Cosmotica

War games alla periferia dell’universo

La tradizione filosofica, il pensiero religioso e gli studi scientifici degli ultimi secoli ci lasciano in un universo per quanto aperto, immenso, illimitato, proliferante, in-finito, pur sempre insufficiente e angusto. Il motivo di queste insufficienza e angustia va attentamente indagato. La filosofia ha compiuto un immenso sforzo per fornire risposte diverse ardite, contraddittorie, complicate, alla domanda di senso – dove siamo – propedeutica all’altra – chi siamo –, ineludibili per poter vivere. Se non ci domandiamo dove siamo e chi siamo la nostra vita scorre trascinata da un flusso d’insensatezza cosmica, risulta essere impasto scoppiato, sfarinata forma già prima di diventare polvere. Per dare senso alla sua vita, la filosofia ha proiettato l’umano nelle sfere cosmiche a metabolizzare il caos e a trasformarlo in ordine, in logos. Tanto più l’universo risultava ordinato quanto più il logos lo era. L’ordine del logos fondava e reggeva l’ordine del mondo.

Il pensiero religioso ha fatto un passo avanti e due indietro. Il passo avanti sta nell’antropocentrismo – Dio ha creato l’uomo e lo ha posto al centro dell’universo per dominare per conto suo tutto ciò che il massimo fattore ha creato –, i passi indietro stanno nel logos. Le verità rivelate delle religioni si impantanano sulle verità del logos. Le verità del credente si scoprono via via false agli occhi del pensante. Nel tentativo, sempre fallace, di conciliare le verità del credo con le evidenze del logos si è andata consolidando ogni possibilità di discernere il vero dal falso. Se il falso è piantato al centro della verità, in ogni aspetto della realtà non può che regnare la confusione.

Nel suo prodursi indomito e glorioso, la scienza costruisce un mondo nuovo che rischia di distruggere tutti i mondi possibili. Si sostituisce alla filosofia e alla religione, soppianta la prima e spianta la seconda. Emancipa l’oggetto dal soggetto, la realtà dal logos, l’universo dalla Terra. Strappa la verità a Prometeo e la dona al fuoco. Fonda un mondo oggettivo che è il mondo dell’oggetto in cui il soggetto dipende logicamente e realmente. L’umano non è più padrone della cosa, né è cosa tra le cose, ma diventa semplicemente un prodotto cosale, una radiazione riflessa dell’oggetto. In questa fantastica rivoluzione, l’umano costruisce e percepisce tutta la sua immane potenza e la sua desolante piccineria. L’umano diventa piccino, troppo piccino e nel contempo potente, troppo potente. Con questo ardito passaggio diveniamo incommensurabilmente più piccoli, ma infinitamente più potenti. Il potere ha sempre un alto costo. Qual è il costo dell’aumentata potenza umana?

Nell’universo che edifica, la scienza espunge la verità dalla vita. La verità appartiene alle cose. La scienza è Religione priva di divinità. L’uomo è più potente di Dio, ma è privo di divinità.

Se il falso è piantato al centro della verità, in ogni aspetto della realtà non può che regnare la confusione.

La scienza svelle l’umano dal paradiso. Lo condanna alla periferia dell’universo.

In questo moto rettilineo dalla filosofia alla religione alla scienza l’umano è andato via via riducendosi a fenomeno insensato, da ordinatore del mondo, a padrone per conto terzi, a punto perso di materia nell’universo in espansione. L’umano – e con esso, a seguire, il senso dell’umano, la sua sensibilità – si riduce all’infinitesimo in rapporto diretto all’espansione dell’universo. Mentre l’universo si espande, l’umano – piccolo, troppo più piccolo – si dirige insensatamente verso il suo buco nero, quel buco nero che lui stesso ha creato.

In questa immane trasformazione c’è tutta la crisi dell’universo antropologico, condotto sul bordo della fine da se stesso, dalle sue perigliose e maravigliose avventure. Proviamo a meditare ancora per un attimo sui tre stadi della storia dell’umano. Nel primo stadio, quello filosofico, l’uomo è ordinatore del mondo a mezzo di logos. Nel secondo stadio, quello religioso, l’uomo governa il mondo in vece di Dio. L’umano diviene manifestazione di Dio, abbandona la propria centralità ontologica e mantiene quella fenomenologica, che gli è donata da Dio. Si trova al centro dell’universo solo perché Dio lo ha posto lì e solo fintanto che Dio lo vuole lì. Solo grazie a questa volontaria cessione pro tempore di Dio, gli è concesso di dominare il mondo. Nel terzo stadio, quello scientifico, l’umano non ordina più il mondo, né lo governa. La sua funzione è quella di osservare l’universo. L’oggettività dell’universo si coglie non per verità rivelata, né per logos, ma grazie all’osservazione.

