Dark Marx

Tra nichilismo e versi satanici, lo spirito demoniaco del giovane Karl Marx è uno spettro che si aggira tra le tombe delle ideologie contemporanee

A Londra, nel sobborgo di Highgate, sorge un esteso cimitero fondato nel 1839 per offrire degna sepoltura ai rappresentanti dell’upper class londinese. Le statue che abitano la necropoli, col passare degli anni, vengono sommerse dalla rigogliosa natura, e il cimitero cade in uno stato d’incuria che rende spettrale l’ambiente; fra gli abitanti del sobborgo comincia a diffondersi la storia di bare distrutte dall’interno e figure che si muovono nell’oscurità.

La notte del 21 dicembre 1969, solstizio d’inverno (o Yule, secondo la tradizione celtica), il giovane occultista David Farrant – seguace dei culti Wicca e fondatore della British Psychic and Occult Society- decide di verificare queste leggende, e si introduce nel cimitero. Poche ore dopo lo si vede fuggire a gambe levate, e qualche giorno più tardi rivelerà, in un articolo sull’ Hampstead & Highgate Express, cosa aveva suscitato in lui terrore: un essere alto almeno due metri, vestito di nero e con in mano un cilindro, si aggirava per il cimitero. Per Farrant e il suo collega Sean Manchester non ci sono dubbi: si tratta di un vampiro.

La figura non si manifesterà più a Highgate, e la battuta di caccia che i due organizzeranno venerdì 13 marzo 1970 si rivelerà un clamoroso fallimento, seppellendo la leggenda del “vampiro del cimitero”. Ad Highgate, fra i vari monumenti, si scorge una lapide sormontata da una testa barbuta, lo sguardo severo verso l’orizzonte, e la frase “I filosofi finora hanno solo interpretato il mondo, il punto è trasformarlo”. Là dove si diceva che un vampiro si aggirasse fra le tombe, vi è infatti quella dove è sepolto colui che scrisse, in endecasillabi, “Uno spettro si aggira per l’Europa”: Karl Marx.

A differenza dello stereotipo che lo vorrebbe autore di grigi testi di economia politica (“tutta quella merda”, come scrisse in una lettera indirizzata a Engels nel 1852), il “filosofo di Treviri” era un grande cultore delle Lettere: ammiratore di Dante, non si contano le innumerevoli citazioni che inserisce nei suoi testi, fra cui la prefazione al primo libro de Il Capitale che si conclude con “Sarà per me benvenuto ogni giudizio di critica scientifica. Per quanto riguarda i pregiudizi della cosiddetta opinione pubblica, alla quale non ho fatto mai concessioni, per me vale sempre il motto del grande fiorentino: Segui il tuo corso, e lascia dir le genti!” citando così il quinto canto del Purgatorio “Vien dietro a me, e lascia dir le genti”. Studioso di Dante, come rilevato anche dal dantista Federico Sanguineti, esperto di lettere classiche, appassionato di Shakespeare ma anche soprattutto vorace lettore dei classici del Romanticismo tedesco, tanto da fare esegesi dei passi del “Faust” di Goethe tanto nei “Manoscritti economico-filosofici” quanto ne “Il Capitale”, oppure da detournarlo come fa ne “Il 18 Brumaio”.

Ed è proprio lo spirito romantico e faustiano a far capolino nei suoi primi scritti di gioventù, che anticipano la componente distruttiva della sua filosofia. Nel 1835 Karl Marx viene spedito dal padre, facoltoso avvocato di Treviri, all’Università di Bonn, dove il giovane frequenta le lezioni di filosofia di August Wilhelm von Schlegel, che nel suo “Lettere sulla Poesia” (1795) aveva identificato nell’origine del linguaggio uno strumento dell’umano per dare razionalità all’esistente. Karl è uno studente appassionato, ma si dedica anche a una vita bohemienne fatta di bisbocce notturne nelle birrerie di Bonn, tanto ad essere anche arrestato per “ubriachezza molesta”, e in un’occasione sfida a duello un suo compagno e viene ferito a un sopracciglio.

Le emozioni del giovane Marx superano la prigione della parola e invitano, nietzschanamente, a farsi Dio di sé.

Nel ’36 conosce Jenny von Westphalen, con cui si fidanza in segreto, e si trasferisce all’Università di Berlino dove comincia a frequentare le lezioni di Hegel; durante questo periodo, Marx comincia a scrivere poesie, indirizzate soprattutto all’amata Jenny. Ma non sono semplici poesie d’amore, quelle del futuro filosofo, perché in esse si scorge tanto il mal de vivre  del presente quanto il titanismo tanto caro al romanticismo tedesco, come è evidente nella poesia “A Jenny” contenuta nella raccolta “Libro dei Canti” (1936):

Parole! Menzogne siete, ombre vuote
che girano attorno alla vita!
Dovrei effondere in voi, morte, deboli,
gli spiriti che mi pervadono?
Ma gli invidiosi dèi della terra avevano
fin nel profondo scrutato l’ardore dell’uomo:
il misero deve congiungere al suono
l’ardente vampa del petto.
Ché se audace e fremente emersa fosse
nel dolce splendore dell’anima,
ardita i vostri mondi avrebbe avvolto,
voi dal vostro trono avrebbe scalzato,
la danza dello zefiro avrebbe superato
e al di là di voi un mondo sarebbe germogliato”

