Fayçal Baghriche, Souvenir

Decolonizzare la psiche

Una riflessione sulle ferite invisibili dell’Algeria contemporanea a partire da “Il trauma coloniale” di Karima Lazali

Quanto ancora resta da elaborare di questa sofferenza? Karima Lazali, psicologa clinica e psicoanalista, attiva a Parigi e Algeri, cerca di rispondere a questa domanda in Il trauma coloniale, riflessione sugli effetti psichici dell’oppressione della colonizzazione francese tutt’ora presenti nella società algerina. Apparso nell’edizione originale nel 2018, l’opera, recentemente tradotta in italiano da Barbara Sommovigo per i tipi di Astarte, applica il punto di vista clinico per sviluppare un’ampia disamina storiografica e politica sui decenni di sofferenze del popolo algerino. 

Il punto di partenza del suo interrogativo risiede infatti nella pratica psicoanalitica, in cui tanto i pazienti algerini quanto quelli francesi sembrano scontrarsi con il «significante Algeria», una sorta di ingombro proveniente dalla storia coloniale che, nella difficoltà a trasmettersi attraverso le generazioni, si trasforma in uno spazio bianco della memoria e della politica, una zona interdetta al pensiero e alla rielaborazione di traumi e lutti. 

Spazi bianchi

Zona bianca, spazio bianco, bianco: sono termini e locuzioni ricorrenti nel libro, che rimandano alle cancellazioni e alle riscritture fisiche, culturali e simboliche imposte dall’oppressione coloniale; ma, – secondo le intuizioni dello psichiatra martinicano Frantz Fanon, figura di riferimento della lotta per l’indipendenza algerina, sono altresì termini che rimandano al bianco del colonizzatore, il cui sguardo razzista e razzializzante produce l’alienazione e lo spossessamento del nero – cioè il colonizzato. L’autrice parte dall’idea fondante del pensiero di Fanon, secondo cui ci sono costruzioni patologiche che hanno la loro origine nella storia e, nello specifico, nel lungo periodo – 132 anni, dal 1830 al 1962 – di dominazione e violenza francese sull’Algeria. La malattia mentale si nutre della dimensione politica e si configura come una patologia della libertà che ostacola tanto il soggetto quanto il collettivo, un intero popolo, nella propria emancipazione e autorealizzazione. 

Come Fanon, Lazali adotta uno sguardo che tecnicamente possiamo definire multidisciplinare, col rischio di mettere in ombra, attraverso un termine ormai abusato in ambito accademico, l’urgenza di affrontare il problema alla radice della sua complessità apparentemente indistricabile. “La storia coglie, la letteratura scrive e la psicoanalisi legge ciò che nel testo si trova nello spazio bianco dei  suoi margini”. Il senso di questa analisi composita mira a fare sì che il trauma, significante altrettanto abusato e costantemente esposto al rischio della banalizzazione, esca dallo spazio privato della medicalizzazione e trovi una soluzione politica e collettiva, senza la quale resta condannato alla ripetizione infinita.  L’umiliazione coloniale, l’offesa e il disprezzo (hogra in lingua algerina) provocati nei decenni dell’occupazione francese innescano un meccanismo di diniego e di forclusione – termini mutuati dalla psicoanalisi – che non consentono al soggetto di partecipare, una volta terminato il processo di colonizzazione, “a una riconfigurazione della Storia e delle lingue, né tantomeno a un sentimento condiviso di esistenza politica”. 

Alcuni esempi di questo meccanismo sono individuati dall’autrice nel sentimento di illegittimità generatosi dalla perdita dei familiari e dalla cancellazione dei rapporti di filiazione a seguito della sparizione fisica dei padri ad opera della violenza coloniale. Oltre a ciò, nell’Algeria colonizzata, la sparizioni fisiche si intrecciano con quelle simboliche, con la cancellazione dei patronimici d’origine sostituiti dai cognomi francesi imposti dall’amministrazione coloniale. La perdita simbolica del nome sottrae all’individuo la dimensione che lo localizza e ne attesta l’affiliazione, ma non solo: nel momento del conflitto violento e della guerra d’indipendenza, il cambio dei nomi impedisce fattivamente di avere accesso al computo dei morti, annulla la possibilità di ricongiungimento con i parenti defunti e la conseguente elaborazione del lutto. 

C’è una parte colonizzata del soggetto che resta ancorata a una forma di godimento particolare, legata allo spossessamento come meccanismo di difesa.