La scienza sottrae la verità al soggetto e la trasferisce sulle cose. L’oggettività delle cose si coglie per osservazione.

La potenza dell’umano dipende dalla sua capacità di osservazione. Maggiore è la sua potenza d’osservazione, più grande diviene la sua potenza. La scienza esalta l’umano a una potenza superiore a quella attribuita a Dio, ma lo rende succube delle cose, radiazione oggettuale di esse.

In questo secolo – nonostante la scienza non sia più quella scienza dell’osservazione che emancipava completamente l’oggetto dal soggetto, la realtà esteriore da quella interiore, la cosalità dall’umanità – i dispositivi di osservazione si sono raffinati così tanto da rendere il fenomeno umano potenzialmente un puro riflesso dei medesimi dispositivi. Ridotti a pura osservazione, a puro riflesso di qualcosa che ci è per sempre alieno, abbiamo perso la nostra purezza, la purezza dovuta all’essere cosa senziente, oggetto e soggetto, materia e spirito dell’universo. Senza questa purezza, l’umano – e ogni altro vivente – affonda nelle sabbie mobili di qualsiasi ragione. Senza questa purezza, l’innocenza è impossibile. Siamo ridotti a macchia. In un mondo in cui tutto si può, ci trasciniamo impotenti in mezzo ad acque torbide, melmose in cui ogni riflesso di luce è perso per sempre nelle sabbie mobili dell’insensatezza.

È arrivato il tempo in cui filosofia, religione, e scienza possono giocare un ruolo cooperativo, possono guardarsi con reverenza e con fratellanza senza far scatenare l’odio che alligna in ciascuno di loro.

La pasta di cui è fatta ogni cosa affratella la materia al vivente, la materia che vive e la vita dei corpi.

Il salto quantico per poter produrre un sapere simile ci è stato elargito nell’ultimo stadio dalla scienza: la relatività e, a seguire, la meccanica quantistica hanno elaborato idee di mondo che contrastano apertamente con le idee pregresse della scienza. La relatività ha distrutto una volta per tutte le pretese di indipendenza dello spazio e del tempo. La meccanica quantistica ha demolito ogni pretesa di indipendenza tra oggetto e soggetto. Per effetto della doppia rivoluzione copernicana, nessuno può più pensare che spazio e tempo, oggetto e soggetto non siano intimamente, eternamente interdipendenti. La relatività e la meccanica quantistica, inoltre, hanno contribuito a compiere – si spera una volta per tutte – una terza rivoluzione copernicana: quella di distruggere l’idea dell’esistenza del vuoto e con essa di scoprire un’altra delle maraviglie dell’universo: l’intenso, intimo, eterno, indiscernibile legame tra macrocosmo e microcosmo, tra il nulla e il tutto, tra atomo e stelle. La pasta di cui è fatta ogni cosa affratella la materia al vivente, la materia che vive e la vita dei corpi.

Con questo immenso salto quantico del pensiero condotto da parte della comunità scientifica del XX secolo, pensare è impossibile con le categorie religiose, filosofiche e scientifiche precedenti, ma gli uomini in certe impossibilità si sentono a loro agio. Hanno compiuto una rivoluzione alchemica contraria. Hanno preso l’oro purissimo delle rivoluzioni copernicane della relatività e della meccanica quantistica e lo hanno ridotto a letame.

Dopo le tre rivoluzioni copernicane del secolo scorso, ne rimane una ancora parzialmente incompiuta, pur se implicitamente inscritta nei paradigmi della relatività e della meccanica quantistica.

La quarta rivoluzione copernicana permette di concepire una diversa gerarchia dello spazio e dell’universo. Ciò è possibile solo a partire da una mossa prospettica principiale che riorienti il modo umano di concepire il proprio rapporto con lo spazio, con il suo spazio, con lo spazio terrestre e con lo spazio cosmico.

Anche in questo caso si tratta di chiedere ai nostri occhi cosa vogliono vedere, dove devono guardare.

