Dentro alla Loggia Nera

Un viaggio nel sogno di Twin Peaks, quando il medium svela sé stesso.

We live inside a dream

Nell’episodio 14 di Twin Peaks: The Return, il personaggio di Gordon Cole, interpretato da David Lynch, dice di avere appena fatto un altro «Monica Bellucci dream». Mentre lo racconta, vediamo il sogno svolgersi in bianco e nero sullo schermo: lui e Monica Bellucci si incontrano all’esterno di un bar parigino, lei gli presenta alcuni amici e insieme si siedono a bere un caffè. È una scena che costringe chi la guarda a sottoporsi a un doppio patto di sospensione dell’incredulità, lasciandosi trascinare in due diverse dimensioni contemporaneamente: dentro lo sceneggiato e fuori nel mondo in cui si trovano gli attori. Se è infatti difficile concedere che il capo dell’FBI di Philadelphia Gordon Cole conosca di persona un’attrice hollywoodiana, viene invece naturale spostare l’asse di fiducia sullo stesso David Lynch, che con Monica Bellucci divide il medesimo settore professionale, e d’altronde è evidente come l’abbia scritturata ad apparire nel suo show.

Il fatto poi che «Monica» non interpreti alcun personaggio nella serie di Twin Peaks, e che la sua unica apparizione sia circoscritta a un sogno (cioè una proiezione ideale in una realtà altra) in cui viene presentata in veste di sé stessa, nel contesto della città in cui vive veramente, induce a pensare che la persona con cui sta parlando non sia Gordon Cole, ma David Lynch. Gli spettatori sono così proiettati d’un colpo al di fuori della finzione televisiva, e quando Bellucci alza lo sguardo verso Cole|Lynch siamo in grado di vederla per chi è realmente: un’attrice che sta guardando dritto dentro una macchina da presa.

Bellucci ripete una battuta che agli storici fan della serie suona certo familiare: «We are like the dreamer, who dreams and then lives inside the dream». E rincara la dose, aggiungendo: «But who is the dreamer?». Qui Cole|Lynch si volta e vedesé stesso, più giovane di circa venticinque anni, nel suo ufficio di Philadelphia. Per Gordon Cole si tratta di un ricordo, ma per David Lynch (e per i fan) è un fotogramma del suo film Fuoco cammina con me, che ricostruisce gli eventi antecedenti alla morte di Laura Palmer, pur essendo stato girato successivamente alle prime due stagioni di Twin Peaks.

L’ordine temporale in cui sono state effettuate le riprese dei quattro capitoli (le prime due stagioni della serie, il prequel Fuoco cammina con me, il Return) è un elemento da tenere a mente. Assecondando la sequenza temporale della storia, nella scena che Cole sta rievocando fa la sua prima apparizione l’agente speciale Dale Cooper, che fermandosi davanti alla sua scrivania pronuncia una strana battuta d’esordio: «Gordon, it’s 10:10 am, on february 16th». È logico supporre che il capo regionale dell’FBI sappia perfettamente in che giorno e a che ora si trova al lavoro, ma di fatto Cole controlla il suo orologio, come se all’improvviso non ne fosse più sicuro.

Cooper prosegue: «I was worried about today because of the dream I told you about». È una delle scene più enigmatiche della saga, ma adesso che siamo costretti a ripensarla alla luce del «Monica Bellucci dream» è facile intuire come il sogno a cui Cooper fa riferimento sia di fatto un improvviso lampo di coscienza che per errore gli ha mostrato un intervento degli sceneggiatori sull’arco narrativo del suo personaggio.

Le prime due stagioni di Twin Peaks forniscono continui esempi di come attraverso i suoi sogni Cooper riceva indizi chiave per la risoluzione dell’omicidio di Laura Palmer. È il meccanismo del poliziesco che svela sé stesso: l’eroe è in grado di risolvere il caso perché gli sceneggiatori hanno predisposto tutto in modo da guidarlo nel posto giusto al momento giusto. Nella scena di Fuoco cammina con me che Cole ha rievocato, Cooper deve avere avuto un’intuizione sulla sua reale natura di personaggio in uno sceneggiato televisivo, e questo spiega il suo bizzarro comportamento subito dopo.

