Crepa padrone, tutto va bene

Il fallimento del villaggio operaio di Crespi d’Adda e la tragedia del villaggio minerario di Ribolla: due storie di capitalismo italiano

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Il cimitero di Crespi d’Adda

La seconda rivoluzione industriale, in Italia, fiorì lungo le sponde dell’Adda. Tra la provincia di Bergamo e quella di Milano, seguendo il percorso del fiume e dei suoi canali, ancora oggi si incontrano dighe e centrali idroelettriche costruite a partire da metà Ottocento per fornire forza motrice alle pulegge di opifici, lanifici e filande:  sono edifici dalle geometrie sontuose ed eleganti, spesso ancora in funzione, a volte abbandonati e ricoperti di vegetazione.

Una trentina di chilometri dopo aver lasciato il Lago di Como, l’Adda incontra il Brembo. La confluenza dei due fiumi disegna un triangolo capovolto. Sulla punta meridionale di quel triangolo nacque il villaggio operaio di Crespi d’Adda. È un paese infossato in una piccola piana di un centinaio di ettari e praticamente invisibile dai paesi nei dintorni, che sorgono qualche metro più in alto. L’unico contatto con l’esterno è a nord: risalendo il terrazzamento si va verso Trezzo e – oggi – l’autostrada.

Alla nascita dell’industria moderna, quando l’acqua era il motore dello sviluppo, la ricca famiglia dei Crespi, mercanti e imprenditori tessili, decise di costruire qui il proprio stabilimento per la filatura del cotone, accanto all’Adda e al Naviglio Martesana. Allestita la centrale idroelettrica, venne costruito anche lo stabilimento. Finito quello si iniziarono a mettere in piedi le case per gli operai. Il villaggio venne edificato in diverse tappe, nel corso degli anni, e arrivò a ospitare centinaia di famiglie. 

Se avete giocato almeno una volta a Sim City o a qualche altro simulatore del genere vi sembrerà di comprendere Crespi d’Adda al primo sguardo. Il villaggio venne costruito da zero per diventare un ecosistema senza storia, completamente indipendente, un nuovo piccolo paese modello fondato sul lavoro. Il simbolismo con cui venne edificato è una metafora quasi pedante della vita operaia. La via principale corre da nord a sud e separa la fabbrica dalle abitazioni: percorrendola troverete sulla destra l’opificio, i capannoni a shed e le ciminiere. Dall’altra parte, in ritagli ordinati e gerarchici, si incontrano prima i condomìni plurifamiliari più semplici, poi le villette bifamiliari via via più spaziose, e ancora più avanti, lontane dallo stabilimento, le eleganti dimore in stile liberty dei dirigenti. 

Le abitazioni del prete e del medico vegliavano sul villaggio arroccate poco più in alto. La casa patronale della famiglia Crespi, separata dal resto del paese, è un castello in mattoni in cotto e pietra bianca che ricorda il Castello Cova disegnato da Coppedè a Milano. E poi ci sono i servizi, con un edificio per ogni cosa: un ospedale, un dopolavoro, un teatro, una chiesa, una mensa, un ufficio postale, una scuola, un complesso sportivo.

Continuate ancora a camminare senza deviazioni e la via principale che separava la vita civile da quella lavorativa diventa dopo poco un viale di cipressi che termina al cimitero. Anche qui lo schema gerarchico è piuttosto facile da codificare: un grande sacrario in arenaria variamente decorato ospita il mausoleo della famiglia Crespi che svetta sulle semplici tombe degli operai e dei loro figli, piccole croci geometricamente ordinate in una sorta di cimitero militare.

Il villaggio di Crespi – immerso nel verde, con i suoi spazi ricreativi, le ville, i servizi – oggi, dismessa la fabbrica, è diventato patrimonio dell’UNESCO, vestigia di un esperimento di imprenditoria «socialmente responsabile», capitalismo «buono», paternalistico, sedativo, soffocante eppure in una certa misura illuminato. L’ultima erede della famiglia, Giulia Crespi, meriterebbe un articolo a parte: fondatrice e presidente onoraria del FAI – Fondo Ambiente Italiano, negli anni Sessanta divenne responsabile economico ed editoriale del Corriere della Sera, all’epoca di proprietà di famiglia, e al quotidiano impose una svolta «a sinistra», si fece conoscere come «zarina» e allontanò Montanelli che la definì «dispotica guatemalteca».

