Crash Bandicoot, o delle occasioni mancate

Perché un classico PlayStation anni Novanta può raccontare la storia e (tristemente) anche il futuro del videogioco in Occidente

Sono trascorsi un paio d’anni dall’N. Sane Trilogy e manca qualche mese all’uscita del remaster di Crash Team Racing. Ormai è imperativo per chiunque abbia giocato a qualsiasi videogioco, sia pure un DDR al bowling del centro commerciale, interrogarsi su cosa abbia rappresentato Crash e su come la Activision Blizzard – gigante dei publisher, primo assoluto in fatturato se si escludono le varie Nintendo, Microsoft e Sony – lo stia trattando. Perché Crash non è solo un gioco dove salti e spacchi la roba facendo le giravolte. Crash racconta la storia e (tristemente) anche il futuro del Videogioco in Occidente, ora che il medium è maturo e non necessita di parallelismi pseudo-nobilitanti.

Con l’annuncio dell’N. Sane Trilogy – remaster della trilogia originale, le opinioni dei giocatori si sono spaccate. Da una parte gli imprecisati e imprecisabili 90s kids, nostalgici dei lecca lecca con le Spice Girls, che hanno pianto di gioia al teaser («È la nostra infanzia!»); dall’altra la Generazione X coi conati: «Perché un remaster di un gioco mediocre di 20 anni fa? È uscito Mario Odyssey: Pupazzi!».

Ovviamente, hanno torto entrambi.

Crash Bandicoot è un titolo dal potenziale enorme, ma scomparso già all’uscita della PS2 a causa dell’onnipresente fame di innovazione nell’industria videoludica; ucciso dagli action game prima, e solo a posteriori dai vari Super Mario 3D. È un gioco che tocca l’apice del game design al terzo capitolo, il meno compreso della saga. Crash è un’ode alla velocità, al perfezionismo tecnico sul pad – coi muscoli dei pollici che inconsciamente memorizzano e sviluppano un miglioramento esponenziale in tempismo e precisione, tra una morte brutalmente comica e l’altra, a graficizzare il movente autolesionista da delirio monomaniacale del giocatore. Muscle memory e strategie di percorso come core mechanics. Crash è lo speedrunning per le masse. Ora in 3 Dimensioni™. E se queste appaiono bestemmie contro Miyamoto Santissimo, bisogna partire con un po’ di amabile revisionismo storico.


Siamo a metà anni Novanta. Sugli scaffali i giochi in posizione tattica, altezza uomo, sono i platformer. Le console casalinghe di nuova generazione hanno il potenziale inesplorato ed eccitante dello sviluppo in 3D, e per alcuni generi (il racing ad esempio) il passaggio è assolutamente naturale: si tratta solo di riproporre su schermo qualcosa che esiste, come le corse di macchine. Per i platformer invece non si tratta di una semplice traslazione; occorre immaginare da capo un genere videoludico. Significa inventare da zero delle dinamiche che abbiano un senso, preso un pupazzo capace di saltare e inserito in un ambiente a 3 dimensioni. Significa dover reinventare gli assiomi dell’esistenza di un universo parallelo e virtuale. Uno sforzo immaginifico che definisce l’essenza della parola Creatività.

In quei giorni la Nintendo stava lavorando su Mario 64. Gioco di cui si sapeva pochissimo, ma bastavano i nomi degli sviluppatori per far sudare freddo la concorrenza. Sony Playstation invece era una console nuova con un’identità ancora da costruire, e aveva assoluto bisogno di una mascotte in grado di competere con Mario, a livello di gaming quanto di immaginario. A sua volta, la Naughty Dog – una compagnia indipendente e semisconosciuta fondata da Andy Gavin e Jason Rubin, mossa da una passione genuina per i platform games duri e puri – coglie l’occasione e firma il contratto con Sony e Universal per un progetto già in corso d’opera con nome in codice «Sonic’s ass» – perché, pensano loro, se avessi giocato a Sonic invece che di profilo girando l’asse di 90 gradi, gli avresti guardato costantemente il culo.

C’è dell’autoironia kamikaze nel citare per il proprio progetto Sonic, un vecchio gioco platformer 2D di casa Sega, primo vero tentativo storico di competizione con Mario nella categoria di Miglior Mascotte. Competizione – se parliamo di vendite – sempre e comunque vinta a mani basse dalla Nintendo, nonostante i numerosissimi capitoli di Sonic. Gioco che però metteva in mostra elementi fortemente legati a velocità e riflessi, che saranno poi rielaborati dalla Naughty Dog.

