Dalla robotopia al cyberpunk

Breve storia della fantascienza giapponese a fumetti

Perché il Giappone appare, perennemente, come la più intrinsecamente futuristica tra le nazioni? Quando ero bambino il futuro era l’America. Il ruolo del Giappone stava solo nella produzione di robot di latta a carica e astronauti di plastica stampati a iniezione. Quarant’anni dopo, la relazione speciale che l’America aveva con il futuro si è spezzata.
William Gibson 

Il cyberpunk senza japoneserie non sarebbe il cyberpunk. Per anni il Giappone è stato un modello di trasformazione tecno-futuristica della realtà, necessaria fonte di ispirazione per gli scrittori di fantascienza occidentali – una fascinazione resa ancora più forte dalla dialettica con una tradizione ricca di elementi misteriosi e “barbarici”. In effetti, non è servita una conoscenza approfondita del Giappone a William Gibson per scegliere Chiba come ambientazione nel Neuromante: quella degli scrittori cyberpunk fu una fascinazione per certi versi superficiale, tanto erano ammaliati da una cultura di cui non conoscevano nemmeno un kanji. Ma come ha fatto il paese del Sol Levante a passare da paese dei samurai a robotopia in meno di un secolo? Io, da traduttore e studioso di manga, non posso che rispondere alla domanda in questo modo. Seguitemi.

Possiamo pensare al rapporto Giappone con la tecnologia occidentale in tre “traumi”: 

Epoca Meiji (1868 – 1912): per sopravvivere e non essere colonizzati dagli Stati occidentali bisogna acquisire le tecnologie “aliene” per sopravvivere; la “rivoluzione” sociale viene imposta dall’alto: alcuni slogan del tempo sono “Fukoku Kyōhei (“arricchire la nazione e rinforzare l’esercito”) e “Bunmei Kaika”: “civiltà e illuminismo”.

Seconda guerra mondiale: la scienza occidentale si è espressa al suo massimo con la bomba atomica sganciata su Hiroshima e Nagasaki, vera apocalisse sulla Terra.

Dopoguerra: la tecnologia e la società dei consumi forgiano – spoiler: come un innesto cyborg – l’identità nazionale di oggi, tra alta tecnologia e tradizione.

In realtà, già prima del secondo conflitto mondiale, la filosofia di Nishida Kitarō – uno dei filosofi giapponesi più importanti, fondatore della Scuola di Kyoto, quella dei filosofi del nulla – aveva cercato di trovare un possibile compromesso tra cultura giapponese e tecnologia occidentale: al posto di rifiutare la scienza “straniera” e rivalutare la cultura tradizionale dell’Arcipelago, Nishida cercò di stabilire una sintesi tra Oriente e Occidente, e nel suo Nihon bunka no mondai (“Il problema della cultura giapponese”) creò una logica complicata che serviva a provare il fatto che il Giappone poteva diventare il mondo e che si potesse dissolvere l’opposizione Est-Ovest in un’unicità universale senza perdere le proprie particolarità – una condizione ideale che il filosofo di Kyoto chiama Mondo Storico. L’impostazione di Nishida anticipò riflessioni divenute urgenti nel mondo globalizzato e ipertecnologizzato, nonché problematiche che nel corso del Novecento non si sono sapute risolvere, ma che sopravvivono nelle narrazioni – specie se disegnate. 

Viaggi su Marte e robot

In effetti, mentre i filosofi di Kyoto si domandano come “lo spirito giapponese” possa sopravvivere al mondo moderno, il fumetto – che ricordiamo essere in Giappone vivo specchio della società, e non mera amenità per marmocchi – già esprime fantasie, speranze e dubbi sul nuovo mondo  introdotto dalla scienza. Secondo i manuali di storia del manga, un esempio importante in tal senso è Kasei tanken (“Viaggio su Marte”) di Asahi Tarō, pubblicato nel 1940. Se le avventure di un ragazzo accompagnato da animali domestici parlanti sono graficamente vicine all’avventura fantastica e al sogno alla Little Nemo, Kasei tanken preannuncia ben tre generi che fioriranno in seguito: la fantascienza tout court, l’avventura scientifica (kagaku bōken, dove un giovane studioso mette tutte le sue conoscenze e il suo coraggio al servizio del bene e della nazione), e tutto quel filone con al centro le avventure di un ragazzo accompagnato da un essere non umano, e il cui esempio più rappresentativo e conosciuto è probabilmente Doraemon (1969). 

