Accelerazione: dalla dreamachine al cyberpunk

Pubblichiamo un estratto dal nostro prossimo libro, Accelerazione – Correnti utopiche da Dada alla CCRU, in libreria da domani.

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Decoder, prodotto in Germania Ovest nel 1984, è ambientato in un mondo a metà strada tra il totale controllo tecnocratico e il collasso apocalittico. Il film segue le vicende di FM (interpretato da F.M. Einheit aka Mufti, noto soprattutto per essere stato il percussionista della band industrial Einstürzende Neubauten), noise freak e dipendente di un’onnipervasiva catena di fast food chiamata H. Burger. H. Burger è uno dei tanti snodi nella matrice del controllo aziendale: nei suoi locali viene diffusa la muzak, musica d’ambiente d’elezione per catene di negozi e centri commerciali, che culla i suoi clienti in un’opacità narcotizzante, uno stato post-orgasmico di beatitudine indotto dal consumo passivo. FM, a seguito di una serie di strani sogni (in cui vede la sua ragazza – interpretata dall’icona dell’underground tedesco Christiane F. – vagare in un paesaggio post-apocalittico ascoltando gli esperimenti su nastro di William Burroughs, poi incontra un negoziante, interpretato da Burroughs stesso, che gli dona un registratore a cassette), si imbatte in una setta guidata dall’«Hohepriester» (interpretato da Genesis P. Orridge), che lo aiuta a sviluppare l’idea di usare delle registrazioni come mezzo per combattere il regime sensoriale della muzak. Infine, mentre è tallonato da un killer della Muzak Corporation di nome Jaeger (interpretato da Bill Rice, veterano della scena artistica del Lower East Side di New York), FM riesce a innescare una rivolta di massa attraverso tattiche di cut-up e sperimentazione sui nastri. 

Decoder è il frutto bizzarro di un gruppo di persone guidate da Klaus Maeck e Jürgen Muschalek (o Muscha, come era più comunemente noto). Le radici del progetto affondavano nella scena punk della Germania Ovest: Muscha aveva fatto parte dei Charley’s Girls, mentre Trini Trimpop, uno degli sceneggiatori, era il bassista dei Die Toten Hosen. Maeck, al tempo, era invece immerso nell’interzona tra punk e politica, come racconterà in un’intervista

Negli anni Settanta facevo attività politica, ma non mi sono mai sentito a mio agio in quell’ambiente; l’approccio all’organizzazione di gruppi e alle manifestazioni prevedeva la diffusione di informazioni attraverso volantini e giornali, ma era noioso e non coinvolgeva troppa gente. E poi stava diventando sempre più pericoloso, in un’epoca in cui fazioni militanti come il Movimento del 2 giugno o la RAF crescevano, e così la pressione della polizia e dello Stato […]. Cambiai punto di vista, specialmente dopo essermi allontanato dai miei compagni, che reputavano il punk una cosa fascista. Ho amato – e amo ancora – Johnny Rotten per come stravolse l’industria dello spettacolo; mi convinsi che l’unica attività politica possibile avrebbe dovuto usare le armi del nemico. Dalla Prefazione al Decoder Handbook: «Si tratta di manipolazione subliminale, attraverso parole, immagini e suoni. È compito dei pirati comprendere queste tecniche e riutilizzarle a proprio favore. Diffondere informazioni è il compito di tutti i media. I media sono potere. E oggi (1984!) la più grande rivoluzione avviene all’interno del mercato dei media elettronici. Dobbiamo imparare velocemente a usare le nostre videocamere e i nostri registratori come armi. Il divertimento arriverà da sé.

Decoder, con la sua attitudine punkeggiante, il suo post-operaismo e la sua enfasi sulla fusione tra sistemi tecnologici e controllo corporativo, fu il primo squillo del cyberpunk, cavalcando lo zeitgeist di Neuromante di William Gibson, pubblicato nello stesso anno. Al pari del romanzo di Gibson, anche Decoder recava il timbro dell’influenza di William Burroughs, il quale non solo aveva partecipato al film con un piccolo cameo, ma aveva ispirato con le sue pagine l’intera base concettuale dell’opera. «Non mi piaceva Burroughs come scrittore o come artista, mi piaceva come rivoluzionario», disse Maeck. «Volevo dare corpo alle idee e alle tecniche di Burroughs, così come descritte in The Electronic Revolution, in The Revised Boy Scout Manual o in The Job». La traccia che collega Burroughs al punk e dunque al cyberpunk è un condotto essenziale, che mette insieme molte delle cose di cui abbiamo discusso fin qui, dall’Internazionale Situazionista al collettivo di Decoder (la rivista). Per sottolineare ancora quest’aspetto, è fondamentale comprendere la nozione di controllo in Burroughs, il modo in cui informa la sensibilità cyberpunk e soprattutto la sua prassi, descritta da Mark Fisher come «prettamente spinoziana». Questo ci permetterà di sviluppare un’interpretazione alternativa del cyberpunk, opposta alla futile masturbazione estetica di videogiochi come Cyberpunk 2077