Finora ai nostri occhi abbiamo chiesto qual è la nostra posizione nello spazio dell’universo? Con questa domanda impossibile, priva costitutivamente e logicamente di risposte certe, li abbiamo sfiancati. Li abbiamo resi tutti miopi, presbiti, astigmatici, terrorizzati nel guardare qualcosa che è impossibile da vedere. Più che vedere lo spazio, hanno osservato noi con i loro difetti di sguardo. Con le antiche concezioni, ci vedevano collocati al centro, poi ci hanno respinto nelle periferie dell’universo, adesso ci osservano in uno spazio e in una gerarchia indeterminati. Il principio di indeterminatezza vale anche per la nostra collocazione spaziale. Se l’universo è una immensa fisarmonica che nel suo continuo respirare si espande e si contrae, dove è collocato l’uomo con il pianetino che lo ospita? Nessuno lo può dire perché nessuno lo può sapere.

L’umano è condannato a questa indeterminatezza fino a quando non si decide a cambiare la modalità dello sguardo. Chiedere agli occhi di guardare qual è la nostra posizione nel cosmo è ancora il punto di vista gerarchico di chi si pone come primo dell’universo e di chi desidera sentirsi al centro dell’universo. Di chi pensa che noi, gli umani, meritano di essere prima di lui, l’universo.

Tutte le conoscenze acquisite ci dicono che c’è sempre qualcosa di inconoscibile.

Chi siamo noi desiderosi di sapere se siamo al centro, alla periferia o in un punto a caso della geografia dell’universo? Per riuscire a rispondere a questa domanda dovremmo avere la presunzione di pensare che oggi o un giorno a venire avremo la completa mappatura dell’universo. Questo pensiero, che per un certo periodo è allignato nel delirio scientista, neanche la scienza lo contempla più. Nessuno mai avrà la mappatura completa dell’universo. Ne siamo certi. Siamo condannati per l’eternità al mistero. Questa condanna produce dolore e invece dovremmo viverla con entusiasmo.

La coscienza del carattere in parte misterioso della vita e dell’universo non è affatto una perdita, è una conquista. Una delle più importanti conquiste del pensiero umano. Avere coscienza del mistero. Del mistero, di quel mistero misto a maraviglia che ha coinvolto il pensiero filosofico e religioso e che adesso appartiene finalmente anche alla scienza.

Tutte le conoscenze acquisite ci dicono che c’è sempre qualcosa di inconoscibile. Ci sarà sempre qualcosa di inconoscibile nonostante tutte le conoscenze che acquisiremo in futuro. Finalmente sappiamo ciò che sapevamo da sempre. Sappiamo di non sapere. Tutto ciò che si può sapere è possibile conoscerlo solo perché c’è una parte della realtà dell’universo che rimane inconoscibile. Ciò, sia detto per ovvietà, non rende la conoscenza vana. Al contrario, la rende sublime. La conoscenza non è una partita a scacchi simile a quella giocata magnificamente nel film Il settimo sigillo prodotto dal genio di Ingmar Bergman. In quel film si gioca una partita difficile con la morte che viene vinta dall’arte. La bellezza, la poesia, la commedia, la gioia possono vincere la morte. Ciò succede nella finzione filmica. Ma nella vita, come nella conoscenza, non si può vincere la morte per sempre. Ciò che si può chiedere alla vita, dunque anche alla conoscenza dell’universo, è una patta. La patta tra chi sa di non sapere e il sapere assoluto che rimane misterico.

Solo dalla coscienza di questa patta da cercare con la vita, da questo mistero sublime della conoscenza, si può partire per cambiare l’ordine della domanda, per chiedere ai nostri occhi di guardare diversamente e altrove.

Se allontaniamo l’angoscia di sentirci periferia dell’universo, se abbandoniamo la paura di essere un punto a caso nel caos dell’universo e se accantoniamo la consolazione di doverci a tutti i costi pensare i dominatori dell’universo, la domanda che ci possiamo porre diviene più interessante. Lo diventa perché abbandoniamo quell’egoismo di specie, quella vanità di sentirsi i primi, i migliori, i privilegiati, gli eletti, tutte caratteristiche di chi nel bisogno di prevalere in verità si coglie in flagranza di inferiorità.

Chi si pensa superiore è un essere inferiore. Se fosse davvero superiore avrebbe il desiderio ardente di percepirsi uguale a ogni altro suo simile al di là delle specifiche differenze, al di là dei ruoli e della posizione sociale che occupa. Aspirare alla superiorità è tipico degli intimamente inferiorizzati.