Ancora: nel 1943, e quindi  in piena guerra, Yokoyama Ryūichi crea Kagaku senshi, un “guerriero scientifico” che si troverà in breve tempo a devastare New York. Questa “primitiva chincaglieria” (come la definisce lo storico del manga Jean-Marie Bouissou, confondendo l’autore con Tagawa Suihō, il papà di Norakuro), è l’antenato dei robottoni da guerra che, da Goldrake in avanti, invaderanno – non senza una certa logica imperialista – i nostri schermi televisivi. Altri vedono in Tank Tankuro di Sakamoto Gajo del 1934 il primo robottone: ma è difficile definire in tal senso questo guerriero imperialista protagonista di un manga non scevro di elementi di propaganda. In ogni caso, il Kagaku senshi di Yokoyama è solo il primo di una lunga fila: a sottolineare la robofilia nipponica, da lì arriveranno Tetsujin 28-gō di Yokoyama Mitsuteru e soprattutto Tetsuwan Atom, l’Astro Boy di Tezuka Osamu.

Considerando velocemente certi aspetti dello Shintoismo, si può generalizzare un poco e asserire che per molti giapponesi “ogni cosa è sacra e ha uno spirito”. In effetti, per una popolazione che ha scoperto kami (divinità) in ogni dove, è naturale che il robot sia visto come qualcosa di vivo, oltre che simbiotico in una società votata a rendersi sempre più robotica.  

Non stupisce allora che il primo eroe di carta a imporsi nel dopoguerra sia stato proprio Astro Boy di Tezuka: un robot ma dalle forme non minacciose, simile ai tanti bambini che giravano per le strade. Apparso per la prima volta nel 1951, Astro Boy è divenuta una delle serie manga (e anime) più celebri di sempre: fa parte del patrimonio culturale giapponese alla pari delle opere di Mishima e Kawabata, o dei film di Kurosawa e Ozu. Il fatto che Astro Boy fosse un automa (a differenza di Tetsujin 28-gō, dove il robot era telecomandato) è stato parte del successo.

Se mi sono dilungato su queste nozioni storiche, è anche perché queste letture “robotiche” sono state la culla di tutti gli autori cyberpunk e fantascientifici a venire. In un’intervista, Masamune Shirō (Ghost in the Shell) ha rimarcato quanto la sua infanzia – e quella dei giapponesi in generale – sia stata educata proprio dalla “fanta-robotica”: i robot erano amici, attrezzi un po’ umani un po’ no che hanno ricostruito una nazione distrutta dalla bomba atomica. Nel dopoguerra, la tecnologia è stata per i giapponesi la chiave per non essere colonizzati dalle potenze occidentali – la chiave, dopo la sconfitta, per dominare un mondo. 

Nei primi anni Settanta, Nagai Gō consolida il genere dei mecha con Mazinga Z, a cui seguiranno Great Mazinger (1974-75) e UFO Robo Grendizer (1975-76); questi robot in un certo senso risolvono l’antico problema della personificazione della macchina (esempio tipico: il gigantesco robot pilotato da una piccola macchina volante), ma causano anche controversie: fino a questo momento, la maggior parte della critica giapponese ancora sente come il genere fantascientifico sia qualcosa di imposto da fuori, e che la letteratura nazionale non sia che una imitazione un po’ vuota di elementi altrui (fanno eccezione scrittori come Abe Kōbō che, nonostante l’orientamento fantascientifico, coi suoi romanzi è riuscito a trovare posto anche nella letteratura non di genere o “ufficiale”). A partire dal dopoguerra, il manga fantascientifico si è dopotutto evoluto inglobando le varie correnti sci-fi straniere sincronicamente più che diacronicamente, ricevendo influenze simultanee senza seguire un ordine preciso; ecco perché possono convivere nello stesso universo letterario sia la fantascienza hardcore che quella speculativa o il fantasy, spazio profondo e spazio interiore.

