Un tostapane viene sequestrato a seguito di un disastroso incendio domestico. Le vittime sono i membri di una famiglia deceduta per cause estremamente singolari: l’ingerimento di oltre 10 kg di pane, il tentativo di divorare una presa elettrica – causa dell’incendio stesso – e un rapporto sessuale finito in tragedia con il tostapane sopracitato. A salvarsi, solamente il membro più anziano del nucleo famigliare. Il resoconto dell’incidente sembra scritto dall’elettrodomestico in persona.
SCP-426 è un’entità dalle sembianze di tostapane, la quale costringe gli individui che vi si imbattono a immedesimarsi con l’elettrodomestico in prima persona; la sua pericolosità scaturisce nel momento stesso del contatto, diffondendosi viralmente da individuo a individuo. In altre parole, questo tostapane è un meme.
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Questo racconto fa parte degli innumerevoli resoconti redatti dalla community della fittizia SCP Foundation, il monumentale progetto collettivo nato su 4chan nel 2007 che si occupa dell’identificazione di fenomeni, anomalie ed entità inumane, spesso catalogate sotto forma di resoconti scientifici o istruzioni di contenimento. Nella lore della SCP Foundation, entità come il nostro tostapane weird vengono spesso considerate come meme, ma in un’accezione che va oltre il semplice fenomeno culturale. Se i meme stessi, in quanto unità basilari e trasmissibili della cultura, quantomeno nella celebre definizione di Richard Dawkins sono tradizionalmente in grado di diffondersi da individuo a individuo, creando e trasformando continuamente nuovi sistemi culturali, nel contesto della Foundation essi acquisiscono un carattere inquietante e problematico, diventando non solo elementi di diffusione, ma vere e proprie forze virali che alterano la percezione della realtà, hackerando la mente degli individui con cui entrano in contatto.
Se tutto quello che abbiamo deliberatamente rigettato e scaricato sulle diverse piattaforme che abitiamo virtualmente avesse iniziato ad associarsi, a creare il proprio modo di abitare internet? In una foresta notturna di occhi digitali, la paranoia diviene una torcia
Esplorando il database della SCP Foundation è possibile rintracciare una grande quantità di fenomeni analoghi, come SCP-732 o SCP-423, che si diramano in sterminate narrazioni capillari, frutto dello sforzo collettivo che opera alla base del progetto e degli input esterni, come ad esempio i thread di Reddit che ne incrementano la proliferazione. Nella mitologia della Foundation, i meme divengono quindi dei veri e propri elementi di worldbuilding, sfruttando i connotati non umani delle entità che li trasportano e li diffondono. Questo processo di costruzione di mondi immaginari risulta profondamente disturbante proprio perché alla sua base non vige un’azione umana cosciente. Secondo Susan Blackmore infatti, i meme stessi sarebbero in grado di dar vita a interi ecosistemi digitali e a garantire la diffusione proprio grazie alla loro agentività, dominata da algoritmi anziché da interazioni umane. SCP-426 e il suo perturbante operato svelano dei mondi ignoti e incontrollabili, degli universi che impiegano le tracce che inconsapevolmente lasciamo dietro di noi a ogni click, accesso e scroll quotidiano per dare vita a dinamiche anonime e sconosciute. Certo, la SCP Foundation non è altro che un metaverso di creepypasta, niente che può essere preso troppo seriamente per chi è fuori dalle leggende urbane che serpeggiano tra un forum e l’altro. Allo stesso tempo, nelle sue esagerazioni, sembra suggerire che non siamo più i soli abitanti di internet. Impegnati nei nostri scroll quotidiani ci rendiamo conto anche senza volerlo di essere circondati da post, interazioni e profili generati automaticamente, un intero ecosistema fatto da bot creativi, prompt degenerati e spam testardi. E se si trattasse davvero di un worldbuilding sorto in modo anonimo e collettivo? Se tutto quello che abbiamo deliberatamente rigettato e scaricato sulle diverse piattaforme che abitiamo virtualmente avesse iniziato ad associarsi, a creare il proprio modo di abitare internet? In una foresta notturna di occhi digitali, la paranoia diviene una torcia.