Se abbandoniamo questi idoli dell’impotenza, possiamo guardare il mondo con occhi diversi e contemporaneamente guardare a noi stessi con occhi diversi. Anziché chiedersi in che punto dell’universo siamo collocati? Anziché domandarci noi in che posizione gerarchica ci troviamo rispetto all’universo?, la domanda diventa l’universo in che spazio è collocato dentro di noi?

Qual è lo spazio che l’universo ha per noi, gli umani. Si trova al centro di noi, si trova alla nostra periferia, è un punto a caso nell’universo umano che si espande e si contrae come una fisarmonica?

Il cambio di sguardo prospettico richiesto è totale. Ma è una sfida possibile e sublime. Chiediamo ai nostri occhi di vedere dove è l’universo per noi umani, in noi umani. Chiediamoglielo. Si sentiranno più tranquilli. Meno stressati. Si chiuderanno un attimo per riposare. Si chiuderanno a meditare, a guardare dove siamo poco inclini a porre lo sguardo. Dove vietiamo ai nostri occhi di guardare. Lì, dove gli occhi ci invocano da sempre a scrutare.

Basta un attimo. Se ci guardiamo dentro di noi, anche l’occhio meno acuto, anche l’occhio meno avvezzo alle preghiere della religione, al logos filosofico, alle predizioni della scienza, anche quell’occhio limitato non può non vedere che l’universo è al centro di noi.

L’universo è il nostro centro.

In espansione o in contrazione, finito o infinito, creato o increato, caotico o ordinato, l’universo è sempre al nostro centro. Senza la centralità dell’universo non esiste possibilità vivente.

Cambiare la modalità di sguardo, finirla con quella cupezza immonda di doversi pensare sempre centro di qualcosa, ci consente di ricollocarci con serenità nel cosmo. Se mettiamo l’universo al centro di noi, quell’universo che sappiamo non avere un centro, allora abbiamo trovato definitivamente la nostra collocazione nello spazio, la collocazione nostra e di qualsiasi altro vivente.

In un universo che non ha centro, riconoscere la centralità dell’universo per noi significa dedurre che ogni cosa, ogni vivente, dunque anche noi, si trova al centro dell’universo. L’universo non ha centro probabilmente per donarci questa sublime possibilità. Sapere che possiamo sentirci logicamente e realmente al centro dell’universo.

Se l’universo è al centro di noi, anche noi ci troviamo al centro dell’universo. Se sentiamo pulsare l’universo in noi come se fosse il nostro centro, allora pure noi ci possiamo sentire al centro dell’universo. 

Se l’universo è il nostro cuore, noi siamo il cuore dell’universo.

Se sentiamo il cuore dell’universo pulsare nel nostro cuore, possiamo portare a compimento una delle più mirabili constatazioni del pensiero umano. Kant, nato a Königsberg, oggi Kaliningrad – uno dei punti della geografia dove l’occhio della Storia cambia spesso sguardo – diceva: il cielo stellato sopra di noi, la legge morale dentro di noi. A quest’altezza della Storia e del pensiero, se vediamo l’universo come la nostra centralità, possiamo seguire Kant con una deduzione ulteriore. Il cielo morale sopra di noi, la legge stellata dentro di noi.

L’universo è in noi. Noi siamo universo.

Little boy e Fat Man

Una delle menti più fervide e più sensibili che l’umano abbia mai emesso si chiama Albert Einstein. Lo sentiamo così perché ha condotto la scienza oltre il positivismo, oltre il suo manifestarsi come ancella fedele dell’industria. Perché ha ridisegnato il mondo con il suo sguardo immenso. Ha visto l’invisibile e gli ha dato un nome. Inoltre, ha messo l’errore a fondamento della scienza. Ha costruito un cammino fertile nella relazione tra dati sensibili, induzione, predizione e deduzione. Ha permesso di spostare il vero da un assoluto etereo a una presenza certa e sensibile fino a prova d’errore. Ha pensato alla scienza donandole una filosofia. Ha riaffratellato la scienza e la filosofia dopo secoli di litigi di cortile. Lui stesso, con le sue geniali predizioni, come succede sempre quando la vita è coerenza e non rappresentazione, è divenuto come la verità scientifica. Vero fino a prova d’errore.