Fondamentale è il character design: Andy e Jason – in opposizione alla concorrenza che infesta il Mushroom Kingdom in cui si muove Mario di amichevoli rassicurazioni, personaggi innocui e kawaii che quando vengono «uccisi» non muoiono ma diventano nuvolette – vogliono imporsi trasversalmente con un’estetica di tutt’altro retaggio: quello ultra-americano, fatto della stessa cattiveria slapstick dei primi Looney Tunes, un omaggio così dichiarato da sfiorare il plagio. Volevano un personaggio più sfacciato di Sonic, ma anche cretino e violento. Il Diavolo della Tasmania sarebbe stato l’animale perfetto, ma c’erano certi problemi di copyright. La leggerezza infantile con cui si approcciarono alla soluzione ha del surreale: comprarono un libro chiamato I Mammiferi della Tasmania e pescarono da lì un mezzo topo completamente a caso: il Bandicoot. Era perfetto. Nessuno ne conosceva l’esistenza o le fattezze. Non ci sarebbero state domande sulla fedeltà di design.

Con la sua damsel in distress, poi, sfondarono ogni barriera del politicamente corretto. L’idea originaria del trofeo-donna-oggetto di Crash era di un sessismo senza maschere: una sex bomb ispirata a Jessica Rabbit, «ma senza la personalità». Un concept che farà incazzare anche l’addetta al marketing della Universal, tanto da costringere lo studio a ridisegnare Tawna togliendo forme e aggiungendo vestiti – lasciarono però immutata la sequenza iniziale, con quell’hint di perversione S&M.

Il tutto viene ambientato in uno scenario vagamente simile alla Polinesia nel quale è impossibile non percepire un certo razzismo, tanto nel design quanto nei comportamenti dei nemici umani – stereotipi invecchiati male di tribù selvagge non meglio specificate del sudest asiatico. Il boss finale, il villain, era uno «scienziato pazzo vestito come un nazista preso dai Jetsons». Della colonna sonora, in un rush finale col gioco già in fase di completamento, si occuperà più o meno per caso la Mutato Muzika fondata da Mark Mothersbaugh, già membro dei Devo. L’alchimia tra tribalismo ritmico regressivo dall’approccio punk e setting/tono del gioco è perfetta. Il risultato fu quel cocktail bestiale di scorrettezza e immaturità che determinò da subito l’identità solida di Crash Bandicoot – una cosa mai vista nel mondo dei platformer, da sempre destinati ai bambini.

Crash Bandicoot in azione

Per quanto interessante come esperimento, questo genere di approccio al graphic design si rivelerà il primo enorme problema di Crash.

Il problema non fu il razzismo. Il problema non fu il sessismo. Il problema non fu la violenza. Il problema fu il conflitto disforico tra le identità di Crash e quella dell’Universo Playstation nella sua totalità. Se Mario rappresenta in maniera perfetta tutto l’immaginario Nintendo, spensierato e di vocazione family-friendly, la Sony riuscì a distruggere il primato del colosso rivale muovendosi più verso il mercato tardoadolescenziale, con titoli come Wipeout, Resident Evil, Oddworld, FFVII, Metal Gear Solid ecc. ecc. – tutti ambientati in universi scuri, post-industriali, spesso piacevolmente distopici. Una console tanto postmoderna nelle intenzioni non poteva che finire col trovare i propri veri simboli evocativi e universalmente riconoscibili non in una qualche mascotte, ma nel logo, nella silhouette del pad e nei criptici X, O, triangolo e quadrato sbattuti in faccia ad ogni ragazzino con la TV accesa, traumatizzato e affascinato da quei simboli mistici di appartenenza a una setta occulta, ultradimensionale. Un rip-off di Taz il Diavolo della Tasmania non sarebbe mai potuto diventare il simbolo di un universo del genere.

Sullo sviluppo vero e proprio, Andy e Jason non dimostrarono meno umiltà. Scelsero la Playstation perché la reputavano «sexy», ma la potenza di calcolo della console, per quanto elevata, non gli era sufficiente. I limiti dettati dal contratto con la Sony erano per loro una gabbia opprimente, e non potevano che uscirne con l’ultima delle scorrettezze – questa volta legale. La maestosa foresta in 3D di Crash è il risultato di un hacking sfrontato dell’hardware e di un’ignoranza arrogante di fronte alle restrizioni della library Playstation. È un capolavoro estetico di pretenziosità e ottimizzazione, costruito poligono dopo poligono. Nessun altro degli addetti ai lavori sa, né capisce come ci siano riusciti. È impossibile.