Solo con la serie animata Gundam (1979) di Tomino Yoshiyuki il genere mecha riesce a uscire da questo pantano, realizzando il passaggio che dal super robot porta al real robot. Se nel primo il tipico elemento speculativo della sci-fi è praticamente assente (si tratta fondamentalmente di storie in cui arriva il Mazinga di turno a salvare la situazione), nel secondo l’elemento robotico viene considerato un’arma militare e trattato come tale, non senza suscitare un certo feticismo militaresco. Da lì, discendono gli elementi di analisi socio-politica-etica che, specie agli occhi occidentali, rendono pienamente Gundam un’opera di vera fantascienza. 

Innesti

Mentre, attorno alla metà degli anni Ottanta, Ōtomo Katsuhiro disegnava un’opera pionieristica del cyberpunk come Akira, non immaginava che dall’altra parte dell’emisfero la fantascienza americana e anglosassone stesse prendendo come riferimento proprio la sua nazione – in giapponese, Neuromante non era ancora stato tradotto. Quando però il cyberpunk esploderà, i nuovi automi saranno pronti a sviluppare reti neuronali tra i server, come in Ghost in the Shell di Shirow Masamune (a tal proposito: rispetto al lungometraggio animato che lo ha reso celebre, dove molti elementi cyberpunk sono in qualche modo “accessori estetici”, i tre tankōbon che raccolgono il manga sono assai più densi di cibernetica applicata, e le implicazioni etiche della tecnologia sono ampiamente accelerate e approfondite in lunghe note dall’autore); altri faranno invece fatica a liberarsi delle parti organiche, come in Alita di Kishiro Yukito. 

Non ho citato questi due titoli a caso: nella produzione di manga propriamente detta cyberpunk di fine anni Ottanta e inizio Novanta, a emergere – a differenza dei corrispettivi occidentali maschi etero – è la figura del cyborg femminile. Ma se è vero che queste protagoniste sfidano, con il loro corpo organico-meccanico, le categorie etniche e di genere, non dobbiamo però farci trasportare troppo in là dal Cyborg Manifesto di Donna Haraway. Di nuovo, sarebbe più corretto leggere la presenza di eroine cyborg come sintomo dell’identità lacerata giapponese, divisa tra spirito nazionale e tecnologia “aliena”.

Aspetto comune della grande tradizione narrativa sulla “trasformazione dei corpi”, che va da Kachikujin yapū (Yapoo il bestiame umano di Numa Shōzō del 1953) a Tetsuo di Tsukamoto Shin’ya (1988), è l’accettazione forzata e violenta di implementazioni meccaniche e cibernetiche, che implicano la mutazione come condizione necessaria alla sopravvivenza. Inoltre, non bisogna dimenticare che il cyberpunk giapponese ha reso implicita la vecchia logica dell’unicità – e superiorità estetica e morale – del Giappone: sia Ghost in the Shell che Alita sono un sintomo dello struggimento delle dualità io/altro, organico/inorganico, Giappone/Occidente. Probabilmente è un caso, ma come fa notare Bouissou, “Alita, eroina senza memoria alla ricerca della propria identità, riproduce inconsciamente il percorso che fu del Giappone sulla scena mondiale tra l’era Meiji e la fine del XX secolo. È in successione ‘aggressore dei propri vicini’ (cacciatrice di taglie), ‘vincitrice di una competizione economica’ (campionessa sportiva) e ‘alleata degli Stati Uniti’ (mercenaria per Salem) prima di scoprire che un tempo fu Yoko (giapponese, dunque), guerriera sconfitta e decapitata”.

Otaku superflat

In A Theory of Super Flat Japanese Art, Murakami Takashi riprendeva l’idea di Tsuji Nobuo secondo la quale le convenzioni pittoriche tradizionali dell’antico Giappone – spazio piano, poca profondità negli spazi e nei volti – erano più forti che mai nell’arte popolare rappresentata da manga, anime, videogiochi ecc. Al tempo stesso, secondo Murakami, il futuro del mondo era il presente (gli anni Novanta) del Giappone. 