Una delle predizioni einsteiniane più citate e meno metabolizzate dalle società del ventesimo e del ventunesimo secolo è la seguente: Non conosco le armi della terza guerra mondiale, ma solo quelle della quarta: sassi e bastoni. 
Con questa straordinaria predizione, Einstein, pacifista convinto, metteva in guardia i suoi simili, ma commetteva un errore: quello di pensare che la terza guerra mondiale sarebbe stata condotta con le armi nucleari già sperimentate ai suoi tempi e scese in orrifica azione a Hiroshima e Nagasaki.

L’errore di Einstein produce ancora i suoi effetti.

La mattina del 6 agosto 1945 alle ore 8:15 l’aeronautica militare statunitense sgancia Little Boy su Hiroshima. Tre giorni dopo, il 9 agosto, un’altra bomba nucleare, Fat Man, si abbatte su Nagasaki.

Perché?

La Storia ancora adesso ci racconta che quelle due bombe atomiche hanno posto fine alla seconda guerra mondiale. Non solo, tutta la retorica politica successiva alla fine della seconda guerra mondiale ci racconta che le armi nucleari non solo hanno consentito di porre velocemente fine a quel conflitto, ma rendono impossibile la terza guerra mondiale perché se la si combattesse tutti gli antagonisti sarebbero annientati e la stessa vita umana sulla Terra rischierebbe di esalare l’ultimo respiro.

È vero?

Noi pensiamo di no.

La verità forse è un’altra. Una verità che si può percepire, ancora una volta, solo se cambiamo modalità di sguardo. Quel terribile attimo delle 8:15 del 6 agosto del 1945 non era l’ultimo atto della seconda guerra mondiale, ma il primo atto della terza. Lo si può intuire non solo dalla quantità di vittime e dagli effetti ancora in atto, ma anche dal linguaggio utilizzato per sganciare quelle fatidiche bombe. Esse hanno dei nomi, anzi dei nomignoli, dei tipici vezzeggiativi con cui affettuosamente si indicano le persone care. Little Boy e Fat Man. Che persone si nascondono dietro nomi come Little Boy e Fat Man. Sono nomi di persone che stanno vivendo una tragedia immane? Niente affatto. In quei nomi non si vede la tragedia. Non c’è nulla, da Sofocle ad Anna Frank, del linguaggio con cui qualunque conflitto sia stato mai raccontato. In quei nomi si intuisce un salto quantico tra le guerre precedenti e le guerre successive.

La nostra ipotesi è che la terza guerra mondiale sia iniziata quel terribile 6 agosto 1945 e che essa sia ancora in corso.

Little Boy e Fat Man potrebbero essere i nomi di personaggi disneyani. Di personaggi inventati per gioco. Di un gioco che effettivamente si diffonderà di lì a qualche decennio a dismisura: war games. E di film all’infinito sullo stesso tema, le guerre stellari, Star Wars

I giochi di guerra e i film di fantaguerra più diffusi attualmente simulano la guerra, ma quale guerra? La seconda? No, di certo. A simulare le prime due guerre mondiali bastava il Risiko. La terza guerra mondiale? No, ancora, visto che la terza guerra mondiale non può avvenire, altrimenti la Terra sarebbe persa. I giochi di guerra simulano la guerra che verrà, la quarta guerra mondiale, già annunciata dal primo atto della terza, Little Boy e Fat Man. Il primo atto della terza mondiale inizia con Little Boy e Fat Man, ma non può continuare con quei mezzi perché non c’è lo spazio adatto per una guerra simile. La Terra non basta per fare la guerra come si conduce un war game. Troppo limitata. Troppo controproducente. Lo spazio della quarta guerra mondiale è extraterrestre. La quarta guerra mondiale, quella per la quale la contemporaneità si sta allenando, non può che essere una guerra stellare, una Star War.

Se quella che viene è la quarta guerra mondiale, che fine ha fatto la terza guerra mondiale. Non è stata combattuta? La guerra ha saltato un giro? E se invece è avvenuta, quando è stata combattuta? Con quali armi. E quando sarebbe finita?

La nostra ipotesi è che la terza guerra mondiale sia iniziata quel terribile 6 agosto 1945 e che essa sia ancora in corso.