Nelle sue «Annotazioni su Burroughs», il teorico dei media Marshall McLuhan ha individuato le due principali proposizioni dell’opera di Burroughs, la prima espressa soprattutto attraverso Pasto nudo (1956), la seconda attraverso Nova Express (1964). Uno: «Oggi i nervi degli uomini sono attorno a noi: sono venuti al di fuori del corpo come ambiente elettrico». E due: «Lo stesso sistema nervoso umano può essere riprogrammato biologicamente tanto facilmente quanto una rete telefonica può modificare la sua tariffa». Come sottolinea Fisher, queste affermazioni riguardano tanto l’ossessione di McLuhan per l’impatto di un contesto tecnologico in rapida trasformazione sulle dimensioni psicologiche e fisiologiche dell’essere umano, quanto le riflessioni dello stesso Burroughs sui sistemi di controllo. Ad ogni modo, comunicano una situazione in cui il sé si apre e si estende sotto le raffiche dei loop cibernetici, mentre la pelle si srotola e si riarrotola dentro i dispositivi di input e output di quelli che Deleuze e Guattari chiamerebbero sistemi macchinici. Da qui, la sostanza carnosa del corpo, con tutta la sua cognizione integrata, diventa qualcosa di indistinto dai sistemi mediatici. Come ha detto Burroughs a proposito di Nova Express, «quella che noi chiamiamo realtà non è altro che un film. Una pellicola, che io chiamo pellicola biologica». 

Queste dichiarazioni nascono dall’interesse di Burroughs per le nascenti scienze cibernetiche, e in particolare – come Andrew Pickering ha dimostrato nel suo The Cybernetic Brain – per il lavoro del neuroscienziato inglese Grey Walter. La questione che Walter affrontava, e a cui cercava di dare una risposta, era, secondo Pickering, in che modo «il cervello riesce a passare da impressioni sensoriali atomistiche a una consapevolezza più olistica del mondo». O in altre parole: come fa un input frammentario – la registrazione del gusto, dell’olfatto, della vista, dei suoni ecc. – a produrre un’immagine del mondo coesa e integrata? La soluzione, sosteneva Walter, si trovava nelle modalità in cui questi input sensoriali si intrecciano col cervello, che a sua volta esegue una sorta di scansione alla ricerca di «elementi d’interesse», ovvero quella che oggi chiameremmo pattern recognition. Lavorando con l’elettroencefalografia, Walter è stato in grado di ipotizzare che questo «riconoscimento di schemi» operava attraverso i movimenti di particolari onde cerebrali chiamate ritmi alfa. I ritmi alfa tendono a essere più veloci quando gli occhi sono chiusi, e rallentano quando sono aperti; l’ipotesi era che quando gli input sensoriali erano inattivi i ritmi entravano in una sorta di «modalità di ricerca». E nel momento in cui la stimolazione veniva riattivata, il cervello era già stato in grado di percepire e sintetizzare gli schemi, rallentando le operazioni di scansione. 

Gli esperimenti condussero Walter in zone inconsuete, nel regno della parapsicologia ad esempio, ma non perché credesse nel paranormale o cercasse qualche spiegazione soprannaturale dei fenomeni neurologici. La ragione era che la plasticità del modello cerebrale di Walter ammetteva implicitamente che la percezione della realtà potesse essere deformata – per esempio, nel caso della manipolazione delle onde cerebrali – fino a farla sembrare reale. Scrive Pickering: 

Il libro di Walter del 1953 The Living Brain tratta ampiamente della fisiologia del cervello e delle sue patologie, dell’epilessia e delle malattie mentali. Ma in diversi passaggi va oltre l’ambito patologico per includere una serie di quelli che potremmo chiamare stati alterati e comportamenti strani: sogni, visioni, sinestesia, allucinazioni, trance ipnotiche, percezioni extrasensoriali, il raggiungimento del nirvana e le bizzarre capacità degli yogi orientali e dei fachiri, le «strane prodezze» di «culti grotteschi» come la sospensione del respiro e del battito cardiaco o l’estrema tolleranza al dolore […]. Questi passaggi evocano una interpretazione del cervello come partecipante attivo del mondo. Anche nel campo della percezione e della rappresentazione, fenomeni come i sogni o le allucinazioni possono essere usati per indicare che il cervello non si limita a copiare il mondo, ma incorpora gli input sensoriali in una complessa dinamica interna.

