Fantafemminismi

Sugli universi possibili de Le visionarie, l’antologia di speculative fiction femminista curata da Ann e Jeff VanderMeer

Pubblichiamo la postfazione a Le visionarie, l’antologia di speculative fiction femminista curata da Ann e Jeff VanderMeer appena pubblicata nella collana Not di NERO e coordinata per l’edizione italiana da Claudia Durastanti e Veronica Raimo. È possibile acquistare Le visionarie o in libreria, o attraverso i consueti canali online, o direttamente qui.

Quando ci è stato chiesto di curare Le visionarie, ci siamo ritrovate dentro una perfetta congruenza. Nel corso del nostro lavoro abbiamo partecipato a diverse antologie di scrittrici, che fossero di fiction o non fiction, ma Le visionarie ha fatto qualcosa di diverso: ci ha permesso di incrociare le nostre posizioni su femminismo e scrittura di genere con la fantascienza e la distopia, due modalità di racconto a cui abbiamo dedicato sempre più attenzione nel corso degli ultimi anni. Per quello che sarebbe improprio chiamare semplicemente «caso», entrambe abbiamo sviluppato un interesse crescente verso opere ascrivibili alla speculative fiction. Uno dei problemi iniziali nel tradurre l’antologia è stato proprio rendere in italiano l’espressione «speculative fiction»: abbiamo optato per mantenere la dicitura inglese perché qualsiasi rimando a «letteratura di genere» avrebbe depotenziato il carattere teorico e politico insito nella definizione. Per fortuna i confini della speculative fiction non sono prescrittivi, e nella categoria per noi rientrano tanto Guardami di Jennifer Egan quanto i racconti di Mariana Enriquez, oltre ai classici delle autrici contenute in questa raccolta.

Quando ci siamo confrontate sul perché del nostro recente allineamento, cercando una ragione che non si arrestasse appunto alla casualità, la risposta più semplice e istintiva è stata che un certo tipo di realismo – chirurgico, analitico, rigoroso – aveva smesso di incuriosirci e stimolarci. Non soltanto da lettrici, ma anche in fase di scrittura. Nella nostra crescente diffidenza verso i romanzi che si propongono di analizzare il presente senza tenere conto delle sue continue incursioni nell’altrove – futuro, passato o sotterraneo che sia – si era verificato una sorta di paradosso: immaginate di affrontare un cruciverba per abili risolutori conoscendo già le definizioni (con conseguente riduzione dell’interesse a risolverlo), cominciando al tempo stesso a dubitare della pertinenza e dell’attualità di quelle definizioni. Il filtro del realismo sembrava generare un senso di inadeguatezza nel raccontare le storie che volevamo raccontare.

I curatori di questa antologia – Ann e Jeff VanderMeer – si sono impegnati in prima persona a promuovere presso un pubblico sempre più ampio la speculative fiction a carattere ambientalista e il sottogenere new weird; nel tentativo di rispecchiare la natura dei loro intenti e del loro lavoro, abbiamo chiamato a raccolta una serie di autrici, traduttrici e accademiche che ci piacciono e che sentiamo vicine per sensibilità, sperando che questo cambiamento nelle nostre esperienze di lettura e scrittura potesse riguardare anche loro. Hanno risposto tutte con un entusiasmo piuttosto raro: la prova ulteriore che questa espansione della speculative fiction non fosse una semplice coincidenza.

Da dove arriva quindi il nostro interesse verso il fantastico, l’ucronia o la distopia?

In alcuni casi si tratta di passioni di lungo corso o di recuperi del fantasy mollato dopo l’adolescenza; in altri ancora di una vera e propria scoperta. Una scoperta in cui la serialità televisiva e il cinema hanno giocato un ruolo cruciale: il Racconto dell’Ancella di Margaret Atwood è sempre stato un caposaldo della narrativa femminista, ma dopo il suo adattamento HBO ha raggiunto uno status quasi mitico, destinato a influenzare una nuova generazione di lettori e lettrici.