La cancellazione dell’identità soggettiva, l’alienazione da sé, sono temi centrali nelle riflessioni di Fanon a partire dall’opera Pelle nera, maschere bianche del 1952. Qui e attraverso gli scritti successivi lo psichiatra martinicano elabora una lettura del tutto originale degli effetti del colonialismo proprio a partire dalla dimensione psichica del colonizzato, dove si rivela a tutto tondo l’impossibilità della relazione autentica con l’Altro, proprio in virtù della negazione della soggettività. “Poiché è negazione sistematizzata dell’altro”, scrive Fanon ne I dannati della terra, “il colonialismo costringe il popolo dominato a porsi continuamente la domanda Chi sono io in realtà?” 

La decolonizzazione delle soggettività

Un bambino di sette anni, segnato da profonde ferite provocate da un filo d’acciaio con cui è stato legato mentre i soldati francesi picchiavano e uccidevano i suoi genitori e le sue sorelle. Un luogotenente lo ha costretto a tenere gli occhi aperti, affinché vedesse e ricordasse a lungo […] Ebbene crediamo sia facile far dimenticare a questo bambino l’assassinio dei suoi genitori, e il suo enorme desiderio di vendetta? 
Frantz Fanon, L’Anno V della rivoluzione algerina

Negli ultimi anni della sua vita, mentre imperversava lo scontro diretto tra il Fronte di Liberazione Nazionale e la potenza francese, Fanon intuiva che gli effetti psichici della violenza coloniale, amplificatisi dal conflitto armato per l’indipendenza, avrebbero lasciato solchi profondi nel popolo algerino, il cui avvenire risultava ormai ipotecato. La disamina di Lazali prosegue dal punto in cui le intuizioni di Fanon, scomparso nel 1961 alla vigilia dell’indipendenza algerina, rimangono poco più che accennate. Secondo Lazali, infatti, l’apporto fondamentale di Fanon – spesso sottovalutato dalla lettura militante che ne considera solo l’aspetto più prettamente politico – sta proprio nell’aver messo in luce, grazie al suo sguardo di psichiatra, come il colonizzato non sia una semplice vittima, ma entrambi, colono e colonizzato, siano «operatori di un sistema». 

“Il colonizzato – scriveva Fanon nel saggio I dannati della terra – sogna sempre di impiantarsi nel posto del colono”: c’è una parte colonizzata del soggetto che – spiega Lazali ricorrendo ai concetti della psicoanalisi – resta ancorata a una forma di godimento particolare, legata allo spossessamento come meccanismo di difesa. Tale aspetto rivela a pieno le difficoltà del processo di decolonizzazione delle soggettività, la quale non avviene automaticamente una volta acquisita la liberazione politica, ma viene costantemente ostacolata dal protrarsi degli effetti psichici del trauma sociale e da un ripetersi indefinito dei meccanismi simbolici della violenza coloniale che opera attraverso la cancellazione dell’altro.

Ciò avviene, ad esempio, nel tentativo di reinstaurare i patronimici cancellati: lo spazio bianco prodotto dalla scomparsa dei nomi originari persiste nel momento in cui i nomi vengono  nuovamente modificati, oppure mutilati in seguito a errori di trascrizione dal francese all’arabo, perdendo nuovamente l’affiliazione originaria e l’integrità dell’identità individuale, anche a distanza di anni dall’indipendenza. Gli effetti dell’intraducibile si sprigionano anche nella rinominazione delle strade delle grandi città, volta a cancellare ope legis le tracce del passato coloniale, al prezzo, tuttavia, della perdita di riferimenti spaziali e di una rottura dei legami con i luoghi. 

Come uscire da questo «patto coloniale» che mantiene i soggetti in una dimensione anti-politica e sembra rinnovarsi ciclicamente attraverso la ripetizione della sua violenza?

Anche il tentativo di resistenza operato dalla letteratura algerina in lingua francese, fortemente sviluppatasi dopo le violenze dei massacri del 1945, si interrompe bruscamente al momento dell’indipendenza, quando l’arabo letterario viene affermato come lingua nazionale, cancellando allo stesso tempo la lingua del vecchio padrone e il terreno comune che si era creato negli interstizi del suo potere. Un’altra cancellazione dunque, un altro spazio bianco, imposto dall’alto, questa volta non da parte del colonizzatore, ma nel nome della nazione e della tradizione islamica  (anche la religione infatti, secondo Lazali, fa parte di un dispositivo che l’autrice chiama «LRP», ovvero «lingua, religione e politica», volto a mantenere intatta la censura e l’interdizione a pensare).

