile nella società. Private dell’indipendenza economica e segregate a una funzione esclusivamente domestica e subordinata, le donne si vedranno ridotte a un’unica forma di partecipazione: la riproduzione della forza lavoro, ora regolata dalla società. La sessualità della donna medievale viene così demonizzata per poter essere tenuta sotto controllo, pena le fiamme dell’inferno. Ed ecco che il recinto, che all’inizio di questa indagine si era presentato come metafora fertile e creatrice, diventa simbolo di una sessualità addomesticata e strumentale alla procreazione del capitale umano. Inutile dire che questa razionalizzazione del mondo naturale, ora meccanico e governabile, implichi l’eliminazione della strega; non si limita a distruggerne la figura, si preoccupa anche di occultarne il cadavere. Prima bruciandolo sui roghi, e poi diroccandone l’eredità filosofica.
Figlio di un’epoca nella quale le credenze popolari colmavano ogni lacuna scientifica, il corpo magico era concepito come un organismo dotato di poteri misteriosi e soprannaturali. Oscuro nel male ma anche nel bene, il Medioevo conferiva all3 su3 abitanti – uman3 e non – un’incarnazione creativa e in controllo del proprio destino. Un corpo fluido, dai contorni labili, e perciò intrinsecamente ibrido. Un corpo attraversato da elementi ed energie sottili, che lo intrecciano al resto di un ecosistema spogliato da sistemi di potere, rispetto al quale l’umano non è situato al di fuori o al di sopra. E il corpo femminile, innegabilmente connesso alla natura e custode dei segreti riproduttivi, ne è massima sintesi. La stessa Ildegarda di Bingen dona al femminino connotazioni magiche, se non pericolosamente divine: paragona la bellezza verginale della donna alla Terra, cioè colei che emana (sudat) quel divino flusso di linfa verde creativa e zampillante. Non a caso Maria è la viridissima virga, il “ramo più verde” nella sua Symphonia. Incompatibile con la prospettiva capitalista che vedeva il corpo come un mero strumento di produzione, il corpo femminile rappresentava un’intrinseca forma di resistenza alla disciplinarizzazione sociale.
Come ricorda Silvia Federici in Caccia alle streghe, guerra alle donne: “Insieme alle streghe si è spazzato via un intero universo socioculturale […] un mondo che oggi definiremmo superstizioso, ma che allo stesso tempo ci segnala l’esistenza di possibilità alternativa di relazionarci con il mondo.” Ciò che rimane è una società dissociata, sterilizzata, abituata a trattare la natura come l3 padron3 trattano l3 serv3. Che addirittura introduce la criminalizzazione delle piante psicotrope, complicando ulteriormente l’accesso a visioni dell’universo alternative e a forme di coscienza multidimensionali, irrazionali, oniriche. Ma il sapere resistente è destinato a perdurare: forse proprio ripartendo dal folklore e dai rimedi delle nonne, che a lungo hanno nutrito e guarito affidandosi a sapienze ataviche e ricchezze terrene. Incorporare piccoli rituali di autosufficienza nella routine quotidiana è un’opposizione sorprendentemente efficace contro il consumismo e la globalizzazione culturale, che preserva identità e diversità. Permette di mettere in discussione le dinamiche dell’utile, di riappropriarsi di approcci olistici, antichi ma oltremodo attuali. Ci riavvicina a una visione del mondo in cui la cura, la comunità e la connessione naturale sono centrali. Dal rinascimento psichedelico al più contemporaneo ecotransfemminismo, sono molte le pratiche che possono ancora “creare viriditas”, permettendoci di riconoscere la complessità non lineare della natura; di rifiutare l’eccezionalismo umano e le interpretazioni antropocentriche; di problematizzare i dualismi cartesiani che per secoli hanno giustificato dinamiche di potere profondamente inique. Soprattutto, di coesistere in una rete di relazioni composite e spesso simbiotiche. Atti politici e spirituali, che riportano l’individuo a una cosmogonia in cui la natura non è un oggetto da sfruttare, ma un soggetto vivo e connesso con il proprio essere.
Sono sdraiata in posizione fetale tra l’erba alta, in un nido modellato dal peso del mio corpo, e osservo i raggi di sole filtrare attraverso una fitta maglia di steli, ragnatele e spine. Mi trovo all’ombra di un fico d’india, rapita dalla scia opalescente che una piccola lumaca nera sta disegnando alla base del suo tronco. La sua saliva è la stessa che annebbia la mia bocca, amara dall’infuso turchino che ho sorseggiato qualche ora prima. I battiti sono calati, il fiato è sottile quanto l’impalpabile peluria che ricopre un gambo di borragine di fronte a me. Fisso lungamente il suo manto in controluce, sento le sue ciglia allungarsi fino a connettersi alle mie. Il ronzio di un insetto mi distrae e rotolo sulla schiena. Esattamente sopra di me un ramo del fico completa la sua curva, facendo dondolare una pala sulla mia testa. La brezza fa oscillare quella goccia verde e piatta, che sembra pronta a benedirmi, e che da chissà quanto aspetta paziente la mia attenzione. Allungo la mano e stringo l’ovale, cercando di appoggiare i polpastrelli negli spazi vuoti tra una spina e l’altra, dovrò aspettare il calare della sera per scoprire se ci sono riuscita. Con il braccio a mezz’aria mi riadagio sul fianco; guancia alla terra, torno a guardare l’orizzonte. Stendo l’altro braccio verso il tronco per cercare la scia traslucida, ora persa in un viluppo palpitante di licheni. Il fico e io fluiamo entrambi dalla terra. Tocchiamo le rispettive estremità chiudendo il cerchio, che ora finalmente riesco a vedere.