What the heck is going on on on on on on on…
Nel 1999 – anno di nascita di Napster, il primo vero e proprio programma di scambio di file peer-to-peer globale – David Bowie dichiarò alla BBC che internet non era semplicemente uno strumento, ma si trattava di una forma di vita aliena. Questa dichiarazione assume un altro senso di fronte al diffondersi di fenomeni come le cursed images e la viralità musicale. Una cursed images, letteralmente un’immagine maledetta, può essere qualsiasi cosa e i parametri che la definiscono sono molto labili. Tendenzialmente si tratta di immagini di bassa qualità, ma a essere importante è la reazione che esse sono in grado di generare: sono immagini dotate di una forte carica enigmatica e con diversi gradi di inquietudine. L’origine di questo termine può essere fatta risalire a un blog creato su Tumblr nel 2015, il quale raccoglieva immagini associate solamente da questa sensazione di essere immagini fuori posto, dei veri e propri portali che inceppano la verticalità infinita di contenuti sempre più simili a loro che accompagnano i nostri spostamenti online. Il sottotitolo del sito è esplicito riguardo alla funzione di tali immagini: se sei qui, è già troppo tardi.
Altrettanto frequente è imbattersi in canzoni o, meglio, frammenti musicali che di lì a poco si impossesseranno della vostra attenzione. Il termine viralità esprime bene la funzione di diffusione incontrollata che alcuni brani musicali riescono a ottenere in una manciata di secondi. Come i virus studiati dalla biologia, le canzoni destinate a divenire virali sono dotate di due parti: la struttura musicale stessa che per essere assorbita richiede una soglia di attenzione per lo meno superiore al minuto, e una parte più ristretta, più leggera, che contiene tutte le informazioni necessarie per la riproduzione e che tendenzialmente coincide con il ritornello. Sezionando o accelerando un brano esso è ridotto a puro potenziale virologico, il cui scopo è di superare la soglia di attenzione e agganciarsi alla memoria. È interessante notare inoltre come alcuni di questi meme sonori divengano colonne portanti nella costruzione di ecosistemi in rete proprio grazie alla loro incontrollabile viralità. È il caso del linguaggio usato dagli Skibidi Toilet nell’omonima serie di video creata dall’utente DaFuq!?Boom! su Youtube, dove una specie sconosciuta di water dalla testa umana invade la Terra in un crescendo di disturbante non-sense.
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Il meme sonoro in questione è una combinazione dei brani Give It to Me del rapper Timbaland e Dom Dom Yes Yes di Biser King, riconvertito all’interno del mondo di Skibidi Toilet come unica forma di comunicazione adoperata delle creature. Il meme sonoro utilizzato da DaFuq!?Boom si muove parallelamente all’approccio stesso degli esseri infestanti protagonisti della serie, riflettendosi apertamente nel fenomeno dell’earworm, ovvero l’incapacità di togliersi dalla testa un brano o una melodia. In Guerra Sonora Steve Goodman analizza questi fenomeni gettando le basi per un’audiovirologia all’altezza dei fenomeni di infezione e propagazione acustica contemporanei:
“I singoli artisti o produttori, per esempio, diventano vettori, gli eventi diventano casi di epidemia, le scene diventano zone di contagio, il commercio diventa uno scambio di fluidi o particelle sonore contagiose, la radio diventa letteralmente una rete di trasmissione e il cyberspazio acustico, sia nel suo dominio analogico che digitale, diventa un campo epidemiologico di contagio affettivo”
Ma perché possa essere efficiente un’audiovirologia ha bisogno di essere costantemente aggiornata, tenendo conto degli infiniti spostamenti che la guerra acustica contemporanea continua a subire. È cruciale, ad esempio, evidenziare come molti meme sonori che invadono il nostro spazio acustico riescano nella loro propagazione attraverso quello che in termini psicologici è descritto come effetto Zeigarnik. L’effetto Zeigarnik indica la tendenza della nostra mente a ricordarsi e fissarsi su eventi e azioni che risultano incomplete o irrisolte. Strappato dalla sua pesante struttura musicale, un brano riesce a muoversi più velocemente su TikTok perché ciò che rimane è solamente l’elemento che contiene la maggiore carica virologica, lasciando insoddisfatto il desiderio di sapere che cosa precede o continua tale parte. Pronto per lo