La ricerca encefalografica si completa con le sue famose «tartarughe», i primi robot fatti in casa. Utilizzando dei sensori che permettevano di seguire la luce e rispondere agli impatti (urtando un tavolo, ad esempio), le tartarughe dimostravano l’intuizione di Walter secondo cui sarebbe la commistione di dati sensoriali a permettere l’operatività nel mondo. Queste idee vennero riprese da Burroughs in Pasto nudo: «Lo studio delle macchine pensanti ci insegna di più sul cervello di quanto sia possibile imparare grazie ai metodi introspettivi. L’uomo occidentale si sta esternalizzando sotto forma di congegni elettronici». Sono state senza dubbio queste suggestioni a ispirare la lettura di Burroughs da parte di McLuhan come presagio di un nuovo tempo, in cui il confine tra l’interiorità umana e l’esteriorità del «paesaggio elettrico» è stato completamente rimosso, e in questo passaggio possiamo osservare l’effetto culturale di quello spartiacque che fu la comparsa della cibernetica, ovvero l’influenza diretta di Walter. Burroughs aveva consumato The Living Brain subito dopo la pubblicazione e ne aveva passato le copie ai suoi sodali del movimento beat, influenzando in particolare il suo stretto collaboratore Brion Gysin. E quando Walter arrivò a New York per una conferenza, Burroughs presenziò assieme a Ian Sommerville, un ingegnere elettronico vicino all’ambiente beat. 

Più tardi, nel 1961, Burroughs, Sommerville e Gysin elaborarono la Dreamachine, un apparecchio composto inizialmente da «un cilindro perforato disposto su un giradischi», che si basava sull’osservazione di Walter per cui le persone soggette a lampi di luce estremamente rapidi «riferivano esperienze di colori e motivi». Ci si doveva sedere di fronte e chiudere gli occhi, permettendo allo sfarfallio delle luci di modificare i ritmi alfa del cervello, che a loro volta avrebbero indotto rapidamente a queste visualizzazioni a occhi chiusi. Per i suoi inventori la Dreamachine era la punta di un iceberg: questa tecnologia, realizzazione concreta di teorie scientifiche d’avanguardia, rappresentava la porta d’ingresso a quella «riprogrammazione della realtà» che McLuhan identificherà come il principale interesse di Burroughs. John Geiger racconta in proposito: 

Gysin credeva che la capacità della Dreamachine di amplificare le percezioni e intensificare le funzioni cerebrali potesse portare «a un cambiamento di prospettiva, superando i limiti del mondo visibile». Pensava alla Dreamachine come una vera e propria scoperta, descrivendola come «la prima esplorazione del proprio spazio interiore». In The Living Brain Walter era andato addirittura oltre, ritenendo che il lampeggiamento aveva il potenziale di produrre un progresso intellettuale, perfino evolutivo. Sosteneva che nella «luce del sole che filtra attraverso la foresta abbiamo corso il maggior rischio di attacchi dovuti allo sfarfallio della luce. Forse fu così […], che i nostri antenati arboricoli, colpiti dal sole del tramonto in mezzo alla giungla, scesero dal ramo a terra, diventando scimmie più tristi ma più sagge». 

Gysin introdusse alla Dreamachine anche Allen Ginsberg, che gli consigliò di contattare Timothy Leary, sotto la cui supervisione aveva recentemente sperimentato funghi allucinogeni contenenti psilocibina. Negli scambi che ne derivarono, Gysin descrive a Leary in maniera estremamente dettagliata la progettazione e il funzionamento dell’apparecchio. Geiger nota come Leary fosse inizialmente sospettoso sul lampeggiamento (forse perché apriva un possibile percorso alternativo all’ingestione di sostanze psicotrope, la sua area di competenza), ma che poi col tempo cominciò ad apprezzarlo. «Abbiamo imparato da W. Grey Walter e da William Burroughs», scriverà in un saggio intitolato «How to Change Behavior», «come la fotostimolazione sia un mezzo di alterazione della coscienza. Concentrare l’attenzione su uno stroboscopio o su un apparecchio lampeggiante può produrre esperienze visionarie». Di conseguenza Leary introdusse Aldous Huxley, a quel tempo già molto esperto di sostanze che alteravano la mente, a Walter, Burroughs e alla macchina; in breve tempo la Dreamachine, e più in generale la tecnica del lampeggiamento, diventarono una sorta di fenomeno controculturale. L’uso delle luci stroboscopiche da parte della controcultura degli anni Sessanta, ad esempio, porta il marchio inequivocabile dell’incontro tra questa tecnica e le droghe psichedeliche. Facendo un salto in avanti di una decina d’anni, eccoci di nuovo a Decoder: il protagonista, durante l’incontro con la setta guidata da Genesis P. Orridge, fisserà lo sguardo dentro le rotazioni di una Dreamachine. 

