Coreografia Cosmogenetica

Percorso di letture fantastiche attorno a una strana ipotesi. Ovvero: come il nostro corpo è il territorio per immaginare il pianeta

C’è una frase che mi ha sempre fatto sorpresa: «Tu sei la ragione della mia vita». A prima vista è un frase un po’ patetica e un po’ romantica… Ma è anche un cortocircuito cosmologico. Mentre tutto farebbe pensare che la scienza statistica e la fisica delle particelle siano più probabilmente la sola ragione della nostra vita, il senso comune associa questa frase solitamente a delle cose o a delle persone. Insomma un’altra persona, o magari un bosco o uno scoglio, o un gatto possono diventare le ragioni della mia vita. Perché possono diventare il punto attorno cui ruota tutto il mio desiderio e il centro del mio universo? O ancora più misterioso e inspiegabile: perché una cosa o un organismo possono essere l’origine della mia razionalità? Perché è così politica la questione di pensare col corpo? Insomma c’è davvero qualcosa di a-semiotico che organizza il comprensibile? 

Ho appena steso un asciugamano sulla sabbia, respiro nel terrore che in questo sole ustionante che mi corre lungo la pelle ci siano raggi ultravioletti che distruggono il mio DNA. Intanto apro un libro nuovo: Bestiario Haraway di Federica Timeto. Donna Haraway ha il problema del suo cane che ha il problema delle sue mani. Quando la sua mano si avvicina alla testa del cane, il cane ha paura. Allora Haraway e il cane coinvolgono uno psicoterapeuta esperto di cani e di umani e iniziano a non accarezzare più la testa con le mani ma con la testa. Entrare nella testa dell’altro con la propria testa, l’orecchio accarezza l’altro orecchio, la guancia entra nel pelo del collo. 

Tanti anni fa, per me è stato molto evidente vederlo fare da William Forsythe. Un coreografo che ha spostato il proprio punto di attenzione in svariati punti del proprio corpo. Il danzatore che improvvisa ha la percezione che la mano o la gamba o il bacino o la parte dietro del collo o i capelli o il tallone lo stiano guidando. Si ha la sensazione che siano queste parti del corpo a condurlo. Come se avessero una loro propria intelligenza. Non è una volontà centralizzata che sposta gli arti periferici, ma lo stato cosciente si sposta nei punti del corpo che guidano il modo in cui si sposta nello spazio. La natura sembra avere predisposto molte possibilità. Così come il danzatore si esercita a spostare il punto di vista cosciente in diverse parti del proprio corpo che non sono il cervello, all’opposto ci sono animali che hanno davvero il cervello disseminato in più punti del proprio corpo. Il polpo sembra avere sinapsi neuronali negli otto tentacoli, un po’ come se noi umani avessimo parti di cervello nelle braccia e nelle gambe. Il polpo probabilmente ha questa sensazione di pensare con i piedi o la sensazione che i piedi pensano fra di loro cose diverse. 

Quando eravamo più giovan* e artist* più anticonformist* usavamo partecipare ai convegni e alle conferenze rifiutandoci di sedere sulle sedie come si sta sulle sedie per parlare fra persone intelligenti. Ci piaceva con disinvoltura coricarci sul pavimento o in braccio a un altr* relator*, sempre cercando di dire come se nulla fosse le nostre cose intelligenti. Giusto per dimostrare che inventando insolite coreografie si poteva pensare e parlare meglio. 

In Empirismo Eretico, Pasolini parlava di poesia. Il poetico è questo irrompere a-semiotico, il non senso che organizza un regime di senso futuro. Lo shock che proviamo nell’ascoltare due cose che non devono stare insieme, ma che appena più tardi hanno il potere di dare senso a ciò che prima non aveva senso. Il possibile che vince il probabile. Ciò che alla fine ha più forza di trascinare il reale è ciò che è più improbabile, ciò che il nostro soggetto collettivo non pensava fosse possibile, o semplicemente non poteva pensare affatto. 

Appena scoppiata la pandemia, mi ritrovo al telefono con Franco Berardi Bifo per creare delle trasmissioni su Radiovirus. Bifo legge le sue Cronache della psicodeflazione, e in una delle tante puntate dice che il coronavirus è un atto poetico, irrompe nella nostra capacità di comprensione sociale con un gesto incomprensibile, e per questo ha il potere di aprire all’impossibile. Ci scambiamo qualche mail a riguardo e dentro di me penso: andrà sempre peggio, la reazione sociale sarà di chiudersi ulteriormente su ciò che ci rassicura, sul modo in cui siamo abituati a produrre ma che ci ha portato a questa rovina. Le fratture che il meteorite coronavirus provocherà saranno microfascismi, sorveglianza digitale, razzismi, femminicidi e omofobie. Guattari e Deleuze ci mettevano in guardia di fronte alla possibilità di processi di deterritorializzazione reazionari e fascisti. Per dirla nel linguaggio più comune: un meteorite colpisce improvvisamente la chiesa del villaggio, il municipio e la fabbrica, la gente ha paura, è terrorizzata e si sparge il panico. Le persone non si sentono più al sicuro, mettono in discussione le quattro mura in cui erano abituate ad abitare e si diventa più sospettosi, cattivi, paranoici, complottisti, competitivi, identitari, tutti sperano di tornare alla normalità: che altro non è che il ricordo di ciò che si sa di avere perso per sempre. 