Non abbiamo statistiche alla mano, ma ci sembra oggettivo che si stia formando un pubblico attratto da un tipo di narrativa che sposta l’orizzonte di riferimento della letteratura mainstream (intesa qui come letteratura fuori dal reame della speculative fiction). È indicativo ad esempio che La trilogia dell’Area X dello stesso Jeff VanderMeer abbia intercettato in Italia l’interesse di un editore classico come Einaudi.

La contaminazione del nostro immaginario avvenuta per mezzo di Black Mirror, Stranger Things, e prodotti quasi new weird come The OA, ha creato un’ansia di realtà aumentata, un genere di distorsione che non tende né al realismo magico né a una fantascienza irrimediabilmente futuribile.

Un dato interessante è che questo slittamento – l’insinuarsi di elementi fantastici, surreali e distopici all’interno di una storia – è avvenuto più tramite la rappresentazione visiva che attraverso anni di dibattiti o rovesciamenti in ambito letterario. Anzi, per come si sono riconfigurati i rapporti tra la letteratura e serialità tv, c’è stata quasi una legittimazione di questo tipo: la speculative fiction è letteraria perché televisiva, non il contrario.

La contaminazione del nostro immaginario avvenuta per mezzo di Black Mirror, Stranger Things, e prodotti quasi new weird come The OA, oltre al cinema del nuovo regista di culto Danis Villenueve, ha creato un’ansia di realtà aumentata, un genere di distorsione che non tende né al realismo magico né a una fantascienza irrimediabilmente futuribile. Se un tempo la creazione di mondi altri contemplava una spinta immaginifica che mutuava le sue visioni da una tecnologia radicale, estremizzante, oggi le stesse visioni si interrogano sui codici del contemporaneo, li mettono in crisi, li rovesciano, li deformano; ciò che è in grado di generare un attrito stimolante non è più basato sull’invenzione di qualcosa che non c’è, ma sulla manipolazione dell’esistente.

E anche in questo senso il realismo lascia intravedere l’usura dei propri strumenti, perché l’obiettivo non è più «decriptare i codici» ma indagarne l’ambiguità, una messa a fuoco che consente un margine necessario di sfocatura. Il futuro si è contratto, non ci sono grosse architetture fantascientifiche, protesi o dispositivi alla William Gibson di cui rendere conto; anche il tasso di contagio tecnologico dell’antologia è piuttosto basso (semmai, troviamo un intervento rispetto alla malattia come in «La sera, il giorno e la notte» di Octavia E. Butler o alle mutazioni che colpiscono la collettività in «La soluzione della mosca» di James Tiptree Jr).

Nei racconti compaiono proprio le avvisaglie di quel realismo distopico reso paradigmatico dalla stessa Black Mirror, cha si è autopromossa parlando di un futuro cupo e quasi totalitario a cinque minuti da adesso. Ogni riduzione dei diritti, ogni anelito di vendetta, e ogni anticipazione chimerica di una società giusta tra le pagine de Le visionarie non risuona sinistro o profetico quanto banalmente contingente. È poi vero che è proprio la conformazione del reale ad alimentare questo bisogno di mondi paralleli dalla funzione prismatica: alla luce di alcune uscite del governo Trump in merito ai diritti riproduttivi o all’aborto, la repubblica di Gilead descritta da Margaret Atwood ne Il racconto dell’ancella non sembra più una distopia quanto una traduzione del nostro mondo in un’altra lingua.

In questo senso la traslitterazione di un’antologia come Le visionarie assume un valore particolare: oltre a lavorare sulla lingua, abbiamo dovuto tradurre universi dalle strutture sociali e relazionali alternative, cercando di renderle familiari nel nostro contesto. Paradossalmente in questa azione di traghettamento da una dimensione all’altra, non c’è stata una traduzione della stranezza: forse proprio per le conformazioni assunte dal presente – spesso distante dal periodo in cui i racconti sono stati scritti – nessuno di questi racconti parla dell’impossibile, e l’antologia spazia sì geograficamente, ma senza creare esotismo o straniamento come prodotti di una cultura distante.