Dopo il primo atto della terza guerra mondiale, Little Boy e Fat Man, vista l’impossibilità di procedere con le bombe atomiche, in attesa e in preparazione febbrile di tempi migliori, la terza guerra mondiale si è data regole diverse. La prima regola si chiama deterrenza. Deterrenza significa che tra le potenze che detengono la bomba nucleare non può esserci scontro diretto e nucleare poiché porterebbe alla morte di tutti i contendenti e della stessa possibilità della continuazione della vita della specie sul pianeta Terra. Una tale verità, nella speranza di tutti i pacifisti, avrebbe potuto portare alla fine delle guerre. Invece no. Succede esattamente il contrario. Le guerre proliferano per procura. Gli stati possessori della bomba nucleare non si possono fare la guerra direttamente e quindi invece di combattere tra di loro devono essere abili a trovare qualcuno che combatta per loro da qualche parte che non sia il loro spazio. Seconda regola: le potenze che hanno la bomba nucleare non possono essere attaccate direttamente. Dunque, avviene che molti paesi per non correre questo rischio si dotano di armi nucleari. Dopo gli Usa e la Russia, la Francia, il Regno Unito, la Cina, l’India, il Pakistan, Israele, la Corea del Nord si dotano della bomba. Altri paesi come l’Iran intendono farlo perché sanno che con le bombe nucleari diverrebbero inattaccabili. Dal 6 agosto 1945 all’annuncio del presidente americano che istituisce la US Space Force si consumano una quantità infinita di guerre locali che sono episodi della terza guerra mondiale, la quale ha causato un’immane quantità di morti. Presto inizierà la quarta guerra mondiale e non avverrà, come aveva predetto Einstein, con i bastoni e con i sassi, ma con le bombe nucleari di ultima generazione e non avrà come teatro di combattimento il pianeta Terra. La quarta guerra mondiale avverrà nello spazio extraterrestre.

La quarta guerra mondiale va a iniziare

I nostri occhi sono troppo puntati sull’orto del vicino e sul condominio di casa. I muri perimetrano il nostro sguardo, l’inquinamento visivo ci limita il guardo delle stelle. Preoccupati dei mille conflitti intestinali che capitano nello spazio presbite, non ci occupiamo delle guerre stellari. Eppure, le guerre stellari vanno davvero a iniziare.

Il mese di dicembre 2019 sarà ricordato come un mese infausto. Cosa è successo di così grave nel finire dell’anno? Due eventi di particolare rilevanza. Il primo, riguardante lo spettacolo della guerra: l’uscita nelle sale cinematografiche di tutto il mondo dell’ultimo episodio di Star Wars. Il secondo, in contemporanea, riguarda la guerra, non solo lo spettacolo. Il presidente degli USA, probabilmente per non subire passivamente la forza comunicativa del film Star Wars, per ribadire che senza primato in quel campo non c’è primato, c’è solo noia, annuncia ufficialmente la nascita della US Space Force, le forze spaziali americane che consteranno inizialmente di 16.000 membri, ma si prevede di aumentarle congruamente in futuro, e alle quali vengono destinati subito 700 miliardi di dollari. Il presidente degli USA dichiara: «Lo spazio è il nuovo dominio mondiale di combattimento in guerra».

Nell’atto che istituisce la US Space Force si chiarisce che le nuove forze servono per neutralizzare pericoli quali i missili di nuova generazione e proteggere i sempre più numerosi satelliti usati per la comunicazione e la sorveglianza USA.

I commentatori internazionali hanno interpretato la dichiarazione del Presidente come l’esplicita volontà di riprendere il programma dello scudo spaziale, lo Star Wars Program di Ronald Reagan degli anni Ottanta. Uno scudo a protezione dell’Iran e della Corea del Nord, ovvio, ma anche di Cina e Russia.

La stampa non ha dato grande peso né alla dichiarazione del Presidente, né a un altro, strategico obiettivo, per il quale si istituisce la US Space Force: mantenere e rafforzare il primato americano della colonizzazione spaziale.

Probabilmente i media erano distratti da altri temi di maggiore prossimità o più semplicemente hanno sottovalutato la corrispondenza tra le parole del Presidente e le azioni davvero intraprese.

Eppure, questo atto, a nostro avviso, non è un atto di pura continuità con le decisioni delle amministrazioni precedenti. Questo atto avrà importanza storica. È, lo ribadiamo, il primo atto della quarta guerra mondiale.