Una poesia di rabbia verso l’esistente più che d’amore, ingabbiato dallo sterile recinto delle parole: i sentimenti del giovane Marx per Jenny sono titanici e non si possono esprimere con le parole – “ombre vuote” che, con la pretesa di dare ordine all’esistente, come diceva Schlegel, ne tolgono potenza. Del resto quasi un secolo dopo Ludwig Von Wittgenstein scriverà “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”, e lo spirito guerresco di Marx si ribella a questa delimitazione di una passione senza frontiere. L’ Internazionale Situazionista, fondata nel 1957, riprenderà in pieno la critica al linguaggio contenuta in questa poesia, sostenendo che per sbarazzarsi del mondo delle merci era necessario farlo anche del linguaggio che porta con sé e lo giustifica; così scrivono nel testo “All the King’s Men”, del 1963:

Viviamo nel linguaggio come nell’aria viziata. …Le parole non giocano, …non fanno l’amore, salvo che in sogno…le parole lavorano, per conto dell’organizzazione dominante della vita…ma ogni rivoluzione è nata dalla poesia, si è fatta innanzitutto con la forza della poesia.”

Con la parola che si fa azione, leit-motiv dei futuri movimenti anarchici e insurrezionali, Marx aspira a essere alla pari di Dio, poiché partecipa come esso alla Creazione di un mondo nuovo.

Quasi quindici anni dopo il semiologo Roland Barthes dirà, nella sua lezione inaugurale al Collège de France nel 1977, che tutto il linguaggio è fascista, poiché non impedisce di dire ma obbliga a farlo, e per sostenere la sua tesi prenderà proprio in prestito gli assunti di Marx ed Engels ne “L’Ideologia Tedesca”, ove si afferma che tutte le ideologie, i dogmi, le credenze, e con esse pure il linguaggio che li circoscrive, sono chimere che separano l’umano dal mondo materiale, e davanti a cui gli umani chinano il capo. Le emozioni del giovane Marx superano la prigione della parola e invitano, nietzschanamente, a farsi Dio di sé stessi, come esplicita in “Orgoglio d’uomo”, altra poesia d’amore “bellico”:

Lontano in terra straniera.
Nessuna può fermarci,
Chiudere la nostra speranza,
Le forme svaniscono
E restano solo gioia e sofferenza.
(…)
Come gli dèi andrò avanti,
Vittorioso fra le rovine,
Ogni parola fiamma e azione
Sarò pari al Creatore.

Con la parola che si fa azione, leit-motiv dei futuri movimenti anarchici e insurrezionali, Marx aspira a essere alla pari di Dio, poiché partecipa come esso alla Creazione di un mondo nuovo: la dottrina non è nuova, poiché proprio gli alchimisti erano accusati di voler “mettersi alla pari di Dio” nelle fasi dell’opera alchemica (nigredo-albedo-citrinitas-rubedo), ma per Marx è l’azione a decomporre l’esistente e a costituirne il superamento. Nei primi anni di Berlino, egli si avvicina ad altri studenti di Hegel per costituire un gruppo di “hegeliani di sinistra”, muovendo critiche feroci alla religione. Così scrive al padre in una lettera del novembre 1837:

Era caduto il velo, il mio sancta sanctorum era a pezzi bisognava metterci dei nuovi dei. Partendo dall’idealismo che, sia detto di sfuggita, ho confrontato e nutrito con ciò che mi fornivano Kant e Fichte, sono arrivato a cercare l’idea nel reale stesso. Se gli dèi avevano un tempo abitato al di sopra della terra, ora ne erano diventati il centro.

Il diciannovenne Marx, che da bambino era stato molto religioso, rileva l’assenza di un Dio al di sopra di lui, e comincia a coltivare la rabbia verso ciò che in seguito definirà “oppio dei popoli”. La poesia “Sentimenti” (1937) è esemplificativa dello spirito faustiano che lo agita in quegli anni:

Non posso conformarmi alla vita,
non viaggerò con la corrente.
Comprenderei il paradiso,
attirerei a me il mondo;
Amando, odiando, intendo
che la mia stella brilli brillantemente.
(…)
Mondi che vorrei distruggere per sempre,
Dal momento che non posso creare alcun mondo,
Dal momento che della mia chiamata non si accorgono mai,
Correndo muti in un vortice magico.