GIUNTURA 

In un post del 2004 dal titolo «Spinoza, K-punk, Neuropunk», Mark Fisher ha descritto la convergenza tra il pensiero di Spinoza e il cyberpunk sulla base del fatto che «proprio a causa di questo raccapricciante e morboso assemblaggio» – cioè il disordine generalizzato del sistema nervoso centrale e la plasticità che ne risulta – «l’essere umano contiene un potenziale di destratificazione che manca agli organismi più semplici». Il termine destratificazione origina dalla rimodulazione psichedelica di Spinoza che ne fanno Deleuze e Guattari in Mille piani, e designa il processo di abbandono di una configurazione molare territorializzata – o, in altre parole, come il nuovo sia capace di prodursi. Fisher descrive questo snodo come lo sviluppo di un «razionalismo freddo», annoverando prontamente Burroughs nel pantheon dei suoi sperimentatori più convinti. 

Ciò che rende Burroughs un razionalista freddo è il suo spietato approccio spinoziano, che si articola su tre punti: (1) contrariamente alla rigida soggettività postmoderna, include interessi umani; (2) questi interessi sono bloccati da forze d’occupazione aliene; (3) la libertà umana consiste innanzitutto nell’individuare e poi eliminare queste forze (in pratica combattendo le cause della schiavitù umana). Essere liberi non consiste nel fare quello che «si vuole», considerato che l’organismo umano tende naturalmente verso circuiti edonistici ipercontrollati in strutture ripetitivo-compulsive (in pratica, lo spettacolo di una sala giochi). Per Burroughs gran parte del sesso era indistinguibile dalla pornografia, ed entrambi, come la tossicodipendenza, sono stati introdotti nell’organismo dal Controllo (qui Burroughs si allinea non solo con Spinoza ma anche con Foucault…). 

Allo stesso modo Fisher nota in Flatline Constructs come «“la riprogrammazione” del sistema nervoso centrale – che è anche il perno di Nova Express di Burroughs, nell’esegesi di McLuhan – è un modello neospinoziano di produzione di passioni tristi». Ciò significa che la neuroplasticità attivata dal sistema nervoso permette alle macchine del controllo di operare su di esso, ma aprendo contestualmente una via di fuga da quelle stesse forze astratte di dominazione impersonale. Come diranno Micheal Hardt e Antonio Negri in un breve inciso di Impero: «Nel mondo oscuro della fiction cyberpunk, ad esempio, la libertà della cura di sé è spesso indistinguibile dai poteri di un controllo onnipresente».

SUPERFICI 

Fisher, in un post del 2004 sul tema del glam-punk, sempre sul suo blog, dà un’interpretazione leggermente differente della genealogia del cyberpunk: «Possiamo supporre che Gibson abbia tratto il nome Neuromancer da “new romantic”? In questo caso la trasposizione di Gibson suggerirebbe una più interessante e appropriata contestualizzazione della stregoneria neurale di questi nuovi elettronauti». I new romantics, i nuovi romantici di cui parla Fisher, sono i seguaci di una tendenza art-pop nata in Inghilterra sulla scia del glam e del punk sul finire degli anni Settanta, poi apparentatasi col synthpop negli anni Ottanta: il filone includeva band come Ultravox, Duran Duran, Spandau Ballet e Japan. 

La definizione si presenta come un paradosso: il «new» suggerisce ovviamente un rimando al moderno, mentre la citazione del romanticismo riporta a un’epoca immediatamente precedente alla definitiva istituzione della modernità. Deleuze e Guattari hanno descritto il romanticismo come un’esperienza di profondità, un territorio che si estende verso il basso, dove le relazioni interpersonali, spesso filtrate attraverso il mito dell’eroismo e del nazionalismo politico, oscillano tra l’uno e il molteplice, tra l’individuo e la folla. La modernità invece si apre al cosmo: mutazione senza fine. I new romantics hanno giocato con l’idea di romanticismo, rafforzando alcuni aspetti della polarità uno-folla, arrivando persino a scatenare accuse di nazionalismo o complicità con la destra tatcheriana. Ma allo stesso tempo era un sodalizio con il moderno permanente: un giocare con le possibilità offerte dalle grandi avanguardie, dai costruttivisti russi all’art déco, frammentato, ricomposto e (ri)prodotto con l’aiuto del sintetizzatore. 