La concomitanza tra l’uscita nelle sale cinematografiche di Star Wars e la dichiarazione del presidente USA è di particolare rilevanza per due ordini di problemi. Il primo ci racconta del rapporto vigente tra realtà e finzione. Il secondo ci rende edotti sul tipo di colonizzazione spaziale che gli Stati hanno ripreso a progettare dopo averla congelata per decenni.

Riguardo al rapporto tra realtà e finzione si può desumere che, per quanto la finzione tenti di superare la realtà, la realtà colpisce in contropiede affermando la sua superiorità. La società dello spettacolo non riesce a sostituirsi alla società. Ci tenta, spesso sembra riuscirci, ma la società non si fa sostituire dalla finzione. Lo spettacolo della guerra non riesce a sublimare la guerra. Lo spettacolo della guerra può evocare la guerra, può creare abitudine immaginale alla guerra, può anche affiancarla, ma se tenta di sostituirsi a essa non vi riesce. La guerra rivendica il suo primato anche sullo spettacolo.

La prossima guerra sarà una guerra con lo spettacolo ma non una guerra dello spettacolo. Lo spettacolo, per quanto possa essere invasivo e pervasivo, non sostituisce la guerra. Il postmoderno aveva torto.

Riguardo al tipo di colonizzazione dello spazio, il presidente americano ne ha ricordato i canoni. Lotta per la supremazia, conquista, combattimento.

La sete e la fame

La colonizzazione dello spazio ha ripreso nuovo vigore. L’inno nazionale di Marte lo abbiamo già. È stato scritto da Oscar Castellino, già esperto di software, oggi famoso cantante operistico, su incarico della Mars Society britannica per promuovere l’idea che se mai gli umani vivranno su Marte avranno bisogno di una loro identità musicale. La musica è importante per i coloni. Lo sarà anche per le Star Wars.

La quarta guerra mondiale, quella tra terrestri in spazi extraterrestri, non si combatterà solo nei videogame. Utilizzerà tutti i dispositivi virtuali, ma si tratterà di una guerra vera che non tarderà a iniziare se non cambieranno i paradigmi degli Stati attuali, le logiche con le quali gli Stati si confrontano e si scontrano.

Vi sono otto potenze che posseggono sicuramente le armi nucleari. Altre in procinto di costruirle. Tante altre che sarebbero in grado di produrre il nucleare. Qual è il motivo per il quale continuano, anziché ridurre il proprio potenziale, ad aumentarlo? Fino a poco tempo fa si sarebbe detto: per motivi di deterrenza.

Gli stati che posseggono l’arma nucleare non possono essere attaccati frontalmente perché la loro morte coinciderebbe con la morte degli avversari e con la distruzione delle civiltà dell’intero pianeta. Ma la deterrenza non basta a spiegare il fenomeno della nuova corsa alla colonizzazione dello spazio. Ci sono, evidente, motivi scientifici. I soliti motivi che alimentano, accompagnano e giustificano ogni impresa coloniale: la sete di conoscenza che l’umano aveva già quando guardava fuori, l’aperto, da dentro, dalla sua caverna. Ma la sete di conoscenza non è mai stata l’obiettivo fondamentale delle imprese coloniali. È stata semplicemente un mezzo, più precisamente un’arma, l’arma privilegiata per rendere le altre armi utilizzate consone allo scopo. Occorre ribadire con forza questa elementare verità, dato che tutta l’immane quantità di risorse e di conoscenze che verranno utilizzate nella colonizzazione spaziale avranno la ragione militare, non la ragione scientifica, non quella economica, come ragione fondamentale. Gli scienziati, i tecnici, tutti coloro si trovino a lavorare nell’industria spaziale è bene che lo sappiano: fino a quando la presenza nello spazio avrà come obiettivo fondamentale il conseguimento della supremazia militare o della difesa militare, il loro sarà un lavoro eminentemente militare.

La colonizzazione dello spazio cosmico presenta anche motivi economici: la sperimentazione e la produzione di farmaci concepiti grazie alla vita in assenza di gravità, l’uso di materiali cosmici in campo industriale, lo sfruttamento delle risorse cosmiche, l’uso dello spazio celeste come immondezzaio, il turismo, il presidio e il graduale popolamento. Tutti motivi plausibili, ai quali potremmo aggiungere altro, che però non inficerebbe i motivi cruciali.

Oltre alla sete di conoscenze, ogni colonizzazione ha enfatizzato la fame. La fame per la corsa all’oro – le immani ricchezze che si prevede di sfruttare – e la fame di Eden, quel paradiso sempre perduto qui, e sempre da ritrovare da qualche altra parte. Senza sete e senza fame nessuna colonizzazione avrebbe mai avuto luogo.

