L’intervista che state per leggere è un’introduzione, un primo ingresso possibile, dentro quel che, sulle prime, potremmo definire l’inconscio dei nostri tempi. È un incontro con Erik Davis – l’autore di un libro memorabile come Techgnosis (che ora Not ripubblica in una nuova traduzione e in un’edizione ampliata) – avvenuto in un certo senso al di là dello specchio, al di là della soglia di ciò che vediamo accadere ogni giorno e che prende le forme del mondo disegnato dalle tecnologie digitali. È l’approccio che qui mi sembra decisivo: possiamo affrontare le manifestazioni esterne della realtà corrente per quel che sono (ed è ciò che la ragionevolezza ci spinge a fare con i risultati spesso inconcludenti che ci regala il gioco delle apparenze) oppure possiamo guardarle da dietro, fotografandone il negativo, scendendo oltre il limite che separa il visibile dall’invisibile. Erik Davis abita questa zona di confine.
Con Techgnosis ci hai insegnato – e ci insegni – a leggere le tecnologie digitali come forme in cui continuano a manifestarsi modelli sapienziali e tradizioni spirituali. Che cosa significa adottare questo approccio? E qual è l’impatto politico di una visione di questo tipo?
Ci sono tre ragioni principali per cui ho esplorato questo approccio quando ho iniziato a fare ricerche sul progetto Techgnosis negli anni Novanta. Una è semplicemente che, nonostante le prove di questa profonda connessione fossero ovunque, nessuno ne parlava, per lo meno al di fuori della fantascienza cyberpunk. Un’altra è che, mentre in quell’epoca alcune persone rendevano omaggio a Marshall McLuhan a parole, io ritenevo che il suo lavoro e il suo approccio potessero essere aggiornati e rivitalizzati se la coscienza spirituale che, a mio parere, aveva contribuito a plasmare il suo lavoro potesse essere portata avanti in forme più specificamente religiose ed esoteriche.
Infine, ero convinto che le tradizioni spirituali e l’occultismo fungano da subconscio della tecnologia e che qualsiasi tipo di movimento liberatorio, personale o sociale, richieda di portare alla luce questi schemi profondi. Un impatto politico diretto di questo approccio è stato quello di rivelare i modelli religiosi e persino apocalittici che guidavano le opinioni apparentemente razionali e orientate al business della Silicon Valley. Techgnosis ha aiutato a de-naturalizzare tutto questo.
La mia impressione è che le tecnologie digitali mettano all’opera una sorta di voodoo digitale. Nel momento in cui ciascuna e ciascuno di noi forniamo i nostri dati alla struttura algoritmica che ci governa, si crea un doppio digitale di noi stessi. Ed è su questo doppio digitale che la struttura algoritmica poi agisce per controllare, sorvegliare e infine dirigere i nostri comportamenti. Che cosa ci può insegnare il grande mito del doppio all’interno di questo nuovo capitalismo della sorveglianza?
Penso che il doppio sia fondamentale e che sia operativo anche a livello psicologico. Se il rapporto con il doppio è rappresentato dal perturbante (uncanny), allora le nostre interazioni online e i nostri movimenti nello spazio dell’informazione sono per natura sempre più perturbanti. Qui l’ultimo libro di Naomi Klein, Doppelganger, è particolarmente brillante. Non solo sottolinea tutto ciò che dici sui nostri doppi digitali, ma analizza anche come gran parte della nostra politica di polarizzazione funzioni lungo linee mimetiche o raddoppiate, in modo che il linguaggio e le immagini che guidano un determinato gruppo vengano riprodotti, ma leggermente alterati nel tempo.
“Fake news” è originariamente un termine degli attivisti liberali di sinistra nato per sostenere migliori pratiche di informazione, ma poi diventa un termine nella mente di Donald Trump. Questo parallelismo aiuta a spiegare la vibrazione inquietante, uncanny, di gran parte della nostra politica, quando i nostri punti di riferimento familiari passano attraverso una sorta di specchio deformante. L’intelligenza artificiale e l’emergente ecologia dei bot intensificheranno spaventosamente tutto questo.
Un grande studioso della tradizione mistica islamica, Henry Corbin, sosteneva che la scomparsa dell’immaginazione rappresentava una catastrofe dello spirito. Per Corbin, infatti, l’immaginazione è quella facoltà che sta in mezzo, tra i sensi e l’intelletto astratto; nell’immaginazione ciò che è concreto, cioè la percezione sensibile della realtà, si astrae e, nello stesso tempo, ciò che è astratto, cioè il nostro pensiero logico, si concretizza prendendo una forma visualizzabile. L’immaginazione è insomma quel luogo tecnicamente magico in cui s’incontrano il Cielo e la Terra, il concreto e l’astratto; è l’asse del mondo. Le tecnologie digitali, muovendosi tra astrazione algoritmica e concretezza delle nostre vite non stanno sostituendo e parodiando l’immaginazione? E con quali conseguenze, secondo te?
La teoria di Corbin è in un certo senso una teoria della mediazione. Ma il suo uso del linguaggio era importante. Per Corbin, l’immaginazione genuina, incarnata dalle essenze spirituali, era “l’Immaginale”. Ma l’Immaginale era già ombreggiato dalla sua stessa parodia: mera immaginazione, o fantasia, come quella che la nostra mente fa quando vaga o che i cattivi poeti seguono quando scrivono versi stereotipati. Coleridge fece una distinzione simile anche nella sua concezione kantiana dell’immaginazione, che fu incredibilmente influente sul Romanticismo anglofono. Questo è importante perché se da un lato possiamo giustamente criticare le tecnologie digitali come parodie o parassiti dell’immaginazione genuina, dall’altro l’immaginazione umana è già divisa su questa linea, tra vere mediazioni spirituali e pretendenti corrotti o dionisiaci. (Il problema dei simulacri risale a Platone).