Non a caso, Deleuze e Guattari vedono proprio nel sintetizzatore la logica del moderno messa in opera: 

Si esce dunque dai concatenamenti per entrare nell’età della Macchina, immensa Meccanosfera, piano di cosmicizzazione delle forze da captare. Il procedimento di Varèse, all’aurora di quest’epoca, può essere ritenuto esemplare: una macchina musicale di consistenza, una macchina per suoni (e non per riprodurre i suoni), che molecolarizza e atomizza, ionizza la materia sonora e capta un’energia di Cosmo. Se questa macchina deve avere un concatenamento, sarà il sintetizzatore. Raggruppando i moduli, gli elementi di fonte e di trattamento, gli oscillatori, generatori e trasformatori, predisponendo i microintervalli, esso rende udibile il processo sonoro stesso, la produzione di questo processo, e ci mette in relazione con altri elementi ancora che superano la materia sonora. 

Deleuze e Guattari sottolineano come nella modernità «il Grund e il territorio» abbiano perduto il loro fondamento: ciò che era profondità è adesso scintillante superficie. Per Fisher la distinzione tra profondità e superficie è il cuore della futuribilità insita nel glam-punk del new romantic e nei successivi sviluppi del synthpop. Era innanzitutto una rottura con le pretese del rock’n’roll: «Il rockismo si potrebbe definire come il tentativo di eliminare il rumore di fondo per “tornare” a quella presenza che, inutile dirlo, non c’è mai stata». E se il rock’n’roll è la manifestazione sonora di una «terra americana» profondamente mitologizzata e idealizzata, la risalita verso la superficie segue la traccia di ciò che da questa terra emerge ma che la rifugge (e che quindi la annienta): «il deterritorio della cultura consumistica americana». C’è quindi un duplice movimento tra profondità e superficie: la spinta del romantico nel moderno, e una velocità di fuga dalla ripetizione infinita del passato. 

Come tutto questo si ricolleghi al cyberpunk diventa più chiaro prendendo in considerazione una figura la cui capacità trasformativa ha fortemente influenzato i new romantics: David Bowie, e più precisamente il Bowie di Berlino, che si installò nel cuore della Guerra fredda per sperimentarne il tempo fuori sesto – il registro temporale al centro dell’esperienza moderna. Prima del viaggio in queste tenebre, che darà vita alla celebre trilogia formata da Low (1977), Heroes (1977) e Lodger (1979), Bowie si trovava nel punto più estremo della realtà americana: Los Angeles. L’espansione verso l’Ovest era stata una continua promessa di redenzione, mentre la sua portata mitologica la descriveva come la Terra dei morti. A Los Angeles queste due inclinazioni sono collassate l’una nell’altra; un collasso che è, come sostiene Baudrillard, l’ombra strisciante di un futuro che sarebbe diventato globale: 

E quella forma spettrale di civiltà che hanno inventato gli americani, forma effimera e così vicina al dissolvimento, appare improvvisamente come la più adatta alla probabilità, e alla sola probabilità della vita che incombe su di noi. La forma che domina l’Ovest americano, e certamente la cultura americana tutta, è una forma sismica: cultura fratturale, interstiziale, nata da una faglia con il Vecchio Mondo, cultura tattile, fragile, mobile, superficiale – per coglierne il gioco bisogna circolarvi secondo le stesse regole: slittamento sismico, tecnologie dolci.

Per Deleuze la superficialità è l’assenza di profondità, un gioco dinamico che si svolge a livello della superficie, privato di quegli attributi negativi spesso associati alla parola. Quando Bowie fece un bilancio del punto in cui si trovava la cultura americana e decise di lasciare Los Angeles, era in cerca di quella superficialità di livello superiore, della plasticità massima che emerge dal «deterritorio della cultura consumistica americana» individuato da Fisher. In questi termini si potrebbe scorgere un contrasto tra quel senso di stupore e soggezione che Baudrillard provava correndo lungo l’asfalto rovente a bordo della sua decappottabile, e quella pressione storica implosa in una stella di neutroni che è «l’America siderale». Ma forse questa contraddizione non esiste. Semmai esiste una continuità, una logica impercettibile nascosta dentro – e non sotto o dietro – la superficie. 