Molti critici si trovano d’accordo nell’indicare una certa scarsezza di profondità nella struttura teorica di Neon Genesis Evangelion, l’anime del 1995 ultima evoluzione del mecha. In effetti l’idea di una serie fantascientifica che si conclude con un nuovo Adamo ed Eva è trita e ritrita nel panorama occidentale; la debolezza della struttura narrativa viene però perdonata da pubblico e critica grazie alla profonda caratterizzazione dei personaggi, alle scelte registiche, e a un mecha design avanguardistico ancora per gli standard di oggi. Insomma, per scelte di significante – di superficie. Va anche notato come il manga di Evangelion arrivi dopo la serie animata: da tempo ormai la carta non è più il terreno esclusivo da dove vengono tratte le storie da animare, anche nei piccoli studi di animazione indipendenti; il terreno fertile è quello del merchandise, canale diretto con l’universo otaku (a cui infatti si rivolge lo stesso Evangelion). 

L’evasione otaku dalla realtà contiene due aspetti contrapposti: da un lato esprime eversione e ribellione da una realtà ultra-tecno-liberista e da una severissima morale sociale; dall’altro, è un misero palliativo che cementifica la realtà-prigione. In questo contesto va inserita l’erotizzazione di molta sci-fi, da leggere sia come ribaltamento della normatività che come catarsi. Libera dal dogmatismo del materialismo dialettico, la proliferazione otaku che vede il COMIKET come manifestazione principale erotizza l’inimmaginabile: il manga apocalittico e fantascientifico ne viene investito – pensiamo a Urotsukidōji: Legend of the Overfiend di Maeda Toshio; Masamune Shirō si è dato agli hentai cyberpunk.

Verso il Vuoto

Come sottolinea Matteo Gaspari, Tsutomu Nihei in Blame! echeggia molte strade della filosofia contemporanea, dagli iperoggetti di Timothy Morton agli incubi tecnologici di Nick Bostrom. Nel manga di Nihei (iniziato a fine anni Novanta), il cyberpunk è superato dal nichilismo post digitale. Internet – la rete – non è che una AI impazzita. Le tribù che popolano le megastrutture – singolarità tecnologica – hanno dimenticato la loro cultura, hanno smarrito le conoscenze e i rituali che rendono “umano” l’essere umano. La ricerca disperata di esseri con ancora in possesso i “geni terminali” (ovvero la capacità di collegarsi alla rete) da parte del protagonista (forse cyborg, in ogni caso transumano come gli esseri di silicio) è la ricerca dell’umanità, e non del simulacro di essa. Se la storia è la storia delle parole, come dicevano Burroughs e Gysin, allora l’ambientazione di Blame! è antistorica: gli esseri che abitano in questi incubi industriali hanno smesso di leggere e comunicare.

In quest’opera volutamente ermetica e anti-narrativa, Nihei riesce a condensare e a descrivere a fumetto con veggenza poetica le minacce di un futuro sempre più prossimo.

Come Watchmen ha segnato la fine (o una fine) del fumetto supereroistico, Nihei segna la fine della fantascienza giapponese per come la conosciamo (almeno con Blame!, e cioè prima di fare qualche passo indietro con Knights of Sidonia, opera squisitamente mecha). Non si può non notare un certo “vuoto” al sapore di neon delle narrazioni cyberpunk contemporanee, come non lo si può non notare nella erotizzazione alienante del mondo otaku: se non rimane niente di umano, almeno che resista una ontologia negativa nel Mondo Storico ormai destoricizzato. 

Se questo percorso “altro” (e necessariamente non esaustivo)  ha portato a un Nulla come conclusione del rapporto conflittuale nato dall’ibridazione civiltà/tecnologia (e il Giappone storicamente si è prestato come forte concentrazione di contraddizione) probabilmente è perché non si è ancora sciolto il nodo tra “pieno” del raziocinio occidentale al “vuoto” del pensiero orientale. In ogni caso, si è realizzata in parte la visione di Dick de La svastica sul sole: il Giappone ha dominato il dopoguerra e conquistato il mondo, non con l’esercito ma coi robottoni di carta. Cosa succederà quando waifu cibernetiche e hologram idol entreranno a far parte delle nostre esistenze quotidiane?

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