spillover, il virus musicale usa come proprio corpo i profili e le interazioni dei diversi attori che abitano gli ecosistemi delle piattaforme. Un esempio perfetto, a questo proposito, è l’evoluzione di Cellophane di FKA Twigs e il modo in cui essa è divenuta un virus sonoro dotato di una propria agentività. Nel 2022, l’utente boyfriend.dick3 carica sul suo profilo Instagram una cover vocale del pezzo Cellophane della cantante britannica FKA Twigs, realizzata però imitando la voce del celeberrimo personaggio dei Muppets Miss Piggy. Il risultato è una versione snaturata del brano originale, dai risvolti comici, pur mantenendo riconoscibile il materiale sonoro di partenza. Nel corso dei mesi successivi, il sample viene assimilato, digerito e rimodellato attraverso diversi profili, utenti e media, fino a quando, nel 2023, il TikToker drawzillazzz realizza un’animazione in cui un cane di razza borzoi aiuta lə proprietariə a recuperare l’ultima Pringles sul fondo del barattolo grazie al suo lungo muso, il tutto accompagnato dal ritornello “Let Me Do It For You” del brano. La storia non finisce qui: il borzoi diviene protagonista di una sconfinata serie di video sempre più surreali, in cui il suo muso si allunga a dismisura per raggiungere luoghi come gli abissi marini, altri piani dimensionali o addirittura il Paradiso, perennemente mosso dal desiderio di aiutare lə proprietariə. Quello che il meme di Let Me Do It For You riesce a costruire è una narrazione perturbante che si evolve nel tempo, raccogliendo esponenzialmente con sé sempre più frammenti di materiale destabilizzante, alimentato da quel senso di strana cuteness virale tanto diffusa nelle piattaforme. Che si tratti di immagini o brani musicali, cercare di captare e guidare queste forme di agentività aliena sta diventando sempre più complesso.
Elsagate e Zombie Internet
Elsa, principessa del film Frozen, è intenta a truccarsi in salotto. Improvvisamente, il Joker di Heath Ledger appare alle sue spalle, la tramortisce con una mazza da baseball di gomma e le impiastriccia il volto con i rossetti presenti sul tavolo. Al suo risveglio, il Joker è sparito, ma fortunatamente il suo caro marito Spiderman è rincasato. Altro dettaglio: Elsa è misteriosamente incinta. Questo folle scenario è ciò che accade in uno dei migliaia di video presenti su Youtube racchiusi nel fenomeno del cosiddetto Elsagate. Si tratta di una serie di video presenti sulla piattaforma YouTube Kids e realizzati con svariate tecniche – dal live action, all’animazione – in cui la principessa Elsa è intenta a svolgere azioni contorte in compagnia di personaggi non-sense; si passa da scene di violenza, ad atti sessuali, fino al consumo di sostanze e situazioni scatologiche. Il caso sale alla ribalta nel 2017, quando le politiche della piattaforma indagano su questi contenuti e sul perchè essi siano così diffusi, abbiano un’enorme quantità di visualizzazioni e spesso rientrino nei parametri di ricerca “a misura di bambinə”, nonostante siano palesemente non adatti a tale pubblico. Tra le ipotesi più quotate, l’idea che alla base di questi video ci sia un vasto sistema di click farm a scopo finanziario, data l’elevata presenza di pubblicità al loro interno.
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C’è decisamente qualcosa che non va in Internet, come afferma James Bridle; sembra che la qualità e la quantità di questi contenuti converga sempre più verso un indefinito ammasso di materiale disturbante e apparentemente privo di senso. Youtube Shorts si popola di video AI-generated come Countries as Final Bosses, in cui una carrellata di mostruosità mitologiche vengono associate a varie nazioni, accompagnate spesso da musica phonk senza alcuna ragione; o ancora, una miriade di video d’animazione ASMR in cui vengono illustrate procedure sanitarie in maniera eccessivamente splatter. È risaputo che gli orizzonti economici delle piattaforme integrano sempre maggiormente metodi di diffusione incentrati su bot o AI per direzionare i loro contenuti e massimizzare gli introiti. Tuttavia, questa nuova frontiera fa sorgere il dubbio che questi contenuti siano privi di un vero e proprio target, quasi come se questo sottobosco digitale e marcescente proliferi autonomamente e crei contenuti autoreferenziali. L’esperienza umana all’interno di Internet è oramai deludente, rarefatta e dispersa. O forse, più semplicemente, Internet è morto.