Come racconta Simon Reynolds, l’attrazione di Bowie per Berlino era legata all’espressionismo tedesco. La città «negli anni Venti era la porta artistica e culturale d’Europa, praticamente tutti i fenomeni artistici più importanti nascevano lì. Ecco dove volevo stare, non a Los Angeles, con i suoi squallidi negozi di magia». In realtà, l’espressionismo tedesco si era intrecciato con Los Angeles già nella genesi di quel genere cinematografico che meglio catturerà lo spirito della città come l’apocalittico capolinea di un «destino manifesto». La forma del noir, e dunque l’uso dinamico e contrastato del bianco e nero, la danza delle ombre, i paesaggi urbani irregolari e imponenti, le seduzioni della carne che nascondono la freddezza del principio di realtà, sono tutti elementi estratti dall’espressionismo tedesco, o meglio, come dice Mark de’Rozario (maschera schizofrenica di Fisher), «l’espressionismo tedesco infetta e riconfigura fatalmente il nascente cinema americano». 

Nel movimento dalla profondità alla superficie ciò che affiora sono le intensità; d’altra parte cosa viene trafficato nella rete libidinale della società dei consumi, dopo aver sfondato le profondità del mito, se non le intensità? Una forza simile alberga nel cuore dell’espressionismo tedesco, nonostante le coordinate e la relazione superficie-profondità siano state modificate. Per Deleuze l’espressionismo è «subordinazione dell’estensivo all’intensità», riconoscendo nelle parole di Wilhelm Worringer – che lui descrive come «il primo teorico» dell’espressionismo – un modo di fare arte che collega l’esperienza delle intensità con una forma di «vita» che è al contempo viva e morta, organica e inorganica. Davanti a questa costellazione di riferimenti riconsideriamo adesso il grande neo-noir cyberpunk Blade Runner: i replicanti – che infine fuggono, nella figura di Rachel (e forse dello stesso Deckard) – non sono forse vivi e morti, organici e inorganici? I loro corpi sono carne, ma sono anche prodotto della tecnoscienza. Vivono, ma una vita che non è la propria. Sono i sottoprodotti imbastarditi di una macchina immensa: il capitalismo aziendale, il complesso militare-industriale e tutta la storia che li ha consolidati. Il loro fine è risalire dalle profondità a una nuova superficie. 

Certamente non possiamo omettere il luogo dove Blade Runner è ambientato, Los Angeles, né le radici estetiche del film. Mike Davis ha notato come la pellicola abbia remixato Los Angeles «nello stesso panorama di gigantismo urbano che Fritz Lang ha celebrato in Metropolis», legando di fatto Blade Runner al periodo classico del noir che l’ha preceduto e, di conseguenza, al cinema espressionista tedesco. Douglas Kellner è ancora più diretto: 

Formalmente Blade Runner segue uno stile neoespressionista fatto di ombre scure, luci annebbiate ed eccentriche angolazioni di ripresa. Anche dal punto di vista tematico il film contiene evidenti elementi espressionisti. L’eloquio poetico del capo androide Roy sembra una versione stringata del tipico monologo rapsodico, e ideologicamente ambiguo, del teatro espressionista; la sua conversione da poeta-guerriero a salvatore cristologico richiama invece l’espressionista «dramma della trasformazione». Oltre a questo, Blade Runner prende in prestito intere sequenze dal cinema espressionista tedesco: al di là dei parallelismi con Metropolis, lo squallido bar dove Deckard incontra l’androide Zhora ricorda la festa della signora Greifer nel film di Pabst La via senza gioia, fino ai cappelli insettiformi indossati dalle donne. La silhouette di Deckard che si staglia sulle scale è confrontabile con una scena simile in Nosferatu. Nel complesso, l’enfasi di Blade Runner sull’immagine degradata e alienante della città corre parallela ai «film di strada» espressionisti. Si potrebbe quindi leggere Blade Runner come una sorta di recupero della visione della città futuristica di Lang, in cui lo scontro finale sostituisce l’appello di Metropolis a una partecipazione di classe. Blade Runner si conclude infine promuovendo, e trascendendo, il mito dell’amore romantico in una maniera disperata, al pari di un altro film espressionista: Destino.