Ma la grafica di Crash Bandicoot non era finalizzata al semplice impatto visivo. Tutto, dalla proporzione della testa e degli occhi, al colore, ai guanti neri del personaggio – e stiamo parlando solo del personaggio – è funzionale all’esperienza di gioco. L’idea di base è: se vogliamo un buon CAG (Character Platform Action Game) il focus principale dev’essere sul «Character». Lo vogliono «Pixar-like», dal volto espressivo e capace di muovere interamente lo scheletro – vogliono pepe nel personaggio (oggi i balletti celebrativi di Crash a fine livello sono puro cringe; nel ‘96 erano l’equivalente dei Phatworld che sbroccano).

Se poi una tra le critiche più frequenti al gioco è che non sarebbe «vero 3D», inteso come «mondo aperto», ebbene: in fase di testing, in Alpha, lo era. Solo che Andy e Jason si accorsero che la profezia sul «Sonic’s Ass» si era autoavverata: sei la schiena di un pupazzo su un’isola aperta ed esplorabile, ma proprio per questo troppo dispersiva. I nemici/ostacoli sono noiosi (ci puoi girare attorno), le piattaforme su cui saltare sono sparpagliate, rendendo i percorsi poco chiari. Il risultato non è divertente. In quel CAG mancava la C.

Dopo varie sperimentazioni, si diedero una serie di regole: Crash avrebbe dovuto rivolgere lo sguardo al giocatore prima d’ogni livello, che avrebbe di volta in volta contenuto non mondi interamente esplorabili, ma corridoi. A volte si va in direzione opposta alla telecamera (magari in autoscroller sopra un cinghiale impazzito), altre volte ci si corre incontro (scappando da massi enormi plagiati da Indiana Jones), altre ancora si va in direzione di quello che oggi chiameremmo 2.5D, col personaggio di profilo che prosegue verso destra – modello platformer classico –, ma nessuna vera asse Z e una chiara visione di chi si sta giocando.

Con questi accorgimenti il gioco prese a funzionare, ma era ancora troppo vuoto. E la Playstation stava per esplodere: ¾ delle risorse dell’hardware erano impegnate già soltanto dal personaggio. Colpo di genio di uno dei programmatori all’ultimo minuto: cos’è che succhia meno in termini poligonali? I cubi. Furono allora aggiunte le casse di legno. E di TNT. E di Nitro. E di metallo.
Giocare coi vari tipi di casse dava la possibilità di creare percorsi a ostacoli elaborati e inaggirabili (il corridoio è stretto). All’interno si doveva correre e saltare con precisione millimetrica per evitare fosse, trappole mortali, nemici, e si spaccavano le casse con giravolte distruttive, esattamente come quelle di Taz dei Loony Tunes. Non era obbligatorio farlo, ma rompendole tutte si vinceva una gemma – importante layer di sfida aggiuntivo per gli hardcore gamers, che non si accontentavano di arrivare vivi alla fine.

Si trattava comunque di qualcosa di unico. La Naughty Dog aveva, di fatto, appena inventato un nuovo genere di videogioco.

Il primo capitolo, va detto, è il meno riuscito. Il game design era ancora troppo grezzo, immaturo, oltre che eccessivamente punitivo con i meno esperti, a causa di tutta una serie di inaccortezze in fase di programmazione. Giocato oggi, i movimenti risultano ancora troppo legnosi; l’angolazione e la prospettiva danno problemi con i salti (famoso il livello del ponte); le hitbox sono poco chiare (si rischia di partire con l’intenzione di colpire un nemico con una giravolta e di essere invece uccisi per motivi assolutamente incomprensibili); la curva di difficoltà non accompagna il giocatore per gradi; ma soprattutto, più in generale, la struttura dei livelli è disegnata con poco ingegno, sembra che ogni ostacolo o nemico sia stato inserito per riempire un vuoto d’azione, non come escamotage ludico. Ma si trattava comunque di qualcosa di unico. La Naughty Dog aveva, di fatto, appena inventato un nuovo genere di videogioco.