Anche le forme mediatiche più antiche, la pittura e la scrittura, mediano tra astrazione e realtà concreta in modi che riflettono e usurpano il nostro senso di immaginazione “integrato”. Detto questo, qualcosa di veramente diverso è in atto, soprattutto con l’IA che sta trasformando l’arte dell’illustrazione (tralasciando se le sue illustrazioni contino o meno come “arte”). Parte dell’inquietudine di Midjourney e simili è che percepiamo che gli algoritmi e gli insiemi di dati stanno colonizzando non solo il nostro inconscio, ma la stessa facoltà di immaginazione. Ma quando gli artisti usano i nuovi strumenti per plasmare e sfrondare in modi ingegnosi, non sta forse accadendo qualcosa di diverso, qualcosa di più “cyborg” che parassitario?
La storia delle tecnologie digitali si è sempre mossa tra due opposti: da una parte la sua origine militare e dall’altra la sua origine libertaria. Internet è infatti figlia sia dell’esercito sia della cultura psichedelica. Tu hai riflettuto molto sulla psichedelia e tra poco uscirà un tuo libro sulla blotter art, cioè su quelle opere d’arte stampate su carta assorbente e divise in francobollini impregnati di LSD. Oggi noi sappiamo che le medicine psichedeliche possono temporaneamente disorganizzare il nostro cervello e liberare i nostri pensieri e i nostri sentimenti dagli schemi che ci condizionano. La psichedelia può riscattare e liberare le tecnologie? In che misura ritornare alla psichedelia, e quindi a una delle fonti della nascita di internet, può contrastare il controllo e la sorveglianza che invece, come dicevamo, caratterizzano la pervasività delle tecnologie digitali?
Da un lato, è giusto vedere gli psichedelici come un contrappeso alle tecnologie e alle esperienze digitali. Esse possono attirare le persone nella natura, al di fuori dei normali schemi di pensiero e di reazione, in nuove e antiche cosmovisioni e in formidabili sommovimenti di rinnovamento. D’altro canto, però, si assiste alla convergenza tra le tecnologie digitali e la nuova cultura psichedelica: app che fanno il lavoro di “integrazione”, nuovi mondi in VR che simulano la fenomenologia psichedelica e nuove ideologie che fondono il transumanesimo psichedelico con modelli straordinariamente antidemocratici e reazionari del futuro tecnologico. Si tratta quindi di un’altra situazione ambigua.
Detto questo, gli psichedelici possono svolgere un importante ruolo liberatorio, consentendo nuove forme di plasticità e di riorganizzazione degli schemi, insieme alla loro capacità di aprire percezioni transpersonali e animiste che offrono la possibilità di trasformare il nostro rapporto con il mondo e la natura in un momento in cui tale rapporto sta per cambiare, forse radicalmente, che lo vogliamo o no. Nelle giuste circostanze, gli psichedelici possono far emergere nuove forme di socialità e di comunità. Ma anche se non facessero altro che attenuare lo stress, il trauma e l’ansia della nostra situazione globale, permettendo alle persone di abituarsi alle transizioni radicali che stanno avvenendo nel loro contesto e nella loro coscienza, allora starebbero facendo qualcosa di buono.
Non corriamo il rischio che lo stesso “rinascimento psichedelico”, un po’ come internet, diventi una forma di sfruttamento, e quindi di profanazione, della grande tradizione sapienziale e mistica? Mi spiego: l’esperienza psichedelica, il contatto mistico, sono ciò che dà forma alla filosofia perenne dell’umanità. Il fatto che di questa conoscenza se ne approprino invece le industrie farmaceutiche, l’interesse economico, facendo precipitare questi insegnamenti sacri in una cornice intellettuale utilitaristica, che rischio rappresenta? Insomma, dobbiamo sperare nel Rinascimento psichedelico o dobbiamo temerlo? Non ti nascondo che io propendo per la seconda impressione.
Sono profondamente preoccupato per le possibilità che descrivi. Il tentativo di medicalizzare queste sostanze le integra nel sistema patologico esistente. E mentre molti sperano che gli psichedelici si rivelino una panacea, l’antropologia medica e l’aneddotica suggeriscono anche che questa è una fase breve, che sarà probabilmente seguita da un quadro più complesso della loro efficacia per le difficoltà psicologiche. L’utilitarismo che temi diventerà più che altro un “set and setting” per le persone, con il rischio concreto di prosciugare il potenziale sacro e transpersonale delle esperienze psichedeliche o, forse ancora peggio, di ridurlo a fuochi d’artificio neurali privi di significato lungo la strada del cambiamento cerebrale, diluendo così una delle importanti caratteristiche degli psichedelici: la loro sfida ai nostri sistemi di significato.
Almeno in America, c’è anche un robusto dibattito sulle forme, nuove e tradizionali, di religione e spiritualità psichedelica e su come dovrebbero essere trattate con il giusto rispetto dalla nostra società. Rispetto a un modello puramente medico/capitalista, questo offre un contrappeso in qualche misura più transpersonale che vale la pena seguire e persino sostenere, anche se solleva a sua volta altri problemi. In tutti i casi, il ruolo della guida/leader/terapeuta/sciamano sarà problematico, e lo sarà sempre di più man mano che un numero maggiore di persone si precipiterà sia a “guidare”, sia ad essere “guidato”. Potremmo aver bisogno di esplorare modelli più collettivi e peer-to-peer, poiché il lavoro di gruppo potrebbe aiutare a creare connessioni personali e sensibilità collettiva che potrebbero arginare l’individualismo che ora domina il modello della guarigione psichedelica.
Illustrazioni di Pedro Friedeberg