Ma l’espressionismo tedesco non era l’unica cosa che aveva attirato Bowie in Germania. Come i replicanti di Blade Runner cercavano di sfuggire al peso delle proprie origini, anche il nostro era in cerca di una fuga, in questo caso dal peso della tradizione musicale. La Germania aveva rotto con le radici americane del rock’n’roll: «Ero un grande fan di Kraftwerk, Cluster e Harmonia», scrive Reynolds, «non avevo alcun dubbio su quale fosse il futuro della musica […] per me veniva dalla Germania». Reynolds rimarca soprattutto l’influenza su Bowie dei Neu!. Il loro suono era «fresco e scattante» come il loro nome (che significava «nuovo» in tedesco), «un’ondata euforica tra scintillanti panorami di possibilità senza confini». I Neu!, come i Kraftwerk (fondati da ex componenti degli stessi Neu!), i Can (band formata da allievi di Karlheinz Stockhausen, il cui nome era l’acronimo di «comunismo, anarchismo, nichilismo»), gli Amon Düül (che originano dalla Kommune 1, l’esperimento comunitario di cui abbiamo parlato nel terzo capitolo) e altri, furono tra le band più note del cosiddetto movimento krautrock, caratterizzato da ritmi trascinanti e beat motorik, che tratteggiava una peculiare idea di futuro, un futuro innanzitutto liberato dalla sovracodificazione del passato politico e culturale. 

ACCELERAZIONE 

La fuga dal passato non è mai lineare; procede attraverso un rinvigorimento di elementi del passato che permette al motore del tempo di tornare a rombare. Ed è qui che, ancora una volta, ritorniamo a uno strano loop. Come racconterà Ralf Hütter dei Kraftwerk: «Le nostre radici si trovavano in quella cultura interrotta da Hitler… il Bauhaus, l’espressionismo tedesco». Complicando poi in Radio On di Chris Petite, del 1979: «Siamo i figli di Fritz Lang e Wernher von Braun […]. Siamo il collegamento tra gli anni Venti e gli anni Ottanta. Tutti i cambiamenti sociali passano attraverso il rapporto empatico con registratori, sintetizzatori e telefoni. La nostra realtà è una realtà elettronica». La realtà elettronica, il mondo di superficie, le intensità, la musica sintetica e le persone sintetiche. Essere figlio di Lang e von Braun è essere il frutto di un incrocio tra un futuro modernista pieno di promesse e il potere del complesso militare-industriale. Non è la perfetta descrizione dei replicanti di Blade Runner? La Tyrell Corporation, la figurazione della forza industriale e il futurismo espressionista di Los Angeles aderiscono perfettamente a quest’idea, segnando i limiti non della discendenza anorganica ma del substrato biologico dei progenitori. I replicanti sono figli destinati a sfuggire al loro destino. 

La copertina dell’album Trans Europe Express dei Kraftwerk, del 1977, è una rappresentazione divertita di queste tensioni. I brani al suo interno sono paesaggi sonori elettronici, ritmici e metodici, il soundscape macchinico di un futuro possibile, mentre il design della copertina invoca l’impulso modernista dei primi anni Venti. Un modello estetico che sembra cercare un «punto d’incontro tra Metropolis e l’art déco» – come suggerisce Reynolds. L’immagine dei quattro membri della band, tranquillamente in posa, vestiti di tutto punto e coi capelli in ordine, rimanda a un’epoca passata, ma c’è qualcosa di perturbante nel modo in cui sono presentati. Forse non sono affatto umani, come sembrerebbe indicare la terza traccia, che intona senza sosta «we are showroom dummies», siamo manichini da esposizione. Da un lato l’invocazione della società dei consumi filtrata attraverso una sensibilità pop, che però molto poco aveva a che vedere con le ripetizioni di Warhol (un’operazione simile fu fatta dai Neu!, il cui nome citava l’immaginario dell’industria pubblicitaria), dall’altro la celebrazione di una nuova forma di vita. I «manichini da esposizione» non sono semplici agenti passivi: man mano che la canzone va avanti acquistano movenze, finendo per frantumare le vetrine. In maniera in parte affine, i Neu! affiancavano al dispiegamento di un’estetica consumistica un aggressivo anticapitalismo – nel brano «Hero», su Neu! ’75 (che probabilmente ispirò Bowie per il titolo del suo album), Klaus Dinger urlava: «Fuck the press, fuck the program, fuck the company» – ma non si trattava solamente di una posa satirica, né di una vera contraddizione. Dovremmo piuttosto leggerla come la manifestazione di un complesso gioco di forze storiche e culturali, e che si irradia anche attraverso la letteratura cyberpunk: trascendere la società dei consumi attraverso l’affermazione, non la negazione. 