Nel 1996, all’E3, arrivò finalmente il confronto con Mario 64, e tornò la paura. La fila agli stand Nintendo era enorme. Il nuovo Mario riusciva davvero a innovare, e senza compromessi. Era la transizione verso un vero 3D, free roaming, con soluzioni e percorsi multipli; giochi sulla verticalità assolutamente inediti che avrebbero dettato poi gli standard del futuro, dagli Adventure Game agli Action puri, fino agli Shooter e a Red Dead Redemption 2. Niente di tutto questo sarebbe esistito senza quel capolavoro artistico di immaginazione inumana alle spalle. «Miyamoto è un genio assoluto». Celebrazioni perpetuate da vent’anni di articoli, interviste, approfondimenti video, ecc.

Ma la strada presa da Miyamoto è quella che Andy e Jason avevano rifiutato categoricamente, nella loro totale libertà creativa, al momento dell’Alpha Testing con Crash. Non a caso fu molto diversa l’opinione di Andy dopo averlo giocato in anteprima: «È orrendo». Gli algoritmi per la telecamera sono sgraziati, le collisioni uno schifo, i livelli un ammasso di poligoni enormi a tinta unita oggettivamente brutti da guardare già nel 1996. Ci si muove male, l’open word non ha senso quando l’obiettivo e il percorso sono già delineati a inizio stage, il gioco fa dire WOW, ma non diverte. Se non ci fosse stato il loghetto Nintendo sulla scatola non avrebbe mai interessato nessuno: era la morte del platforming.

Entrambe le interpretazioni sono corrette, non si escludono. È vero che la Nintendo stava puntando verso una direzione più radicale: se il 3D è una montagna da scalare, Mario vuole vedere cosa c’è dietro, esplorare il nuovo ambiente e sfidarne i pericoli. La Naughty Dog, invece, si era fermata in cima: c’era il paesaggio migliore. Crash non ha aspirazioni ulteriori, vuole perfezionare un modello già esistente, e anche se rimane incastrato tra due dimensioni e mezzo, lo fa di proposito, perché gli è funzionale.

Il secondo capitolo di Crash Bandicoot è la bella copia del primo. Il game design è perfetto, viene ad esempio implementata la Dynamic Difficulty Adjustment, che consente di superare il problema della difficoltà insensata del primo capitolo – sei lento? I massi rallentano al tuo ritmo. Muori spesso? I checkpoint saranno più numerosi. E così via. Ma di tutto questo, il giocatore non ha modo di accorgersi. Le ambientazioni variano spesso, così come il feeling di gioco. Viene introdotta la scivolata, che in combo col salto permette un movimento fluido, naturale. Si continuano sempre a percorrere corridoi, questa volta però agilmente. Il senso di ricompensa prevale su quello di sfida. Il level design è ben strutturato. Fa sentire bene. Il preferito, tutt’ora, di Andy e Jason.

Il terzo, Warped, è la Disneyland della generazione cresciuta a schiaffi e South Park. Oltre alla scivolata si aggiungono il doppio salto, la ruota che fa planare, la corsa, il bazooka (quest’ultimo leggerissimamente forzato), e adesso quelli bravi possono skippare intere fasi di uno stage con numeri da fenomeno che sembrano exploit. Le modalità variano tra livelli subacquei, corse in moto, aeroplano, moto d’acqua, a cavallo di un tigrotto sulla muraglia cinese, o con dinosauri da montare à la Yoshi. Il filo conduttore del terzo capitolo sono i viaggi temporali, e i temi vanno dall’antico Egitto, al medievale, al futuro immaginifico. La filosofia di gioco, che secondo certi si è annacquata con fasi non-platformer, è al contrario rafforzata, attraverso l’introduzione di un secondo layer di difficoltà, oltre alle consuete gemme: le reliquie. Per ottenerle occorre completare gli stage secondo tempi prestabiliti.


Elaborare una strategia di percorso in un corridoio dove si utilizzano i tasti per saltare e roteare evitando ostacoli, rispetto a guidare una moto d’acqua, anche qui elaborando un percorso ottimale ed evitando ostacoli, è la stessa identica cosa. Le skill mentali e fisiche – più precisamente, del pollice – richieste, sono esattamente le stesse: quelle dello speedrunner. Ciò che normalmente è un hobby estremo (si guardi ad esempio allo studio esageratamente contorto e scrupoloso dei world record del molto più antico Super Mario Bros) si rivela invece il cuore tenero di WarpedNon è un platformer in 3D, non è importante che lo sia: è Crash Bandicoot, e lo è ancora più di prima. È una formula ottimizzata ai limiti del possibile, un genere videoludico a sé stante, ancora inimitato, ma non del per questo inimitabile. Il vero confronto con Mario è qui: sono due titoli che molto banalmente non c’entrano. Se l’approccio della Nintendo al 3D è stato quello colonialista, di chi esplora territorio nuovo e lo sfrutta in nome di una progressione esponenziale al futuro, Crash è un gioco fondamentalmente autarchico.