Sul piano paesaggistico e visionario, ciò che accade è un po’ come il reboot di Blade Runner di Villeneuve, in cui cambia la gamma dei colori, ma la proposta del mondo distopico è sostanzialmente simile a quella di trent’anni fa, anche per ragioni di coerenza: le città che ospitano questi racconti sono quasi sempre riconoscibili, e i mondi paralleli possono essere desertici o boschivi come nelle fiabe, ma persiste un tono da fantascienza «della porta accanto».

Sono realtà di trincea non inedite, e in alcuni casi prefigurano una tendenza che oggi è diventata dominante: scomparso il blockbuster catastrofista, restano avventure paradossali il cui messaggio è «potrebbe capitare anche a te»; il grado di separazione tra la realtà e ciò che non lo è va riducendosi. Tradurre Le visionarie è stato un viaggio in diversi passati e diverse possibilità di futuro, eppure tutti ravvicinati, a cui non corrisponde un proposito escapista: l’altrove qui è quasi sempre politico!I racconti dell’antologia ricoprono un arco temporale che va indietro fino agli anni Sessanta. Volendo farne un’analisi diacronica, si può notare l’evoluzione di alcune tematiche storiche, ma in sostanza il grosso della raccolta è un riflesso della terza ondata del femminismo all’insegna della diversità, soprattutto razziale. Sono poche le questioni strettamente LGBT, e la differenza è soprattutto di appartenenza etnica ancor prima che di classe o legata alla disabilità.

Non c’è ancora il femminismo di internet, non c’è quello dell’antropocene teso ad ampliare il discorso della non centralità dell’umano stando alle ultime evoluzioni della filosofia contemporanea, e manca spesso una conversazione dialettica con modelli complessi e multidimensionali di mascolinità. La visione domestica di alcune storie, poi, ci permette di misurare una scomparsa, un progresso sulla base di ciò che è diventato invisibile: oggi una scrittrice di speculative fiction che lavora all’interno del canone occidentale forse non baserebbe un racconto su una divisione dei ruoli come quella in «La sposa perfetta» di Angélica Gorodischer, se non in maniera parodistica.

Pur essendo un’antologia varia, non è ancora fortemente intersezionale, dove l’intersezionalità non sta tanto per la coesistenza e l’accumulo di più identità storicamente marginali, quanto per un processo di scomposizione della società e dei rapporti di potere che mettono queste identità in una posizione vulnerabile: sono temi che negli anni hanno preso pieno possesso della speculative fiction e della letteratura più canonica, ma che durante la stesura di molti racconti non facevano ancora parte di un vocabolario femminista condiviso. Senza le anticipazioni della surrealista Leonora Carrington o di Angela Carter, tuttavia, quel vocabolario non sarebbe stato neanche scritto. Molte storie, inoltre, restano ancorate al tema della maternità come destino biologico («Le lacrime della madre» di Leena Krohn, «Racconti dal seno» di Hiromi Goto). La maternità si con gura come il punto di partenza e il limite invalicabile, comprendendo tra i due estremi un territorio non ancora decolonizzato.

Può essere ambiguo notare come i racconti focalizzati sulla maternità e la riproduzione siano quelli linguisticamente più opachi, rispetto a quelli che cercano di reinventare il mondo, visionari nel vero senso della parola: quando ci si sgancia dal corpo, pare che ne guadagni anche lo stile.

Ogni raccolta è un riflesso del suo tempo, ma qui dentro ci sono intuizioni che avranno un destino letterario molto forte: basta pensare alle donne che si trasformano in pianeti o piante (la mente va subito a La vegetariana di Han Kang) come strategia di emancipazione apparentemente passiva, ma che in realtà va a ridimensionare quella che viene considerata ancora la prima frontiera della persona, in maniera quasi ossessiva: il corpo. E a quest’ossessione diverse autrici reagiscono con la disintegrazione materiale, tramite un processo di accrescimento fisico di sé che ha del mostruoso, un iper-corpo espanso e deforme («Zie» di Karin Tidbeck), oppure un corpo che si annulla nello spaziotempo, attraverso la dimensione del viaggio e dell’assenza, oppure ancora con un uso reiterato della seconda persona singolare, in cui il soggetto si rivolge costantemente a un altro da sé e si sdoppia («Jestella» di Susan Palwick).