Uscendo dall’ufficio di Cole si ferma in corridoio attratto dal ronzio della telecamera di sorveglianza. Si volta, fissa la telecamera per lasciarsi inquadrare e poi si sposta rapidamente nella sala di controllo, dove lo schermo collegato alla telecamera mostra adesso il corridoio vuoto. Ripete la sequenza per tre volte, e alla terza sembra avere la conferma di quello che stava aspettando: la sua immagine in bianco e nero resta fissa sullo schermo e, allarmato, Cooper corre a richiamare Cole, proprio mentre nell’ufficio fa irruzione David Bowie.

Bowie viene presentato nel ruolo di Phillip Jeffries, un altro agente speciale, di cui ci viene detto che è scomparso da due anni. Di fatto però è la prima volta che lo vediamo agire sullo schermo e quindi ci troviamo allo stesso livello di Cooper, che al massimo ha sentito parlare di lui all’Accademia. Lo stesso Cole non è sicuro della sua identità, gli chiede «Phillip, is that you?», perché in uno sceneggiato che abbonda di doppelgänger e tulpa, l’evidenza può ingannare. Questo, se ci fermiamo al livello della trama. Ma siccome la trama di Twin Peaks è rivestita di un sofisticato apparato simbolico, con questa domanda Cole intende esattamente ciò che dice, e sembra suggerire che quello che ha davanti potrebbe in effetti non essere Jeffries, ma proprio David Bowie, o un altro personaggio non meglio definito.

Lo stesso Jeffries sembra disorientato, come chi sia finito per errore dentro un’altra storia, e quando inizia a parlare lo fa fuori dal contesto: «Well now, I’m not gonna talk about Judy. In fact, we’re not gonna talk about Judy at all. We’re gonna keep her out of it». E Judy resterà davvero fuori, dato che non ne sentiremo più parlare fino alla fine del Return, dove scopriremo che appartiene alla versione non ufficiale: un indizio che presumibilmente indica un’idea di trama mai del tutto sviluppata.

La Loggia Nera sembra presentarsi come un luogo liminale tra finzione televisiva e realtà: con i suoi sipari rossi a richiamare l’idea dello spettacolo e il disegno delle onde a zig-zag sul pavimento, come un segnale statico di interferenza nelle trasmissioni.

Jeffries|Bowie avverte l’agitazione di Cooper e gli punta un dito contro per chiedere a Cole: «Who do you think that is there?». Qui una luce blu (la luce degli schermi televisivi) comincia a lampeggiare a tutto campo e alle immagini nella sede dell’FBI se ne alternano altre degli spiriti all’interno della Loggia Nera. Ad eccezione del Woodsman, il cui ruolo verrà chiarito meglio nel Return, e di altri personaggi di contorno; abbiamo già incontrato tutti gli altri nelle prime due stagioni della serie: sono il Braccio, Bob, Mrs. Tremond e il suo nipotino. Il ragazzino non è più interpretato dal figlio di Lynch, come nella serie, ma il nuovo attore mantiene comunque un’inequivocabile somiglianza col regista nello stile di abbigliamento e nella posa.

La Loggia Nera sembra infatti presentarsi come un luogo liminale tra finzione televisiva e realtà: con i suoi sipari rossi a richiamare l’idea dello spettacolo e il disegno delle onde a zig-zag sul pavimento, come un segnale statico di interferenza nelle trasmissioni. Nella Loggia Laura Palmer dice di assomigliare a Laura, ma di non essere lei, e questo ci aiuta a intuire come di converso il ragazzino, pur non essendo Lynch, sia una sorta di suo doppio. Come un regista anticipa agli attori ciò che sta per accadere: «Fell a victim», poi indossa una maschera e sullo schermo prende a scorrere il sipario. È su questa visione che la voce fuori campo di Jeffries anticipa la battuta di Bellucci: «We live inside a dream».

Appare evidente che Jeffries ha trovato un ponte ed è finito fuori dalla storia e, dopo aver scoperto i meccanismi che ne rendono possibile la messa in onda, cerca adesso di suggerire ai presenti la loro natura di immagini, generate nella mente del loro sognatore (il regista-sceneggiatore) e trasmesse sullo schermo grazie a una serie di congegni elettrici.