Ma l’autarchia non funziona e il brand muore con l’arrivo della PS2. La Naughy Dog vende l’IP e cambia genere con Jak, un open world con oggetti collezionabili, esattamente come ogni Mario 3D. E con Jak 2 si va verso l’open/action puro, una sorta di GTA coi pupazzetti. Innegabile la qualità del titolo, ma perché uccidere il genere Crash-like? Lo dicono Andy e Jason in un’intervista all’E3 2017: Jak era più trendy, almeno per i gusti dell’epoca. Interrompere la produzione di biciclette perché siamo nel 2000 e va di moda lo skate.


In vent’anni a nessuno è venuto neanche in mente di produrre un Crash-like, e alla fine la Activision (che attualmente ne detiene i diritti) ne ha annunciato e pubblicato il remake, completamente identico, grafica a parte, e ne ha venduto più di 10 milioni di copie. Chi l’ha giocato sa: non ha una ruga, è bellissimo come ce lo ricordavamo.

Ci si sarebbe allora aspettati un quarto capitolo, un vero seguito, ché il segnale dell’utenza è stato forte. Ma no: è stato annunciato, invece, il remake di Crash Team Racing, che già nel ‘99 era un copy-paste di Mario Kart 64. Ironicamente, Andy e Jason dichiarano apertamente di aver sviluppato CTR con l’intento preciso di ammazzare Crash, di farlo odiare. Non ne potevano più. Tentativo fallito, evidentemente, se c’è chi ancora spera in un capitolo nuovo.

Non si tratta del brand o del personaggio, ma del modello di gioco che rappresenta. Ha senso smettere di migliorare una formula che funziona bene come Crash solo perché i mezzi tecnologici attuali permettono di fare qualcosa di più complesso? Si tratta di una dinamica che risponde alle stesse logiche del capitale, dell’accumulo e della crescita. Trova sfogo nel medium perché il videogame nasce grazie all’avanzamento industriale e cresce in virtù dello stesso. Il videogioco si modella sulle nuove tecnologie; ma ogni qual volta l’idea dell’artista/game designer gli si adatta, ne esce corrotta. Sarebbe più interessante mettere in pratica l’operazione inversa. Perché col cinema è ancora possibile l’utilizzo del bianco e nero o della pellicola, se questo è funzionale alle esigenze di fotografia, ma coi videogiochi un ragionamento simile appare vietato?

È una cultura talmente radicata in Occidente che ci si ritrova con gli sviluppatori indipendenti che finiscono col produrre videogiochi che vanno ad «omaggiare», plagiati dall’idea che la mancanza di risorse economiche e tecnologiche renda impossibile invece inventare o raffinare, e il market Steam finisce così infestato da giochi a 8 e 16 bit che dichiarano apertamente che sì, la tua infanzia era così, ed è finita.

Non sono solo gli indipendenti ad essere finiti in questa trappola. Anche la Square Enix, ad esempio, ha «omaggiato» il jrpg con Ocopath Traveler, un elogio funebre a un genere «del passato» pensato per gli occidentali. Dopo la proposta di Final Fantasy XV, che ha preso le distanze da tutti i predecessori, e della formula FF originale conserva solo i tagli di capelli improponibili. Il resto è stato sviluppato in nome dell’open world sempre più grande, il combat system in tempo reale, le radiant quest in ordine sparso. Non perché tutto questo sia meglio (fa schifo), ma soltanto perché la tecnologia attuale lo rende possibile, e quindi, di conseguenza, obbligatorio: si può, e quindi si deve.

O almeno questo è il ragionamento in Occidente – perché all’appello, sempre Square Enix, manca il nome più importante: Dragon Quest XI. IL Jrpg. Formula classica, solida, intoccabile, forse perfetta; affinata di capitolo in capitolo, a partire da fine anni Ottanta, che vende più del doppio del titolo che «omaggia», ma il 75% di quelle vendite le fa soltanto in Giappone. Quel Giappone che non comprende le nostre logiche da tossici di novità e ci bullizza a schiaffi morali. Con la Nintendo che sviluppa in parallelo la serie New Super Mario Bros (platformer 2D classico) e quella in dei Mario 3D con l’ultimo capitolo Mario Odyssey. Che non molla i Pokemon e ne semplifica le dinamiche, rendendoli anche più piacevoli alla vista perché a questo serve la tecnologia. Che esce col trailer di un remake di Zelda Link’s Awakening, notizia che preannuncia un ritorno agli Zelda-like, con Link che resta protagonista. O si potrebbe parlare dei picchiaduro, tipo Tekken o Street Fighter, di come insistano da decine d’anni, ormai, sul migliorare sempre le stesse, identiche, dinamiche di gioco.