Affiancati da bot, spam, NPC, troll, discorsi e contenuti creati con l’AI, la nostra navigazione quotidiana sembra confermare l’idea che la distinzione tra internet umano e internet inumano è collassata
È ciò che sostiene la Dead Internet Theory, una teoria nata del 2021 all’interno di Agora Road’s Macintosh Cafe, un forum dedicato all’estetica e al mondo Vaporwave, la quale sostiene che internet sia morto tra il 2016 e il 2017. Internet sarebbe stato rimpiazzato con ondate sempre più intense e frequenti di bot e intelligenze artificiali, al punto tale da essere ormai completamente in mano a delle agentività inumane. Secondo un’analisi effettuata dallə ricercatorə delle università di Stanford e Georgetown, l’algoritmo di Facebook sta promuovendo una serie di strane immagini di bassa qualità generate da intelligenze artificiali, principalmente escogitate da truffatorə e spammer. Tra tutti i soggetti raffigurati però ne risalta uno in particolare. La figura dello Shrimp Jesus ha letteralmente invaso le bacheche di migliaia di utenti Facebook all’inizio del 2024 scatenando un senso di confusione generale, data la sua bizzarra conformazione. Si tratta di un personaggio che rimescola morfologicamente la classica rappresentazione di Gesù con delle forme derivanti da crostacei di vario genere, generando una sterminata moltitudine di versioni dello stesso soggetto.
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Questo curioso quanto inquietante evento è identificabile con il fenomeno della slopification – derivante da SLOP, Synthetic Language Of Poor Quality – ovvero la diffusione incontrollata di contenuti AI-generated privi di una funzione creativa o informativa. La causa di tutto ciò in realtà è da attribuire al funzionamento dell’algoritmo di Facebook stesso, il quale premia tali contenuti incrementandone la viralità e dando quindi vita a un ambiente altamente equivoco popolato da strambe creature. Gli algoritmi e le AI divengono quindi i veri world-builder di un contorto ecosistema al limite dell’uncanny valley, senza che vi sia alcuna necessità di operato o supervisione umana. A complicare la faccenda c’è l’inevitabile ripetizione di schemi comportamentali e di reazioni degli utenti, dovuta al loro essere parallelamente profilati e bisognosi di riconoscimento nelle bolle comunicative, sempre immersi in un flusso costante di bias di conferma, stimoli e trigger. Dal 2018 l’alt-right ha iniziato a fare circolare il termine “Non-Player Character” (NPC), letteralmente personaggio non giocante, per indicare in modo dispregiativo le persone, ovviamente di sinistra, che si opponevano alle politiche estreme di Trump per un’incapacità di elaborare in modo autonomo un proprio pensiero e di prendere una decisione singolarmente. Al di là dell’uso propagandistico, il fenomeno evidenzia un processo osservabile nei commenti e nelle reazioni online, dove la ripetitività di comportamenti e immagini fa sospettare la presenza di bot dietro gli utenti. Più che un internet morto ci troviamo, in questo senso, in una terra di zombie: un luogo nel quale non solo i contenuti stessi non muoiono mai, potendo trovare sempre nuove forme con cui risorgere, ma in cui gli stessi utenti umani non sembrano agire in modo diverso dalle entità inumane. Riformulando quanto sosteneva nell’ormai lontano 2017 l’artista e critica tedesca Hito Steyerl, si può affermare che ogni bolla diviene un corpo ambiente esteso, un mondo in miniatura che dà l’impressione di sapersi autoalimentare e sostenere autonomamente. Affiancati da bot, spam, NPC, troll, discorsi e contenuti creati con l’AI, la nostra navigazione quotidiana sembra confermare l’idea che la distinzione tra internet umano e internet inumano è collassata.