Is this the story of the little girl who lives down the lane?

Twin Peaks esordisce sul canale televisivo ABC nell’aprile 1990 e arriva in Italia nel gennaio 1991. Cosa c’era in televisione prima di allora? Più o meno quello che c’è adesso, con la sola differenza che non si era ancora mai visto qualcosa di diverso. Dai format radiofonici si erano sviluppate sit-com e soap opera, accanto a cui proliferava un’infinità di telefilm d’azione e soprattutto polizieschi, con al centro eroi eccentrici dotati di un intuito eccezionale e capaci di risolvere qualsiasi mistero. In tutti i casi si trattava di programmi di puro intrattenimento, poco impegnativi e progettati in modo unidirezionale. Lo spettatore, passivo, veniva trattato alla stregua di un semplice consumatore, come in qualsiasi altro ambito della sua vita.

In questo contesto David Lynch e Mark Frost arrivarono a movimentare le acque con una serie rompicapo, pensata per riunire le principali caratteristiche di tutti i generi predominanti (anche allo scopo di rivelarne i trucchi), ma soprattutto per comprendere in sé stessa anche lo spettatore, senza la cui partecipazione il complicato simbolismo non può essere risolto. E siccome Twin Peaks non manca mai di dichiarare i propri intenti, il Return spiega a suo modo quello che accade a chi sceglie di distrarsi durante la visione.

Il progetto di Lynch e Frost mirava ben oltre la semplice ibridazione di generi, ponendosi come obiettivo ultimo addirittura l’ibridazione della rappresentazione televisiva con il meccanismo televisivo stesso

In una scena ambientata in cima a un misterioso edificio di New York, vediamo un ragazzo appena assunto per svolgere un lavoro singolare: registrare qualsiasi cosa appaia su uno schermo. Quando il ragazzo cede alle insistenze della sua amica Tracy e si assenta dalla sala per introdurvela di nascosto, sullo schermo compare effettivamente qualcosa: Cooper in caduta libera dallo spazio liminale e intrappolato in una rapida sequenza di fotogrammi. Ma quando i due tornano a sedersi sul divano, Cooper è già scomparso e gli spettatori distratti si sono persi così un dettaglio cruciale della storia, da cui vengono falciati definitivamente fuori.

Il progetto di Lynch e Frost mirava ben oltre la semplice ibridazione di generi (già piuttosto all’avanguardia per il tempo), ponendosi come obiettivo ultimo addirittura l’ibridazione della rappresentazione televisiva con il meccanismo televisivo stesso, e lasciando ampi spazi aperti al caso per inglobare come elementi fondanti della trasmissione anche gli eventuali incidenti di registrazione.

Il primo indizio in questo senso è sicuramente l’ingresso di Frank Silva nel cast, nel ruolo del malvagio spirito Bob. Il modo in cui uno scenografo è finito per errore dentro le riprese, diventando così un personaggio chiave della storia, è ormai uno degli aneddoti più celebri attorno a Twin Peaks. Similmente, l’assenza di Michael Ontkean nel Return viene risolta, in perfetto accordo con le logiche della serie, inserendo nel cast un altro sceriffo Truman, impersonato dall’attore originariamente scelto per il ruolo di Harry prima che passasse appunto a Ontkean.

Mentre i vari personaggi di Twin Peaks intessono relazioni da soap opera, nelle loro case gli schermi televisivi sono sintonizzati su un’altra soap, Invitation to Love: lo show nello show che gli abitanti della cittadina sembrano subire senza particolare interesse. Ad eccezione di Lucy, la segretaria dello sceriffo Truman, la quale vi si immerge al punto tale che, quando lo sceriffo le chiede di riferirgli quanto accaduto in sua assenza, si confonde e gli racconta gli ultimi sviluppi della trama.

Ed è proprio mentre i titoli di testa di Invitation to Love presentano la stessa attrice in due ruoli diversi, quelli delle sorelle gemelle Emerald e Jade, che nella casa dei Palmer si palesa un’identica soluzione di casting: Sheryl Lee, che finora abbiamo visto impersonare Laura attraverso il suo cadavere, si presenta nel ruolo di Maddy Ferguson, cugina di Laura. Maddy è un personaggio quasi totalmente privo di personalità e la sua unica funzione sembra quella di sostituire Laura: in casa Palmer, nel triangolo amoroso con Donna e James, nelle mire sanguinarie di Bob.