David Graeber diceva che il capitalismo è morto. È finito. Che cosa è la sicurezza e l’ironia sottesa a questa affermazione? Sappiamo già che il capitalismo è morto, che è insostenibile, ma c’è qualcosa nel senso comune che fa come se nulla fosse. Penso al David Graeber antropologo, che è meno attento a come Wall Street stia crollando e più attento allo sguardo dell’umanità che sta a guardare questo crollo. Lo sguardo di questa umanità è uno sguardo incapace di pensare a un’alternativa e a uno scenario di sopravvivenza felice. Quel David Graeber con gli occhi sgranati come si sgranano mantenendo la calma davanti ad un disastro, ma anche allo stesso tempo lucidi, bagnati e sognanti. Voleva un’economia non perversa, tutto qui. Un’economia in cui la gente non dovesse fare lavori di merda per dare da mangiare a gente che passa il tempo a pensare come rendere il mercato del lavoro ancora più di merda. Voleva un’economia fatta di cose necessarie, mangiare un panino, farsi una risata, curarsi le ferite, spostarsi per fare due chiacchiere, e imparare quel che altr* hanno già imparato… 

Durante il lockdown che ho passato in casa a Milano, Il governatore nazista della Regione Lombardia stava passando il tempo a pensare a come usare i morti da coronavirus per rubare soldi da regalare al fratello della moglie e alle case farmaceutiche, i camion dell’esercito erano in coda per portare via le salme dei cadaveri infetti, le ambulanze passavano sotto la mia finestra una dietro l’altra, ogni giorno, indisturbate, senza più dover fare lo slalom nel traffico perché le strade erano finalmente libere e l’aria di colpo fresca e respirabile. Mentre succedevano tutte queste cose, controllo una delle tante chat aperte sul mio laptop e una amica mi segnala un link. Il link portava ad una pagina con su scritto: «Rethinking the Apocalypse: An Indigenous Anti-Futurist Manifesto», scarico il pdf e trovo una immagine, la faccia di un’indiana d’America con sopra scritto: «Dear Colonizer, Your Future is Over». E poi: «We are the consequence of the history of the colonizers future». Allora metto in fila un po’ di indizi: il coronavirus non ragiona come ragiona il nostro senso comune occidentale attorno all’anno 2020. Il coronavirus non ci ha attaccato per fare danni a Confindustria. Il coronavirus ignora Confindustria così come noi la conosciamo. Siamo di fronte a una biforcazione, o a una molteplicità di biforcazioni reali. Le nostre ragioni non sono le ragioni del virus, così come la ragione degli indigeni che hanno scritto questo Manifesto dell’Antifuturo non è la ragione dei loro colonizzatori. Questo futuro che stiamo vedendo finire, questo futuro che David Graeber dice morto, è la storia scritta dai colonizzatori, è il futuro scritto dal capitalismo, è il senso e l’importanza che abbiamo attribuito al modo in cui produciamo, controlliamo la natura e sfruttiamo il pianeta. 

Tutte queste altre persone, cose ed organismi che non si riconoscono nelle ragioni dei colonizzatori stanno dicendo che non vogliono essere raccontate e rappresentate dal colonizzatore. Non è importante come il produttivismo estrattivista neoliberale stia spiegando e raccontando il coronavirus, è piuttosto più interessante come il virus non si faccia spiegare da lui. Insomma è interessante ascoltare tutte le aperture che stanno accadendo in cui si generano modi di stare assieme che non appartengono a quel modo di produrre e sfruttare. Non so molto su questi modi altri, se non che hanno a che fare con il nostro modo di stare insieme e stare in relazione: sul corpo come territorio. 

Per questo faccio l’ipotesi: abbiamo bisogno di una cosmogenesi, di generare un pianeta. Per fare un pianeta dobbiamo connettere corpi. Per una cosmogenesi non centrata sull’uomo, per generare un altro pianeta basato su altre relazioni, un concatenamento altro fra umani, non umani ed elementi, la questione è coreografica, e cioè di come i corpi entrano in relazione anche in una loro modalità preverbale, prerappresentativa, ma allo stesso tempo ritmica, figurativa e immaginativa. Possiamo insomma inventare delle forme di convivenza e far circolare un’economia del piacere, prima che questa acquisti una priorità o univocità di senso. 

Sempre durante il mio lockdown, mentre migliaia di attivisti portano pacchi alimentari alla gente che non ha più soldi, vedo comparire un testo di Bruno Latour in cui, credo, cerca di rispondere alla domanda: che fare? Ora che un virus ci ha reso evidente che l’antropocene è insostenibile, cosa facciamo? La risposta di Latour è di fare un gioco fra le persone che conosciamo, in cui ricominciare a chiedere loro che cosa è davvero utile. Latour propone un esercizio personale, un allenamento quotidiano di invenzione di cosa sia davvero utile, Graeber un’economia di cose necessarie, contrapposte all’inutilità del produttivismo capitalista. Haraway, fra tante cose interessanti, danza con la testa col suo cane per non farle più paura. Ora sono rannicchiato con le gambe al limitare di un’ombra con la schiena appoggiata su un muretto a secco, nella speranza che il sole non mi raggiunga mai più. Sto leggendo un vecchio libro di cui non vi racconto nulla che si intitola La botanica parallela di Leo Lionni. Questo libro certifica in modo inequivocabile e storicamente documentato che la fantasia esiste ed è reale. Gli incontri con il mondo animale, vegetale e con altri umani sono possibili solo se possono essere immaginati. Credo che in pochi altri testi scientifici venga affermato in modo così chiaro che la natura imita l’arte, e che il pianeta è popolato di forme e narrazioni che definiscono il reale e la possibilità di qualsiasi scienza certa.

Emanuele Braga è artista, ricercatore, coreografo e attivista. La sua ricerca si focalizza sui modelli di produzione culturale e sui processi di trasformazione sociale. È cofondatore della compagnia di danza e teatro Balletto Civile (2003), del progetto di arte contemporanea Rhaze (2011), e cofondatore e sviluppatore di Macao, nuovo centro per l’arte e la cultura a Milano.