In un’antologia di questo tipo, può essere ambiguo notare come i racconti focalizzati sulla maternità e la riproduzione siano quelli linguisticamente più opachi, rispetto a quelli che cercano di reinventare il mondo, visionari nel vero senso della parola: quando ci si sgancia dal corpo, pare che ne guadagni anche lo stile. È probabile che su questa constatazione pesi una nostra insofferenza personale, significativa anch’essa, soprattutto in tempi di ritorno della maternità sacra che si incrocia con la mindfulness. Se da un lato c’è un’estremizzazione parossistica della facoltà generatrice del corpo femminile, dall’altra la tensione libertaria si spinge verso forme di autoannichilimento o alienazione da sé (la trasformazione in corpi celesti, in corpi vegetali o la ricerca del nulla totale).

Ci siamo chieste se allora fosse necessario per ricreare un’identità di genere svincolata dalla sua matrice riproduttiva, ripartire da uno zero artificiale, da un’organicità non umana e inerziale. È una questione inquietante, perché l’idea di trovare una forma di libertà nell’annullamento o in pratiche di trascendenza paci canti rischia di spostare la conflittualità (relazionale e politica) su un terreno non soltanto estremamente individualista, ma anche antiscientifico, dando vita a un diverso tipo di stregoneria contemporanea. In questo senso, una serie televisiva che abbiamo amato entrambe, The OA, ci è sembrata una critica sottile – per quanto giocata su un’intimità con certe strategie di disintermediazione, che quasi sconfina nell’autoparodia – a una generazione intenzionata a risolvere la tensione personale e sociale attraverso la pranoterapia, lo yoga o il reiki e a far coincidere questo con un aspetto lavorativo ipercompetitivo, il trionfo di un capitalismo laico e brutalizzante.

Se oggi ci affezioniamo a un certo tipo di personaggi o mondi fantastici e la nostra insofferenza al realismo classico o postmoderno aumenta, è anche perché siamo passati dalle storie di questi autrici, spesso senza saperlo. C’è un vero e proprio e etto di sorpresa, per esempio, nel leggere il bellissimo «Tredici modi di concepire lo spazio/ tempo» di Catherynne M. Valente e rendersi conto della sua affinità con l’esistenza palindroma di Ted Chiang in «Storia della tua vita», il famoso racconto da cui è stato tratto Arrival: in entrambi i casi il tempo non è fatto da direttrici univoche ma da fori di entrata plurimi, si crea una nebulosa di significati in cui l’identità dei personaggi si coagula solo per istanti.

Una delle sfide fondamentali della speculative fiction – anche per la buona tenuta di una storia – è la capacità di creare un universo coerente. Sono mondi paralleli in cui è facile entrare ma da cui è complicato uscire, e non a caso tante storie di questo tipo iniziano a sgretolarsi nei pressi della fine, da cui ci aspettiamo una verosimiglianza o una spiegazione razionale nonostante i presupposti siano fantastici, finendo col tradire l’esperienza che abbiamo appena fatto: come si esce allora da questi universi, che proposta politica c’è, quali diventano le scelte dei personaggi dentro un diverso codice etico? Come cambia il nostro sguardo?

Quasi tutti i racconti de Le visionarie non si dissipano nel nichilismo facilmente preventivabile, né prospettano soluzioni votate alla nostalgia di mondi perduti, ma optano per una struttura aperta e non compiacente, in linea con il finale del racconto dedicato alle parole proibite di Margaret Atwood, ripensata come una scrittrice nera e militante che ha poche consolazioni da offrire alla giornalista decisa a raccontare la sua storia: «forse non potrò mai avere una registrazione fedele delle sue parole. Ma grazie a Margaret A. ora vado cercando a tentoni quei paraocchi che hanno ristretto e oscurato la mia vista, per potermeli strappare di dosso e vedere un mondo più vasto e luminoso di quanto abbia mai sognato». Il nostro auspicio è che la lettura de Le visionarie faccia la stessa cosa, creando legami inediti e vitali tra una serie di universi possibili.