Libri violenti su ragazzi rotti
Ho letto il George Miles Cycle per la prima volta a diciassette anni. Iniziai da Try, il terzo libro del ciclo, e li lessi tutti, uno dopo l’altro, in modo caotico. Pochi giorni prima mi ero ritrovato a guardare su YoTtube il corpo di un amico uscire da un palazzo in un sacco di plastica. Se apocalisse significa rivelazione, quei giorni furono un’apocalisse.
Ai tempi non sapevo quasi nulla della letteratura contemporanea. Avevo amato Jack Kerouac e Bret Easton Ellis, ma questo era quanto. Anche con una bibliografia così scarsa alle spalle, i libri di Dennis Cooper mi presero come nessun altro prima. Non avevo modo di sapere che stavo leggendo probabilmente «l’ultimo fuorilegge della letteratura mainstream americana», come l’aveva definito Bret Easton Ellis, ma qualcosa mi colpiva. Erano libri violenti su ragazzi rotti e la loro fame lacerante, ed erano scritti con questo stile indescrivibile a chi non l’ha mai provato sulla propria pelle. Leggerli era come leccare vetri infranti, ma con intento e mistero. Da quel giorno ho continuato ad amare George Miles, la musa silenziosa dei cinque libri del ciclo, perché ogni volta che leggevo di lui gli vedevo intorno quest’aura che attrae le ombre di quella manciata di persone che ho amato davvero e perso e degli amici che sono entrati e usciti dalla mia vita in una frazione di secondo e di tutte le altre persone che ancora mi mancano quando sto sveglio abbastanza a lungo la notte.
Questo settembre Dennis Cooper ha pubblicato I Wished, un altro libro su George Miles. Mi sono fatto coraggio e gli ho scritto una mail, principalmente grazie alla dolcezza assoluta di Thomas Moore. Abbiamo parlato del suo nuovo libro e di lutti, amori e amicizie.
Enrico Monacelli: L’idea che tu sia una sorta di scrittore cult è certamente vera in Italia. I tuoi libri sono stati pubblicati, spesso anche da casa editrici prestigiose, ma è stato un processo confusionario e incasinato. Quasi tutto il George Miles Cycle è stato tradotto in italiano con titoli spesso assurdi (Closer è stato tradotto Tutti gli amici di George, ad esempio) a fianco ad altri tuoi romanzi, ma buona parte di questi libri è fuori catalogo ed è quasi sempre introvabile. Questo ha relegato il culto di George Miles o al fanatismo o all’oblio. I pochi che li hanno letti ne parlano come un’esperienza formativa, una rivelazione, un’ossessione. Una vera devozione. Tutti gli altri ignorano la sua esistenza.
Partendo da queste premesse, credo ci sia una sola domanda possibile da cui partire per far in modo che tutti siano sulla stessa lunghezza d’onda: cos’è il George Miles Cycle? E chi è George Miles? Perché hai scritto così tanti libri per un solo ragazzo?
Dennis Cooper: il George Miles Cycle è una serie di cinque romanzi (oltre a Closer, Frisk, Try, Guide, Period) che ho scritto nel corso di dieci anni fra gli anni Ottanta e Novanta. Li ho scritti come tributo ad un mio amico, George Miles. Ho incontrato George quando lui aveva 12 anni e io 15, e si è creato un profondissimo legame fra di noi ed eravamo molto vicini. Era un ragazzino strano, straordinario, brillante e talentuoso e semplicemente la persona più dolce che io abbia mai incontrato. Durante la prima adolescenza George ha iniziato ad avere gravi sintomi di bipolarismo (che ai tempi si chiamava depressione maniacale) e ha passato il resto della sua vita fatto a pezzi dalla sua condizione, con alcuni momenti in cui le medicine lo aiutavano in qualche modo. Alla fine si è suicidato nel 1987, anche se io ho scoperto la sua morte solo dieci anni dopo aver pubblicato il quarto libro del ciclo. Ci eravamo persi di vista nel 1985 quando andai a vivere ad Amsterdam per un paio d’anni, e da allora tentai di parlargli per anni. Ho scritto quei romanzi pensando che fosse ancora vivo e che li stesse leggendo da qualche parte nel mondo. Per quanto riguarda il motivo per cui ho scritto così tanto per e su di lui, non lo so davvero. Ha avuto un impatto enorme su di me e sulla mia scrittura, e che credo di aver scritto così tante cose su di lui per capire perché.
Parlando del George Miles Cycle, hai appena pubblicato la sua ultima iterazione, I Wished. Quest’ultimo libro è davvero una creatura strana. È molto diverso dagli altri libri su di lui. Molti hanno detto che è il tuo libro più personale, ma non credo sia del tutto vero. È, allo stesso tempo, l’incontro più teoretico – disincarnato, addirittura – e intimo con il fantasma di George Miles. Passeggi per le tue case infestate intessendo momenti di riflessione melancolica, blanchotiana sugli amori persi ad esplosioni diaristiche di lutto nero pece. Copri l’intero spettro degli «effetti paralizzanti dell’amore sul linguaggio».