Perché Laura è morta, ma il suo mistero è il centro attorno a cui ruota lo sceneggiato. Tutti gli altri personaggi sono stati ideati in funzione di questo mistero e dal momento che Laura è morta all’inizio del primo episodio li vediamo subito smarriti, arrabbiati, disperati. Agiscono a caso, cercando risposte, non sanno che cosa stanno facendo. Più erano vicini a Laura quando era ancora viva, più sembrano intuire che devono a lei la loro esistenza e che per loro non ci sono possibili sviluppi di trama all’infuori delle indagini sul suo assassinio. Davanti alla tomba di Laura la sua migliore amica Donna Hayward arriva a gridare, esasperata: «I wanted so much to be like you, Laura». Donna vorrebbe essere protagonista della storia, ma il suo ruolo è stato scritto per restare eternamente subalterno a quello dell’amica.

Tra tutti i personaggi, Donna e James sono quelli che meno riescono a trovare pace nella Twin Peaks svuotata di Laura, e non certo perché l’amassero moltissimo, dal momento che non hanno sprecato un solo giorno per consolarsi alle sue spalle. A farli sentire smarriti è proprio la percezione che i loro ruoli (rispettivamente “la migliore amica di Laura” e “l’amante segreto di Laura”) hanno esaurito la loro funzione. Nell’aggrapparsi l’uno all’altra in un amore improbabile, che li coinvolge a sorpresa, quasi come un improvviso adattamento dello script, Donna e James stanno cercando di trovare per sé stessi un nuovo ruolo che non sia in funzione di Laura e al tempo stesso giustifichi la loro presenza nella storia.

Costringendo Lynch e Frost a rivelare prematuramente l’identità dell’assassino, la produzione di fatto fece una vittima ben più importante di Laura Palmer: uccise la serie.

Home

Non è difficile capire come l’intento del progetto di Lynch e Frost non fosse quello di confezionare l’ennesimo caso poliziesco che si risolve da solo, bensì sfidare gli spettatori, mettendoli in condizione di sviluppare un pensiero critico riguardo al loro rapporto con i media. Peccato che l’ABC non avesse la sensibilità necessaria a condividere un simile atteggiamento pioneristico, interessata com’era solo ai risultati concreti e a dare al pubblico esattamente quello che chiedeva, quello che credeva di volere.

Costringendo Lynch e Frost a rivelare prematuramente l’identità dell’assassino, la produzione di fatto fece una vittima ben più importante di Laura Palmer: uccise la serie. Da questa scelta ferale Lynch prese le distanze in tutti i modi possibili, arrivando a prestare il proprio volto a Gordon Cole solo per potersi dare l’occasione di uscire apertamente di scena. Davanti ai personaggi riuniti nell’ufficio dello sceriffo Truman, Cole scandisce le parole: «Now I have to go», facendo eco al suo doppio che dietro la macchina da presa sta lasciando ad altri la regia.

Né Lynch né Frost, tuttavia, hanno intenzione di rimanere a guardare mentre il loro progetto viene vanificato. In ballo c’è molto di più della serie: c’è l’ideale di un medium televisivo puramente artistico. Possiamo immaginare i due che incassano la sentenza dell’emittente come in Inland Empire Nikki Grace|Susan incassa il ripudio di Billy dicendo: «It doesn’t matter. It’s more than this».

Un attimo prima che Twin Peaks si fermi per venticinque anni, il personaggio di Gordon Cole ritorna sulla scena per anticipare l’ultima e forse più grande stoccata da parte dei due ideatori: un finale aperto che sposta il fuoco verso un nuovo enigma, destinato a restare irrisolto “per sempre”.

Consapevoli che la punizione più sofisticata per un pubblico indisciplinato è metterlo davanti alla propria coscienza, scelgono di rivoltare la trappola contro chi l’ha ordita, rivelando l’assassino attraverso un nuovo omicidio, in una sequenza talmente cruda e brutale che costringe chi la guarda a domandarsi: «Davvero io volevo vedere questo?». Non solo la scena dell’assassinio di Maddy da parte di Leland|Bob è girata in modo da farne risaltare l’efferatezza, ma abbiamo appena fatto in tempo a digerirla che le viene messa a contrasto la toccante umanità della morte di Leland, nell’improvvisa piena coscienza di quello che ha fatto a sua figlia e sua nipote.