La rottura dei legami generazionali operata dal colonialismo provoca inoltre tra i colonizzati un’eterna lotta fratricida: ne è esempio non solo il conflitto tra il Fronte di Liberazione Nazionale e il Movimento Nazionale Algerino durante la guerra d’indipendenza, ma anche le violenze e i crimini perpetrati durante la guerra civile tra lo Stato algerino e il Fronte Islamico di Salvezza che ebbe luogo tra il 1992 e il 2000. La possibilità di ricomporre tali fratture sembra – insiste Lazali – essersi ancora più affossata a seguito della Legge di riconciliazione nazionale emanata per decreto presidenziale nel 2005, di fatto un’amnistia per i crimini commessi dallo Stato durante la guerra civile degli anni ‘90, in nome dell’unità nazionale. 

La lista delle tensioni che attraversano il paese potrebbe continuare con episodi successivi alla pubblicazione del libro di Lazali, basti citare le sollevazioni generatesi nel 2019 dal movimento Hirak contro la candidatura del quinto mandato del presidente Bouteflika, rivelatrici di fratture ancora palpabili all’interno del Paese e dell’impossibile costruzione della fratellanza del popolo algerino – forse proprio in virtù di questo concetto, fratellanza, così francese sin dalla sua storia? – nonostante provvedimenti di legge da parte di uno Stato in cui i cittadini non si riconoscono. Come uscire dunque da questo “patto coloniale” che mantiene i soggetti in una dimensione anti-politica e sembra rinnovarsi ciclicamente attraverso la ripetizione della sua violenza, in una sospensione del tempo e una cancellazione della memoria per tutti i suoi membri?

La mancanza di rielaborazione del trauma condanna allo scacco qualsiasi tentativo di una costruzione sociale condivisa, in cui le relazioni di riconoscimento reciproco non sono che apparenze per glorificare iniziative calate dall’alto. 

Una memoria plurale è possibile?

Nella conclusione del libro della psicanalista algerina troviamo un appello alla costruzione di una memoria plurale come soluzione al ripetersi continuo delle sofferenze causate dal trauma della violenza coloniale. Questo appello abbozzato e diretto alla società civile mira a una rielaborazione della Storia e dei suoi lutti, attraverso la partecipazione diffusa, da una riva all’altra del Mediterraneo, alla produzione di strumenti e cultura, facilitando il lavoro degli storici e il loro accesso agli archivi. Ma una memoria di questo tipo è possibile? Questa riflessione appare quanto mai urgente alla luce dei diversi tentativi di costruzione di “memorie condivise”, tanto in Francia quanto in molti altri paesi dell’Occidente – basti pensare all’Italia e agli scontri sulle memorie della Resistenza, sulla storia del confine orientale o al dibattito, che ancora stenta ad aprirsi, sulle responsabilità coloniali del Bel Paese

La linea di analisi di Fanon, ripresa ed estesa da Lazali, mostra chiaramente come la mancanza di rielaborazione del trauma condanni allo scacco qualsiasi tentativo di una costruzione sociale condivisa, in cui le relazioni di riconoscimento reciproco non sono che apparenze per glorificare iniziative calate dall’alto da parte di un potere che non ha altra mira che rafforzare se stesso. In un’immagine visionaria Fanon presagiva un futuro in cui la riconciliazione tra il Bianco e il Nero sarebbe stata celebrata da un monumento grandioso, eretto su un campo di battaglia “delimitato ai quattro angoli da decine di negri impiccati per i testicoli”. 

Questo in effetti è quanto sembra profilarsi dai recenti tentativi tradottisi in iniziative simboliche in cui la memoria finisce per sottomettersi alla ragion di Stato, lasciando intatto l’inestricabile groviglio delle identità postcoloniali e dei loro traumi.  Uno fra tutti il progetto promosso da Emmanuel Macron nel 2020 per la messa a punto di una memoria condivisa sulla colonizzazione francese in Algeria, che, lungi dall’aver posto le basi per un lavoro comune, non ha potuto impedire il reiterarsi delle frizioni tra i due paesi e gli atteggiamenti ambigui del presidente francese nel riconoscere il popolo algerino come interlocutore.  

Ben diverso è il dare voce alle esperienze soggettive ritessute all’interno di un legame collettivo, ovvero generare possibilità di riappropriazione di sé a partire dal trauma attraverso la parola, la giustizia e le diverse forme di produzione artistica che diano vita a una ricostruzione dei ricordi cancellati, in cui il lavoro di storici e storiche è facilitato dalle istituzioni e trova spazio nel dibattito della società civile. Il superamento del trauma si dà in quelle forme di “catarsi collettiva” prodotte dai soggetti stessi in una dimensione sociale, che restituiscono lo spossessamento operato dal colonialismo. “Reinventare le proprie alienazioni per sperare di liberarsene meglio” è quanto auspica Lazali, nel solco dell’idea fanoniana della liberazione del Nero in quanto uomo, ovvero libertà e possibilità, soggetto non solo reazionale rispetto alla violenza, ma azionale, fonte di reinvenzioni del pensiero e della politica.