Nella sua riflessione su Alice nel Paese delle Meraviglie, Deleuze descrive Alice «intendere lo specchio come superficie pura, continuità del fuori e del dentro, del sopra e del sotto, del diritto e del rovescio». La prossimità tra il sopra e il sotto denota il già menzionato passaggio dalla profondità alla superficie, laddove la superficie è la nuova e unica condizione delle cose. La «condizione superficiale» è alla base del modernismo sperimentale dei Kraftwerk, come bene illustrano le immagini narcisistiche evocate dalla seconda traccia di Trans Europe Express, «Hall of Mirrors», in cui un’algida e minacciosa cantilena ci racconta come «anche le stelle più grandi si ritrovano nello specchio». 

Per Reynolds il brano descrive la deformazione della realtà a cui la fama può indurre; la stella, come Narciso, si innamora del suo riflesso, ma non appena si avvicina l’immagine comincia a deformarsi. Un amore possibile solo vivendo sempre all’interno dello specchio. In maniera simile, Baudrillard vede in Narciso l’apice dell’integrazione capitalista, poiché «rivela una condizione in cui le soggettività crollano nelle proprie immagini». In netto contrasto, Herbert Marcuse in Eros e civiltà sovverte la lezione classica su Narciso, interpretando il mito come il riverbero della rivoluzione totalizzante: «Le immagini orfico-narcisistiche sono le immagini del Grande Rifiuto, del rifiuto di accettare la separazione dall’oggetto (o soggetto) libidico. Questo rifiuto mira alla liberazione – alla riunione di ciò che è stato separato».

La densa spirale emersa da tutti questi punti che si estendono liberamente nel tempo e nello spazio necessita forse di essere ripercorsa. L’integrazione capitalista, l’affioramento della pura superficie nel momento in cui lo specchio si ribalta: i manichini prendono vita. Il vetro – la vetrina o lo specchio? – si infrange e i manichini sono adesso replicanti liberati nel cuore di una città intrappolata in strani loop temporali. Le intensità scintillano e corrono lungo le superfici lisce del reale, il futuro si schiude. Si potrebbe confondere questo desiderio con una sorta di integrità organica (dopotutto sono stati Deleuze e Guattari a criticare esplicitamente l’idea di una totalità primitiva, prima frantumata e poi ricomposta), ma certe nozioni non hanno presa esclusiva sull’integrazione o sull’unificazione delle parti. Prendiamo il finale di Neuromante: Neuromante e Invernomuto si fondono dando vita a una nuova intelligenza artificiale che si diffonde attraverso la Rete. È il momento in cui, come rivelano i successivi due libri della trilogia, tutto è cambiato: il voodoo digitale (esiste qualcosa di più ingarbugliato temporalmente?) come controparte gibsoniana alla fuga del replicante. 

BIFORCAZIONE 

Nei paragrafi precedenti abbiamo fornito due diverse, seppur intrecciate, descrizioni del cyberpunk: una a partire dall’assalto e dalla riconversione degli strumenti di controllo, l’altra in cui questi stessi strumenti prendono vita. La prima è una storia di resistenza, la seconda qualcosa di completamente diverso. Suggerirei di non rifiutarne una in favore dell’altra, ma di mantenerle al loro posto, in tensione, senza cercare di risolverle o strutturarle con qualche criterio di coerenza. 

Abbiamo raggiunto un punto di svolta. Come si è visto nel capitolo precedente, le lotte autonome, sotto la pressione delle forze dello Stato, cedettero il passo al movimento dei centri sociali, che presto adottò un’indole cyberpunk. Anche le frange del movimento che non si rifacevano apertamente al cyberpunk – come i tedeschi Autonomen – furono chiamate in causa dai creatori del film Decoder (col gruppo italiano che utilizzò il nome come stretta finale di un circuito ricorsivo estremamente eloquente). Allo stesso modo, abbiamo visto come anche l’altro polo della nostra ricostruzione, l’Internazionale Situazionista, abbia alimentato la macchina attraverso un collegamento indiretto con Burroughs. Il cyberpunk si pone in definitiva come un cambio di paradigma: al culmine delle vecchie lotte, immerge lo spirito rivoluzionario in un mondo irriconoscibile, composto per metà da una dominazione ripugnante e onnipresente, e per metà da un senso di liberazione assoluto, ma sarà anche il sintomo del rapido cambiamento dei modi di produzione. 

In altre parole, tutto ciò che seguirà sarà in qualche modo segnato da questo momento, e la tensione che abbiamo descritto emana ancora dalle tangenti sotterranee in ogni evento, nonostante sia rimasta invisibile.