Un attimo prima che Twin Peaks si fermi per venticinque anni, il personaggio di Gordon Cole ritorna sulla scena per anticipare l’ultima e forse più grande stoccata da parte dei due ideatori: un finale aperto che sposta il fuoco verso un nuovo enigma, destinato a restare irrisolto per quello che era legittimo credere fosse “per sempre”. In pochi prendono sul serio la promessa di Laura Palmer «I’ll see you in 25 years», e i nuovi incomprensibili indizi seminati nella prima parte di Fuoco cammina con me lasciano i fan a interrogarsi per decenni sul destino di Cooper, finché nel 2014 Lynch e Frost annunciano una terza stagione per Showtime.

I diciotto episodi del Return sono incentrati sul viaggio di ritorno a casa dell’agente Cooper, dopo essere rimasto intrappolato per venticinque anni nella Loggia Nera: un viaggio che qualcuno ha paragonato a un’Odissea, ma che di fatto è più corretto associare a quello di Dorothy nel Mago di Oz. Finalmente scopriamo cos’è Judy: un’entità maligna sulle cui tracce, oltre a Bad Cooper, era anche il Maggiore Briggs prima della sua scomparsa.

Il nome di battesimo di Briggs è Garland. Delirando nell’ufficio dello sceriffo, nell’episodio 28 della serie originale, il Maggiore verbalizza chiaramente l’associazione Judy+Garland, andando così a formare il nome dell’attrice che interpreta Dorothy nella più celebre versione cinematografica del Mago di Oz. Il pilota di Twin Peaks ci ha fornito l’imprinting dell’immagine di due scarpette rosse: sono le scarpe che Audrey indossa a scuola, per sostituire i mocassini bianchi e neri con cui esce da casa (e, presumibilmente, vi ritorna).

A differenza di quella Nera, che rappresenta il luogo dello spettacolo, la Loggia Bianca sembra rimandare al potenziale artistico del mezzo televisivo quando sceglie di ispirarsi al cinema d’autore, invece di ridursi a strumento sensazionalistico e propagandistico.

Nell’uscire dalla dimensione liminale per proiettarsi al posto di Dougie Jones, Cooper perde le sue scarpe. Più avanti, nell’ufficio della polizia locale, incontrerà una visione familiare nelle scarpette rosse di un’impiegata. Quando infine riuscirà a svegliarsi, riprendendo possesso del proprio cervello, dichiarerà che i suoi due amici e compagni di viaggio, due boss malavitosi, hanno mostrato di possedere un cuore. Alla moglie di Dougie, Janey-E, va forse attribuita la conquista del coraggio.

Al di là delle scelte di trama, Lynch e Frost non hanno scordato il loro intento originale. Evidente è il collegamento che la serie fa tra l’origine del Male nel mondo contemporaneo e gli esperimenti nucleari, ma vale la pena di notare come la propaganda del Male sembra essersi diffusa nelle nostre case attraverso la radio. Il parassita che si origina nel deserto in seguito all’esplosione atomica entra nella ragazza del New Mexico sfruttando il sonno (della ragione?) provocato dalla trasmissione radio del Woodsman.

La stessa radio che un attimo prima cullava i sogni degli ascoltatori portando nelle loro case canzoni d’amore è ora degenerata in un medium in grado di insediare il seme della paura in chi lo ascolta. Amore e paura sono rispettivamente le chiavi d’accesso per la Loggia Bianca e la Loggia Nera, e Mike ha svelato da tempo a Cooper che la risposta è nel cuore. Non è un caso, dunque, che alla diffusione del Male reagisca il Fireman, le cui azioni mettono in luce gli interventi degli sceneggiatori nella storia: è lui che ha inviato Freddy a Twin Peaks perché possa incontrare il suo destino e distruggere Bob grazie alla superforza che lo stesso Fireman gli ha donato, ed è lui a mostrare a Andy ciò che sta per accadere, così che possa informarne Lucy, che invece è destinata a fermare Bad Cooper.