Nella mia testa ha un unico precursore nel George Miles Cycle: I Apologize, la zine che Ziggy, il protagonista di Try, scrive per raccontare gli abusi subiti e il mondo sotterraneo che gli sta intorno. In maniera esoterica, il parallelismo è già lì nel titolo. I Wished e I Apologize non sono saggi né fiction, sono modi per dare un senso alle proprie ferite. Cosa ti ha spinto a scrivere un libro del genere ora? Quali erano i tuoi obiettivi? Doveva essere una terapia, in qualche modo? È stato catartico? E che posto ha nel George Miles Cycle?
Prima di tutto, I Wished non fa parte del George Miles Cycle. L’ho pensato come un libro a parte scollegato dal resto del ciclo. È interessante che tu pensi che sia connesso ad I Apologize. Penso che ci sia del vero, anche se non avevo mai pensato che i due potessero essere legati in qualche modo. Per quanto riguarda il motivo che mi ha spinto a scriverlo, ce ne sono tanti. Uno fra questi è che non avevo mai scritto un romanzo che usasse la mia autobiografia e che mettesse a nudo le mie emozioni. Ho scritto libri che usavano la mia vita camuffata in vari modi, e ovviamente la vita emotiva dei miei lavori è sempre stata ispirata alle mie emozioni, ma non ero mai stato oggetto dei miei romanzi. Ho pensato che avrei dovuto sfidarmi a farlo e l’ho fatto. E visto che ho sempre cercato di scrivere libri che fossero in qualche modo difficili per me, ho deciso che se proprio dovevo parlare di me stesso avrei dovuto farlo scrivendo qualcosa che fosse davvero intellettualmente ed emotivamente difficile da affrontare, e quel qualcosa è George – lui, la nostra amicizia e la sua morte.
Volevo anche ritrarre George in questo lavoro per come era davvero dato che il personaggio George Miles gli assomigliava affatto alla vita reale. Volevo, credo, che le persone che conoscevano George Miles soltanto attraverso il ciclo avessero l’opportunità di conoscerlo davvero e forse capire, in qualche modo, perché ho scritto tutti quei libri per lui. Non ho mai pensato che scrivere il libro fosse terapeutico, la vedevo solo come una sfida emotiva e artistica molto difficile. Non posso dire che scriverlo sia stato catartico. Penso che quando qualcuno che ami si suicida non esista modo per risolvere la cosa. Quel tipo di morte sarà per sempre una cosa confusa e misteriosa e che ti perseguiterà. Per questo non credo che scrivere I Wished abbia risolto qualcosa nella mia vita. Come ho già detto, I Wished non fa parte del ciclo. Penso che chi lo leggerà conoscendo il ciclo trarrà qualcosa in più da questa esperienza, ma credo che sia assolutamente possibile leggere il libro senza aver letto o senza sapere dell’esistenza del George Miles Cycle senza perdersi nulla. Penso che se qualcuno, leggendo il libro, si facesse l’idea che quando parlo del ciclo sto parlando di una cosa finta come, boh, Babbo Natale andrebbe bene comunque.
Oggigiorno i lavori sperimentali vengono marginalizzati in quasi ogni ambito. La sperimentazione che attira la gente in massa sembra essere solo quella che abbellisce forme artistiche già consolidate – film horror pretenziosi o ritocchini testuali e parole grosse in musica hip-hop.
C’è una specie di mantra che i fan come me ripetono quando devono spiegare in poche parole i motivi per cui George Miles ci affascina così tanto: George Miles è una bellissima parete vuota su cui Dennis Cooper e tutti noi schizziamo i nostri desideri violenti e le nostre perdite inconsolabili. Lui non è mai davvero presente nei libri; è un guscio di carne vuota in cui ficchiamo i nostri desideri e le nostre paure. I Wished spinge quest’idea all’estremo. George Miles muta e cambia forma costantemente nel libro. Non è un protagonista vero e proprio, è una riflessione sull’atto di inventarsi storie e personaggi finti e avatar per affrontare le cose che ci farebbero impazzire: le nostre voglie, la nostra violenza, e le persone che non toccheremo, baceremo o con cui non parleremo mai più. Nel libro George interagisce costantemente con altri personaggi vuoti con cui diamo un senso alla vita, come Babbo Natale e John Wayne Gacy.
Dato che è una questione così enorme in I Wished ti chiedo: qual è, a tuo avviso, il ruolo della finzione nella nostra vita? Perché dovremmo tenere in vita i nostri fantasmi? È un gesto d’amore o un esorcismo?
Cerco di non pensare alle cose generalizzando. Per cui domande come il ruolo della finzione nella nostra vita e il perché facciamo quello che facciamo sono davvero difficili per me. Non mi fido delle generalizzazioni. Sono filosoficamente anarchico, per cui credo che la mia resistenza alle generalizzazioni venga anche da lì. Credo di poter parlare solo per me, e credo che la finzione sia un materiale da usare e con cui trarre lezioni da ciò che evidentemente non ha restrizioni o regole o le interferenze che ti capitano quando le cose sono reali e, essendo reali, si ritrovano infettate dalla necessità di essere contestualizzate nel panorama politico contemporaneo, ad esempio, o dai negoziati personali che devi sostenere quando usi materiali che coinvolgono altre persone in carne ed ossa.