C’è qualcosa del Lucifero di Milton, in questa poesia, poiché vi è lo stesso odio, l’invidia, di un trascendente continuamente frustrato, e la scelta di regnare all’inferno piuttosto del continuo servaggio in un paradiso che s’attende ma mai arriva. Il giovane Marx sembra riecheggiare anche la cosmogonia di Blake, dove il mondo creato dal malefico Urizen è una prigione – così come detto anche nell’Amleto di Shakespeare- fatto della passione triste del possibile, mentre egli cerca nella poesia e nell’azione un ordine nuovo, fatto di desiderio e sentimento. William Blake,  e soprattutto il suo “Lucifero buono” Orc, che si oppone a Urizen con la libertà dell’arte, torna pure nella poesia “Il violinista”, sempre del ’37, in cui inscena il dialogo fra un credente e un musicista impazzito:

Violinista, come mai il disprezzo ti lacera il cuore?
Un Dio radioso ti ha prestato la tua arte,
– Per abbagliare con onde di melodia,
– Per librarti verso la danza delle stelle nel cielo.

Come mai! Io immergo, immergo senza fallire
La mia sciabola nera come il sangue nella tua anima.
– Quell’arte che Dio non vuole né conosce,
– Salta al cervello dalle nebbie nere dell’Inferno.

Finché il cuore non è stregato, finché i sensi non vacillano:
con Satana ho concluso il mio patto.
– Disegna i segni con il gesso, batte il tempo per me,
– Io suono veloce e libero la marcia della morte

Praticamente un testo black metal, questa e altre poesie di Marx sono state spesso citate dai cristiani conservatori per dimostrare il presunto satanismo di Marx; eppure, a una lettura meno tendenziosa, anche i riferimenti “diabolici” provengono dalla lunga tradizione del mito della rivolta, da Prometeo agli angeli caduti del Libro di Enoch. Ma forse, il testo più controverso e “mefistofelico” del giovane Marx è il dramma incompiuto Oulanem, scritto nel 1839. La storia narra dell’arrivo del filosofo nichilista Oulanem, inversione del nome che l’evangelista Matteo attribuisce a Gesù e che significa, in ebraico, “Figlio di Dio”, in un paesino sulle alpi italiane. Ad attenderlo vi è il cittadino Pertini (una scelta del nome che si rivelerà, profeticamente, ironica), che gli si professa amico ma in realtà nutre una volontà di vendetta per dei torti che non ci vengono narrati. Tutti i personaggi del dramma appaiono corrotti e malvagi, e Oulanem stesso rivela un animo diabolico e distruttivo:

Il mondo che sorge fra me e l’abisso,
Lo farò a pezzi, con le mie
Durevoli maledizioni.
Stringerò fra le mie braccia la sua dura realtà,
Abbracciandomi, il mondo perirà in silenzio,
E sprofonderà nell’estremo nulla.
Perire, senza esistenza: questo sarebbe
Realmente vivere

Nei tempi che viviamo, nel cimitero delle ideologie, leggere Marx da questa prospettiva distruttrice può farci scorgere uno spettro che si aggira per le tombe.

Oulanem sembra essere un progenitore di Maldoror, l’essere in rivolta contro Dio e la Creazione descritto da Isidore Ducasse nei “Chants Of Maldoror” (1869), testo che verrà preso dai surrealisti come vera e propria fonte di ispirazione. Sia Maldoror che Oulanem odiano Dio per l’universo che ha creato attorno a loro, un mondo completamente svuotato dalle passioni;  “una gabbia d’acciaio” dirà in seguito Max Weber, una struttura reificata e alienata dominata dalla Zweckrationalitiil, l’attività razionalizzata per rispondere a bisogni strumentali. Marx, per voce del suo avatar Oulanem, enuncia:

Il mondo plumbeo rapido ci trattiene,
E siamo incatenati, frantumati, vuoti, spaventati,
Eternamente incatenati a questo blocco di marmo dell’Essere …
e noi –
Siamo le scimmie di un Dio freddo
.”

Impossibile non vedere in questi versi ciò che poi Marx elaborerà nei termini della reificazione e dell’alienazione, dove l’esperienza umana e il processo produttivo sono mediate dal rapporto delle merci, che diventa totalizzante. “Il Dio freddo” è quindi il capitalismo che limita lo sviluppo dell’umanità verso tutte le sue forme, e che quindi va abolito per far spazio al “Regno della libertà”. “Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna”, scrive Marx nel terzo libro de Il Capitale, “si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria.” 

Finché il mondo non è libero da queste catene, tutto ciò che esiste si rappresenta come “plumbeo”, scrive in Oulanem, rarefatto da quella che poi descriverà come “separazione”. E quindi deve essere distrutto. In Oulanem, così come nelle poesie giovanili di Marx, vi sono i prodromi di quella che potrebbe essere una tendenza “gnostica” del marxismo: l’esistente, come prodotto totalizzante del dominio di una classe su un’altra, va abolito. “I comunisti non vogliono sacrificare nessuno alla Società” risponde Marx a Stirner “Vogliono, semmai, sacrificare la Società esistente”.

Gli scritti del Marx giovane ci aiutano, adottando un approccio olistico e non parcellizzando la vita dell’uomo, a intuire i prodromi del comunismo come “filosofia del martello” e non come afflato umanistico di natura riformista e religiosa. Nei tempi che viviamo, nel cimitero delle ideologie, leggere Marx da questa prospettiva distruttrice può farci scorgere uno spettro che si aggira per le tombe. Il suo nome è noto, e fuor dalla gabbia delle parole può ancora abolire lo stato di cose presente.