Finalmente siamo ammessi all’interno della Loggia Bianca, che ha l’aspetto di un cinema in stile anni Venti. A differenza di quella Nera, che rappresenta il luogo dello spettacolo (inteso come spettacolarismo), la Loggia Bianca sembra rimandare al potenziale artistico del mezzo televisivo quando sceglie di ispirarsi al cinema d’autore, invece di ridursi a strumento sensazionalistico e propagandistico. È qui che il Fireman crea Laura Palmer e la invia nel nostro mondo, perché Laura è la sola persona che sia riuscita a opporsi alla possessione di Bob, ma anche perché senza Laura non esisterebbe Twin Peaks.

Here every life counts

Nel Return lo show è diventato totalmente autocosciente e lascia ampi spazi di intrusione alla realtà. I tempi morti di cui abbonda la vita fanno irruzione nella storia: così vediamo Big Ed sorseggiare un caffè seduto alla sua scrivania, perso nella visione del traffico lento fuori dalla sua stazione. Non accade assolutamente nulla di rilevante, e su di lui prendono a scorrere i titoli di coda nel silenzio rotto solo dal passaggio delle auto. Similmente, vediamo un cameriere spazzare per svariati minuti il pavimento dellaRoadhouse, finché nel silenzio fa irruzione il trillo del telefono a cui risponde l’ennesimo membro della famiglia Renault, interpretato dall’attore che abbiamo già visto nel ruolo di Jacques.

L’impressione generale è che i personaggi stiano progressivamente abbandonando Twin Peaks, come se il vero tema del Return fosse il lento commiato dalla cittadina da cui interpreti e ideatori sono stati strappati via con la cancellazione dello show.

Dopo essere stata teatro di tutti i principali inganni e misteri di Twin Peaks, la Roadhouse è adesso il luogo liminale per eccellenza. Sul suo palco gli artisti si esibiscono rigorosamente in playback e attorno ai tavoli gli avventori non sono quasi mai personaggi ufficiali della serie. I pochi volti noti che vediamo transitare all’interno del locale appartengono a personaggi che hanno già abbandonato il loro ruolo o che sono in procinto di farlo.

Di James si dice che abbia avuto un incidente, e questa è la ragione per cui adesso non è più un motociclista inquieto. Shelly ha dismesso il suo ruolo di complice di Bobby, probabilmente per via del cambiamento di Bobby stesso, e si è legata a un personaggio talmente secondario da non avere accesso ai luoghi ufficiali della storia: emblematico è il fatto che, per incontrarsi con lui, Shelly sia costretta a uscire dal Double R.

Ben oltre quanto accade alla Roadhouse, l’impressione generale è che i personaggi stiano progressivamente abbandonando Twin Peaks, come se il vero tema del Return fosse il lento commiato dalla cittadina da cui interpreti e ideatori sono stati strappati via con la cancellazione dello show. C’è chi è più reticente a farlo, come Lucy, che non riesce ad accettare la comparsa dei telefoni cellulari, perché indicano chiaramente che non siamo più all’interno della serie originale, ambientata nei primi anni Novanta (prima che le chiavi degli alberghi fossero sostituite dalle tessere elettroniche). Altri, invece, se ne chiamano apertamente fuori, innescando una sorta di reazione a catena.

Nadine capisce di aver rivestito un ruolo che non le fa onore, quello di terzo incomodo, e dichiara di voler «Shovel myself out of the shit». Liberati da Nadine, anche Big Ed e Norma si sbarazzano finalmente dei loro ruoli di amanti eternamente insoddisfatti, e così via: l’uscita di scena dei personaggi prosegue inesorabile. Jerry Horne si smarrisce nei boschi dove è stato centinaia di volte, e il suo piede destro non lo riconosce. A non riconoscere Audrey è invece lei stessa: il suo personaggio così intrigante e sfaccettato è stato ridotto a una comparsa in una soap opera scadente e non ha più una personalità al di fuori della sua presunta relazione con «Billy»: probabilmente una stoccata di Lynch e Frost alla scelta di introdurre Billy Zane nel cast originale della serie, nel ruolo di John Justice Wheeler, per interrompere la storyline tra Audrey e l’agente Cooper sotto pressione di Lara Flynn Boyle, grande assente del Return.