Dal punto di vista economico l’esperimento dei Crespi non durò molto: dopo il primo periodo di splendore, già dagli anni Trenta iniziò una lenta crisi, anche se la fabbrica vivacchiò ancora a lungo tra cessioni e liquidazioni. Da una decina di anni è chiusa, mentre il villaggio è ancora abitato dalle famiglie dei nipoti e discendenti dei lavoratori dell’azienda tessile. Per il resto poche cose sembrano cambiate. Crespi d’Adda sembra una capsula del tempo, un luogo incantato e dimenticato nella sua culla in mezzo al verde.

Nei primi anni Novanta il gruppo delle cosiddette «Bestie di Satana» danneggiò fioriere e immagini della Madonna del cimitero. Strafatti, provarono a entrare nel mausoleo ma non riuscirono a forzare il cancello. Più o meno da allora, a ogni Halloween il sacrario è preso d’assalto dai visitatori. Da qualche anno è sorvegliato dalla polizia locale. «In genere sono giovani milanesi in maschera che vogliono farsi fotografare nel cimitero. Per fortuna non ci sono più state nemmeno messe nere e vandalismi», scrive nella cronaca di Bergamo il Corriere della Sera.


Maremma amara
Le storie dei villaggi operai italiani sono state anche drammatiche. La mattina del 4 maggio 1954 nella miniera di lignite di Ribolla, tra le colline metallifere della Maremma, ci fu uno scoppio di grisou, un combustibile inodore e incolore, miscuglio composto soprattutto da metano – e poi azoto, anidride carbonica e altri gas – un ectoplasma che infesta le cave di lignite ma che rimane inoffensivo almeno fintanto che esiste un circuito di areazione adeguato, finché ci sono le giuste vie di flusso e riflusso dell’aria. 

È un’equazione delicata: quando il grisou si combina con l’aria in porzioni tra il 6 e il 16 per cento dà luogo a una miscela tossica, infiammabile, altamente esplosiva. Ed esplode, il 4 maggio, tra le 8:35 e le 8:45, perché nella sezione sud della miniera, chiamata «Camorra», la ventilazione è diventata insufficiente dopo che alcuni restauri dei pozzi, in quei giorni, hanno apportato delle modifiche alle macchine per l’areazione. Senza testare il nuovo sistema, i minatori sono stati fatti tornare al lavoro, come niente fosse. La detonazione si propaga alle altre gallerie, raggiungendo decine di operai, alcuni rimangono schiacciati nei cunicoli che vengono giù. Di morti se ne conteranno 43.

Della tragedia di Ribolla non sapevo molto prima che minimum fax ristampasse, quest’estate, I minatori della Maremma di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola, pubblicato per la prima volta nel 1956. Del libro, invece, avevo sentito parlare come di un classico della letteratura industriale, e del mito che vi si era costruito attorno ricordavo qualche storia: a partire ovviamente da come in quegli anni Bianciardi fosse un giovane intellettuale di provincia che ancora acerbo cresceva però con il mito della classe operaia, la speranza del lavoro culturale a servizio della classe operaia. In più ricordavo racconti dei suoi viaggi nei paesi delle miniere maremmane durante i quali avrebbe portato ai minatori romanzi da leggere, mentre Cassola, suo grande amico, legato anche lui al territorio grossetano, scrittore già affermato, con la stessa tensione etica di Bianciardi scriveva e studiava, però, da casa, dall’ufficio, buttando giù appunti nelle stanze di archivi ed emeroteche.