La guerra si nutre con la sete e con la fame, ma la motivazione ultima della guerra è la guerra. Così come nessuna violenza può essere giustificata da qualche altro motivo – foss’anche altra violenza – così nessuna guerra si può giustificare in alcun modo.

Bisogna tuttavia prestare particolare attenzione alle motivazioni economiche della guerra e in particolare della guerra cosmica. Sono certe e vere, verissime, talmente vere e importanti da risultare insufficienti per spiegare i fenomeni della guerra. Chi ribadisce l’importanza dell’economia nella guerra spaziale in arrivo dice una cosa ovvia, talmente ovvia che dirla o non dirla è la medesima cosa. Per qualsiasi guerra si sono sempre impiegate spiegazioni economiche. Peccato che le medesime spiegazioni economiche siano state fornite pure per spiegare la pace precedente e seguente ogni guerra. Spesso, sono le medesime spiegazioni che valgono sia per la pace sia per la guerra. Posto che ci sono sempre motivi economici per qualunque fenomeno, ridurre tutti i fatti al fatto economico comporta un danno alla ragione e un riduzionismo consolatorio esiziali.

Il primato economico è tanto banale quanto l’altro che individua nel desiderio di conoscenza la corsa allo spazio. L’economia è causa della corsa spaziale e anche la conoscenza, ma il cuore del problema non è né nell’economia, né nella conoscenza che sono effetti collaterali della guerra. A cui tocca ancora il primato. Un’immane quantità di risorse e il fior fiore delle conoscenze e della comunità scientifica vengono sacrificati e utilizzati per fini di guerra. È bene sapere che la colonizzazione dello spazio probabilmente non avverrà nelle forme immaginate (milioni di persone che andranno a vivere su Marte o altri pianeti). Questi sono immaginari distorsivi per occultare un altro fatto sicuro: che nello spazio cosmico presto inizieranno le guerre batteriologiche, virali, robotiche, automiche, nucleari impossibili da combattere sul pianeta Terra.

Il motivo per il quale riteniamo che dicembre 2019 sia stato un mese infausto, è opportuno precisarlo meglio.

Quando si crea un esercito, anche se non ha ancora sparato un colpo, la guerra è già iniziata. Contrariamente a ciò che si pensa comunemente, gli eserciti non si creano a causa della guerra. È la guerra che si combatte a causa degli eserciti. Un esercito non si forma per motivi di pace. Bisogna essere ingenui per crederlo. Un esercito si forma per motivi di guerra. Questo concetto va ribadito con forza soprattutto alle nostre latitudini. Chi immagina l’Europa dimidiata perché non ha un esercito comune, chi pensa che il ruolo dell’Europa sarebbe molto superiore a quello attuale se avesse un esercito comune fa un errore di prospettiva madornale. A nostro modo di vedere, è esattamente il contrario. La forza principale dell’Europa è esattamente quella di non avere un esercito comune. Quella forza le rende possibile stare al riparo dalla guerra e le rende difficile intervenire unitariamente in zone di guerra con eserciti comuni di guerra. Se avesse questa consapevolezza, l’Europa unita avrebbe un ruolo fondamentale coma portatrice di pace in ogni parte del mondo. Se gli stati che pure hanno aderito all’Unione Europea la smettessero di giocare nel torbido delle mille guerricciole che conducono magari in contrasto o in concorrenza con altri paesi europei.

Gli stati, i politici, le aziende, i singoli che pensano alla guerra come ottimo affare commettono un errore economico madornale che la ragione economica denuncia raramente: la guerra è un ottimo affare per pochi, la pace è un ottimo affare per tutti.

La pianetica e la cosmotica alludono, evocano e invocano paradigmi economici e scientifici, ideali, etiche, affetti che espungano per sempre la guerra dall’orizzonte dell’agire umano.

Giuseppe Genna è autore di numerosi romanzi tra i quali Nel nome di Ishmael, Dies Irae, Hitler, La vita umana sul pianeta Terra, Assalto a un tempo devastato e vile, History. Il suo ultimo libro è Reality (Rizzoli 2020).
Pino Tripodi , autore di Vivere Malgrado la vita, Per sempre partigiano ( DeriveApprodi), settesette e La zecca e la malacarne ( Milieu).