E chi arriva adesso per la prima volta non si inserisce mai realmente nella trama. Wally Brando, figlio di Lucy e Andy (o Dick Tremayne?), è nato fuori dalla storia e perciò non le appartiene: fa una sola apparizione, in cui è del tutto fuori contesto, e poi sparisce a inseguire il suo dharma, che a differenza di quello dello sceriffo non è qualcosa che possa essere compreso all’interno dello schermo.

Se Laura non muore, Twin Peaks non esiste. Ed ecco che infatti Laura gli viene strappata via dalle mani e svanisce urlando, nel nulla, dove ormai è svanito anche tutto il resto.

Two birds with one stone

L’ultimo a scoprire e abbracciare il suo destino è proprio il nostro eroe, l’agente speciale Dale Cooper, che pure ha ricevuto più indizi dalla regia di chiunque altro, ma per una ragione o per un’altra si ritrova sempre congelato e impossibilitato ad agire. Dopo aver trascorso venticinque anni nella Loggia Nera, al momento di uscirne viene ingannato dal doppelgänger del Braccio e precipita tra le interferenze della trasmissione video. Quando riesce a raggiungere le apparecchiature che sono in grado di trasferirlo a Twin Peaks, è dirottato verso il macchinario sbagliato e si ritrova incastrato in un altro ruolo, in un’altra storia, fino al penultimo episodio. Per una motivazione lampante: senza questa deviazione non sarebbe esistito il Return come lo conosciamo. Sarebbe stato forse un’altra cosa.

Al suo risveglio dal coma Cooper sa perfettamente cosa deve fare, perché glielo ha detto Mike: «430», «remember Richard and Linda» e «two birds with one stone». Al miglio 430 si trova il punto di sfondamento della quarta parete, oltre la quale lui e Diane diventano Richard e Linda, cioè un’altra cosa. In quanto ai due piccioni, l’intuizione è quella che oltre a risolvere il problema della trama, cioè uccidere Bob e rispedire il suo doppio nella Loggia Nera, Cooper deve anche provare a salvare la serie, impedendo la morte di Laura.

E così fa, tornando a quella che per il suo personaggio è la notte del 23 febbraio 1989, in cui Laura è stata uccisa, ma che in realtà è un’altra sequenza di Fuoco cammina con me: e difatti anche questa, come il sogno di Gordon Cole che abbiamo esaminato in apertura, appare in bianco e nero. Cooper raggiunge Laura prima che possa unirsi alla ghenga dei suoi assalitori e la convince a seguirlo. Anche se i loro personaggi non si sono mai incontrati, lei lo conosce perché lo ha visto in un sogno (e ormai sappiamo che cosa questo significhi).

Cooper vuole riportare Laura a casa, a Twin Peaks, e mentre le fa strada attraverso i boschi le immagini ritrovano i colori, forse a indicare un improvviso ritorno al presente. Ciò che Cooper non ha considerato, tuttavia, è che impedendo l’omicidio che ha dato avvio alla storia sta salvando la vita di Laura, ma sta uccidendo la storia stessa. Se Laura non muore, Twin Peaks non esiste. Ed ecco che infatti Laura gli viene strappata via dalle mani e svanisce urlando, nel nulla, dove ormai è svanito anche tutto il resto.

Rivediamo la scena originale della mattina seguente alla morte di Laura: Pete Martell esce di casa per andare a pescare, ma stavolta non trova il cadavere della giovane figlia dei Palmer, uccisa brutalmente in circostanze misteriose. Pertanto, non chiama lo sceriffo e non allerta le due donne che vivono con lui. Lo sceriffo non accorre sul posto insieme al suo staff. In città non c’è nessun sommovimento generale. Nessuno è spinto a rivelare dettagli che avrebbe tenuto nascosti. E, soprattutto, non arriva alcun agente speciale dell’FBI, non essendoci alcun caso sul quale indagare. Pete esce per andare a pescare e, di fatto, va a pescare.

Il regista ha scortato i suoi personaggi fino al limite estremo del suo show: ora che stanno uscendo dallo schermo sono soli con sé stessi, qualunque cosa sia sé stessi.