I primi affioramenti di carbone tra le colline della zona di Ribolla risalgono al 1835. Di lì a poco viene scavato il primo pozzo. A fine secolo nasce il primo nucleo abitativo. È una storia per certi versi simile a quella di Crespi D’Adda. Ribolla nacque come villaggio minerario per volontà della Montecatini (storica azienda chimica, poi fusa alla Edison sotto il nome Montedison, negli ultimi anni tornata a essere di nuovo solamente Edison). Al contrario di Crespi, però, Ribolla e Niccioleta e Baccinello e gli altri villaggi raccontati nei Minatori della Maremma sono luoghi alienanti, non c’è «la piazza, la fonte, la chiesa», scrivono Bianciardi e Cassola, almeno non nel senso della «chiesa vecchia, quella dove tutti sono stati battezzati e hanno preso moglie». Non ci sono botteghe, spesso non c’è neanche un nome per gli abitanti: quelli di Niccioleta, che nel ’44 hanno anche subito una strage nazi-fascista (83 operai fucilati), sono per tutti soltanto «quelli che stanno al villaggio». Alla Montecatini è sempre piaciuto così: è una grossa proprietaria terriera, ha sempre cercato di far tutto suo, e le abitazioni che costruisce per i suoi dipendenti sono asettiche, grigie, impermeabili al muschio della vita come lo sa essere solo una proprietà aziendale, sui muri «non un manifesto, di nessun genere, né politico né pubblicitario». 

I minatori della Maremma non è l’inchiesta giornalistica che ci si potrebbe aspettare oggi da due scrittori, è un’opera fredda, politica, una lunga e minuziosa indagine storica e sociologica, una dispensa di fatti, date e dati, più simile alle Esperienze pastorali di Don Milani o forse addirittura alla Situazione della classe operaia di Engels che alle storie dei vinti di Levi, Vittorini o Ottieri e Volponi. Bianciardi e Cassola ricostruiscono le vicende delle miniere e dei territori maremmani, partendo dagli etruschi fino agli anni Cinquanta, e trattengono quasi sempre il gusto della narrazione, lo fanno brillare solo in qualche capitolo, nelle immagini veloci di qualche paragrafo. A proposito dell’arte rabdomantica che permette di scoprire i giacimenti, scrivono:

«A volte il ricercatore fa a meno dei sopralluoghi e giura sull’esistenza di un giacimento in base all’interpretazione di un passo latino, di un nome, di una testimonianza antica. In questo caso la sua fantasia è sollecitata soltanto dalla toponomastica e dalla letteratura. Spera di scoprire un giacimento con lo stesso criterio con cui scoprirebbe una necropoli: e non a caso questi ricercatori sono stati anche etruscologi, invariabilmente. Del resto, non si chiama arte quella mineraria?»

Accanto a queste schegge di letteratura, il libro va avanti presentando tabelle, calcoli sui costi del carbone, descrizioni scientifiche della silicosi e delle altre malattie che affliggevano i minatori. È un racconto fieramente anti-retorico, scritto con lo scrupolo di chi redige un archivio storiografico: c’è la sequenza temporale di cento anni di lotte sindacali, contro le iniquità e le vessazioni di padroni smaniosi di aumentare la produzione. Come scriveva sull’Avvenire lo stesso Bianciardi, nel ‘53, quando già seguiva le vicende dei minatori mentre raccoglieva materiale per il libro:

«Negli ultimi dodici mesi si sono registrate 12 frane. Il nuovo direttore della miniera, che si chiama (non è uno scherzo) Padroni, e non è ingegnere minerario, ma elettrotecnico, ha appunto questo incarico: risparmiare fino alla smobilitazione».

Dentro I minatori della Maremma c’è  la ricostruzione cronachistica delle rivendicazioni operaie che in quei paesi si infrangevano allo stesso modo contro strutture politiche e familistiche e contro gli odi incrociati e le piccole vendette tra paesi vicini (siamo pur sempre in Toscana). C’è la lista dei libri presi in prestito dai minatori alla biblioteca del loro circolo culturale di Massa Marittima: «Il quartiere di Pratolini (80 prestiti), Cronache di poveri amanti di Pratolini (70 prestiti), Un eroe dei nostri tempi di Pratolini (60 prestiti), Le novelle di Maupassant (60), Le ragazze di Sanfrediano di Pratolini (50)».

L’esplosione di Ribolla arriva a pagina 179, la strage chiude un lavoro di ricerca lungo anni. Le conclusioni di Bianciardi e Cassola sulle responsabilità per quelle morti sono concentrate in poche battute, essenziali e asciutte, le stesse che altri si sarebbero ritrovati a scrivere per le morti del Vajont, di Chernobyl, di Bhopal.

«La sciagura di Ribolla non fu dovuta a una “tragica fatalità”, ma alla consapevole inadempienza di precise norme. (…) Non è stata la fatalità, ripetiamo; la sciagura è successa perché non si teneva in sufficiente e doverosa considerazione la vita dei minatori».