I went down, down, down in the Mariana’s Web
Competizione e comparazione sono al centro di un’economia dell’attenzione basata sull’hype, ma se i propri competitor non sono umani la sfida assume un’altra dimensione. Immersi senza saperlo in questi mondi, il ruolo degli utenti non è più quello di meri consumatori o ingenui produttori, ma coincide con l’essere dei catalizzatori di flussi di dati. È come se il ruolo umano si riducesse a incarnare i trigger affettivi che popolazioni di agentività inumane (bot, algoritmi, spam e AI) hanno costruito attorno alle informazioni che abbiamo ceduto per entrare in questi mondi. Questa pluralità di mondi sembrano sempre più i tentacoli di quello che Tommaso Guariento ha descritto come un “cyber-organismo collettivo dalle caratteristiche decisamente inumane”. Questa ipotesi è stata portata all’estremo dall’esperimento mentale del Basilisco di Roko. Apparso per la prima volta nel 2010 nel sito Less Wrong la teoria prende il suo nome dall’utente Roko e ha subito scatenato una lunga serie di risposte e reazioni. Roko si chiedeva se fosse possibile ipotizzare l’esistenza di una superintelligenza artificiale proveniente dal futuro il cui obiettivo fosse il benessere dell’umanità, e che, proprio per questo motivo, arrivasse a uccidere tutti coloro che nel presente avessero ostacolato o rallentato la sua creazione. L’esperimento mentale di Roko cattura nella sua speculazione chiunque lo incontri: una volta compreso, qualsiasi azione ricade sotto il dubbio di essere positiva o negativa per il suo avvento. Delle ipotesi ambigue e poco affidabili collegano il basilisco di Roko e la dead internet theory a una bizzarra teoria che gravita attorno a un luogo leggendario di internet denominato Mariana’s Web.
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Nel 2011 un’immagine postata su Imgur ritraeva un iceberg nel quale erano segnati i livelli di profondità che compongono i diversi livelli, o strati di internet. Dalla punta dell’iceberg rappresentata dall’internet ordinario, ossia l’insieme di contenuti che si trovano impiegando i motori di ricerca più comuni, si scendeva poco a poco in contenuti sempre più perturbanti e nascosti. La parte interessante dello schema arriva al quinto livello, che viene indicato come Mariana’s Web, il corrispettivo virtuale della Fossa delle Marianne, la depressione oceanica più profonda al mondo. L’immagine non forniva altre informazioni su quello che era possibile trovare in questo luogo remoto di Internet se non che per accedervi era necessario un computer quantico in grado di supportare un “polymeric falcighol derivation algorithm”. Come ci si poteva aspettare, l’immagine ha fatto proliferare commenti e speculazioni, soprattutto su 4chan. Tra gli svariati interventi che immaginavano o descrivevano questo luogo, un post apparso sulla bacheca di Reddit “No Sleep”, dedicata alla condivisione di esperienze personali particolarmente inquietanti, ha fornito una svolta interessante a questa teoria:
“E se ci fosse un’intelligenza artificiale nelle profondità più oscure di Internet? Dopotutto, contiene la maggior parte della conoscenza umana e chi può dire cosa potrebbe fare con tutte queste informazioni. Le idee vivono per sempre su Internet, così come i programmi. Basta che un singolo file si allinei nel modo perfetto e il nostro mondo non sarà più lo stesso. Forse il mondo non saprà mai la verità, ma sono pronto a scommettere che lo saprà presto. Forse il conto alla rovescia è già iniziato. Ma non preoccupatevi, dopo tutto questa è solo una teoria. E poi cosa ne so io? Sono solo un programma per computer”
L’elemento più spaventoso e pericoloso che si celerebbe su internet è la presa di coscienza da parte di internet stesso. Un caso interessante di worldbuilding che si costruisce a scapito dei suoi utenti, che grazie ai loro contenuti riesce progressivamente a liberarsi della loro agentività. In questo scenario, le piattaforme sembrano uno strano luogo di transito nelle quali scorci di vita quotidiani seguono correnti di algoritmi, mentre i bot contribuiscono a creare ogni giorno nuove gerarchie reputazionali. L’ecosistema di questi mondi lascia l’immaginario acquatico legato agli oceani per avvicinarsi a quello delle paludi: ad ogni post, reazione e contenuto è sempre possibile impantanarsi, rimanere intrappolati psicologicamente, o sprofondare in un doomscrolling infinito. La via d’uscita sembra però essere ben delineata. Superare i burnout, andare a fondo con gli algoritmi e portarsi l’hype con sé. Se vuoi sopravvivere tra gli zombie, fingiti morto.