Crash-evoluzione

Se il motivo di questa differenza culturale è legato a un certo tradizionalismo nipponico, se sia solo il frutto di una concatenazione casuale di effetti o invece qualcosa di più profondo non è dato sapere; ma in Oriente, a differenza che in Occidente, un approccio rilassato e riflessivo al videogioco appare ancora possibile. E sarebbe anche l’unico sensato, se l’intenzione è quella di nobilitare il medium facendo pesare artisticamente, nell’espressione «video-ludico», la seconda parola e non la prima. Perché i film interattivi come The Last of Us o Detroit Become Human sono, sì, molto belli, ma non possono rappresentare da soli e per intero la categoria «videogioco maturo», con tutto il resto che diventa giocattolo per bambini alti, intrattenimento becero, per cui diventa necessità automatica l’abuso di risorse tecnologiche e finanziarie. Perché l’effetto speciale intrattiene e vende tanto nel breve periodo, ma invecchia presto e male. Il game design è – o almeno dovrebbe essere – il fondamento di una forma d’arte che si sta perdendo a discapito di script sufficienti e tentativi di fotorealismo o mondi persistenti online con tante feature buttate dentro a caso. Il game designer – non il programmatore, non lo sceneggiatore, non il grafico – è un Dio Creatore, e da questa precisa figura deve ripartire il videogioco, o tutto morirà con Miyamoto Santissimo – non c’era bestemmia.

Quello che sappiamo è che se i videogiochi trovano spazio nelle nostre vite, esistono motivi più che concreti. Sarebbe facile prendere come esempio uno strategico/gestionale con la complessità di Dwarf Fortress ed elogiarlo per tutte le aree del cervello che tiene attive. Per paradosso, la semplicità di un approccio arcade modello Crash, che è tanto basato sulla memoria muscolare da poterlo completare bendati, rende al contrario complesso comprendere la voglia, l’esigenza di giocare. Ma non per questo l’esperienza di gioco è tossica. Anzi, è necessaria.

Il gaming diventa asfissiante quando è prodotto di quella vera speedrun che è il primato finanziario, perpetrata dai colossi come la stessa Activision che col desiderio umano giocano, abusandone, fino a rendere il videogioco una forma di puro escapismo mista a una versione ingigantita e legalizzata del gambling puro; con lootbox da acquistare tentando la fortuna di volta in volta, e la promessa di un equipaggiamento virtuale che renda artificialmente più forti di altri giocatori – un fenomeno che si ripropone esasperato nei mobile games.

Anche certi moderni single player come Skyrim, che hanno portato il free roaming all’esasperazione, non fanno altro che proporre il bisogno fittizio che riflette a sua volta un altro bisogno fittizio: quello, appunto, della carriera/potere (level up) e l’accumulo materiale (looting). Un adattamento della specie del tutto artificiale e strettamente legato alla cultura economica dominante. È quindi necessario pensare a un’auspicabile regressione nel processo creativo del videogame, ora che un corso di programmazione in Unity è di fatto gratuito e l’autogestione dei piccoli team non è più un sogno. Occorre però un cambio di cultura. L’avanzamento tecnologico, quando e se (non necessariamente) presente, deve per forza di cose viaggiare sullo stesso binario della necessità creativa. Non può esserne il fondamento; non è questo un modello sostenibile né salutare.

Non c’è alcun dubbio: non saranno compagnie come la Activision o la EA a cambiare le cose, ma forse un giorno a qualcuno, completamente indipendente dai publisher – due giovani come Andy e Jason, magari, due con la stessa ambizione schizzata – verrà in mente il figlio illegittimo di Crash, con un nome diverso che lo richiama e lo sfotte, perché così avrebbero fatto Andy e Jason a 23 anni.

Sarà allora il segnale che l’essere umano non ha fallito, ritrovando dignità anche nel gioco; lontano dalla tossicità capitalizzata dalle grandi Software House e si sarà riavvicinato a se stesso, all’ingegno della propria specie, al desiderio di scoperta, alla ricerca della bellezza.