La finzione non ha responsabilità di nessuno o di nulla. La relazione che ognuno ha con le sue finzioni è tanto privata e pulita e vera quanto quella che ha con la propria immaginazione, credo. Per quanto riguarda i fantasmi, dovevo scrivere di George, e l’ho fatto. Farlo è stato un gesto d’amore…? Mi è sembrato amore. Ma è morto, a cosa mi è servito quell’amore? Domanda enorme. Non credo di avere una risposta.
Il tuo lavoro è stato spesso catalogato come letteratura estrema. E da un punto di vista superficiale ha senso: per molti anche solo la quantità incredibile di anilingus che si trova nel George Miles Cycle basterebbe per considerarlo un’opera estrema! Purtroppo, è una categoria un po’ passé: hai raccontato più volte come Frisk uscì un mese dopo American Psycho e un mese prima dell’arresto di Jeffrey Dahmer. È stato pubblicato, in altre parole, in un’epoca d’oro dell’estremo, un periodo aureo terminato poco tempo fa. Anche solo dal mio punto di vista provinciale, italiano, è abbastanza evidente che la letteratura estrema e la cultura estrema più in generale non stiano passando un gran momento. Tu cosa ne pensi della cultura estrema nel panorama culturale attuale? C’è, a tuo avviso, qualche speranza? O I Wished è parte di una sorta di canto del cigno collettivo?
C’è sempre speranza. Sono una persona molto ottimista, è semplice logica. Non esistono stati di cose permanenti, i. e. la storia. Quando scrissi il ciclo erano altri tempi, culturalmente parlando. C’era ancora una certa moda dello sperimentale, innanzitutto. Nel cinema in un certo senso, nella musica popolare per come veniva suonata, ad esempio, nell’indie rock lo-fi o nelle prime forme di musica elettronica che alimentava la cultura rave, e anche in letteratura. Le persone intelligenti, brillanti volevano, per chissà quale motivo, che l’arte li sfidasse.
Oggigiorno i lavori sperimentali vengono marginalizzati in quasi ogni ambito. La sperimentazione che attira la gente in massa sembra essere solo quella che abbellisce forme artistiche già consolidate – film horror pretenziosi o ritocchini testuali e parole grosse in musica hip-hop che sarebbe altrimenti roba completamente mainstream. Ci sono un sacco di lavori coraggiosi, è solo difficile trovarli nel mezzo della saturazione di opere finto-eccitanti. Ma penso che passerà. La gente si annoierà delle solite cose. Succede sempre.
Una cosa che mi ha spesso affascinato dei tuoi libri sono i loro riferimenti musicali. Ad esempio, I Apologize di Ziggy prendeva il suo nome dalla canzone degli Husker Du, che a loro volta erano una sorta di personaggio-fantasma che raccontava la storia da dietro le quinte, insieme agli Slayer e ai Sonic Youth. Ma gli esempi potrebbero essere molti, e sarebbero tutti ugualmente cruciali per tutti i tuoi libri. In un certo senso, I Wished è eccezionalmente spoglio da questo punto di vista. L’unica figura musicale che mi ha colpito in questo libro è Nick Drake, di cui metti in scena una rapida, agghiacciante rappresentazione dei suoi ultimi giorni. Cosa ascoltavi scrivendo I Wished? C’è un album o una band che ti ha ispirato?
Non credo ci sia un tipo di musica specifico che ha ispirato I Wished. Prima di tutto perché ho iniziato a scriverlo nove anni fa e poi l’ho messo da parte e non l’ho più toccato per quattro anni e poi ci sono tornato su per finirlo. Per cui non è stato scritto in un’unica esplosione in cui posso rintracciare la musica a cui stavo pensando. Penso che non sia influenzato dalla musica come i miei altri libri. I riferimenti a Nick Drake derivano dall’attaccamento di George alla sua musica. Negli ultimi anni in cui ho scritto il libro ascoltavo molto noise e musica sperimentale, un sacco di canzoni a caso al posto di specifici album o artisti.
Per concludere, una domanda sul George Miles Extended Universe: I Wished è davvero un epilogo? Leggeremo altri lavori su George Miles? È finita?
In un certo senso, non saprei cos’altro scrivere su George. Da quel punto di vista, non credo che scriverò un altro libro su di lui. Non si sa mai, ovviamente, ma non penso. Lui ispira i miei lavori in maniera profonda, per cui in quel senso potrei continuare, ma lui e la sua influenza non sarebbero necessariamente visibili al lettore. Ma non ho un piano o una serie di regole per questo genere di cose. Parto sempre da zero quando scrivo un nuovo libro, e qualsiasi cosa è possibile.