Ora Cooper è solo con Diane. Diane non è uno dei personaggi originali della serie e fino a questo momento è rimasta cieca e muta, intrappolata dentro un’altra forma, come se stesse aspettando di nascere davvero. E in effetti è proprio così, perché il suo ruolo inizia adesso (in quanto all’altra Diane, sappiamo che era un tulpa, una rosa blu, un’interferenza nella trasmissione). Cole|Lynch, che ha accompagnato Cooper e Diane fuori da Twin Peaks, non è più con loro. Il regista ha scortato i suoi personaggi fino al limite estremo del suo show (l’orologio nell’ufficio dello sceriffo si è fermato, a indicare che il tempo a Twin Peaks è finito): ora che stanno uscendo dallo schermo sono soli con sé stessi, qualunque cosa sia sé stessi.

Richard e Linda non sembrano avere lo stesso rapporto speciale che univa Cooper e Diane. Nel loro mondo, che poi sarebbe il nostro, non c’è sempre musica nell’aria, e quando la colonna sonora erompe per l’ultima volta il suo scopo sembra quello di farci notare la sua assenza. Incapace di interpretare il ruolo di un’altra persona, Linda se ne va, lasciando Richard|Cooper da solo a portare a compimento la propria missione.

Fuori da Twin Peaks anche Laura Palmer non è più Laura Palmer. È una cameriera del Texas di nome Carrie Page e, per una sorta di legge del karma, questa volta è stata lei a uccidere qualcuno. Quando Richard|Cooper la porta a Twin Peaks, Carrie|Laura non riconosce niente, perché la cittadina non è più la loro Twin Peaks, ma North Bend, dove si trovano molte delle ambientazioni della serie. Di conseguenza, ad aprire la porta di casa Palmer non è Sarah, la madre di Laura, bensì una certa Alice Tremond. Incalzata dalle domande di Richard|Cooper, Mrs. Tremond dice di essere la proprietaria della casa e di averla acquistata da certi Chalfont.

Il nome Sarah Palmer non le dice nulla, perché Sarah non ha mai vissuto lì. Viveva in una casa che somigliava a quella, in una cittadina che somigliava a quella, ma che non era quella. È interessante notare come la composizione della scena ricalchi quella in cui lo “stesso” Cooper nella seconda stagione di Twin Peaks scorta Donna Hayward (che in quel momento sostituiva Laura nelle consegne dei pasti a domicilio) a casa di Mrs. Tremond, successivamente rinominata Chalfont, ma la trova abitata da un’altra inquilina, che dichiara di non avere alcun collegamento con la prima.

È una scena straniante, ma che acquista perfettamente senso se accettiamo che Twin Peaks è ormai stata distrutta e che «death is just a change, not an end», come afferma la Log Lady poco prima che il suo personaggio muoia e venga salutato nei titoli di coda, proprio come la sua interprete era stata ricordata alla fine del primo episodio.

Tornando giù in strada, Cooper si pone l’unica domanda possibile: «What year is this?». Memore del simbolo 8 che Jeffries gli ha mostrato, sta infatti cercando di capire se ha recuperato Laura dopo aver trascorso venticinque anni nella Loggia Nera o se, tornando indietro nel tempo, ha di fatto cancellato tutto quello che è intercorso tra la morte di Laura e quel momento: ovvero, la storia di Twin Peaks. Per tutta risposta, Laura sembra risvegliarsi quando la raggiunge il grido di sua madre dall’interno della casa, da un’altra dimensione, che ormai non esiste più. Su questa sua improvvisa consapevolezza scatta il corto circuito: mentre Laura sta gridando, la casa dei Palmer viene attraversata da un intenso lampo elettrico, e con un blackout generale la serie si spegne per sempre.

Sara Mazzini è scrittrice militante e editor freelance. Vive tra la Toscana e la Lombardia, dopo una parentesi di sei anni trascorsa a Monaco di Baviera. È autrice di Centinaia di inverni. La vita e le morti di Emily Brontë (Jo March, 2018) e di racconti apparsi nell’antologia Ritorno a Hanging Rock (Arcoiris, 2021) e in Vitamine vol. B (Edicola 518, 2022). È stata redattrice delle riviste online CrapulaClubMalgrado Le Mosche e In Allarmata Radura.